2020-09-01
«Da governo e Rai soltanto false promesse»
Pupi Avati (Leonardo Cendamo/Getty Images)
Il regista Pupi Avati e altre 150 firme dello spettacolo avevano lanciato un appello per programmare più film d'autore, documentari e concerti di qualità: «La solita sceneggiata. Demagogia, superficialità, ignoranza e incompetenza sono fattori dominanti nella nostra epoca».Sono numerosi i registi, le attrici, gli attori, gli operatori al lavoro per iniziare dei nuovi film o le riprese di opere interrotte per la pandemia. Dunque, il rilancio della nostra industria cinematografica è garantita nei prossimi mesi?«Non lo credo proprio», dice Pupi Avati, 83 anni a novembre. «La verità è che il governo, col ministro Dario Franceschini, si è dimenticato della crisi strutturale del nostro cinema. Del resto basta vedere le sale cinematografiche: ogni giorno ne chiudono decine e non solo per ragioni climatiche. «Per adesso», dice l'autore della Seconda notte di nozze, «ci hanno salvato le arene, che ci hanno fatto ritrovare la voglia di cinema, stanchi come eravamo delle repliche dei vecchi film, oltre che dei brutti programmi di intrattenimento. L'esperienza di questi mesi ci ha fatto capire quanta tristezza, quanta nostalgia, si sono sentite con la chiusura delle sale e con la necessità di sostituirle con le piccole scatole televisive».Eppure il declino delle sale appare irreversibile. Non a caso lo stesso ministro e le case di produzione guardano soprattutto ai circuiti televisivi, europei e non solo. Anzi, quando si parla di ripresa del cinema italiano, si pensa soprattutto al grande mercato tv. Pupi Avati, che abbiamo intervistato nei giorni scorsi all'Arena Marconi di Bolsena (Viterbo), dove si proiettava il suo ultimo film, Il Signor Diavolo, non ha dubbi in proposito. «Ci sono certo segnali di ripresa. Questo è innegabile. Io stesso sono già impegnato in due film: il primo, cui sto già lavorando, è sulla famiglia Sgarbi, sulla base di un bellissimo libro del padre di Vittorio, un farmacista e intellettuale coltissimo; il secondo, che seguirà, è ancora più impegnativo: su Dante Alighieri, visto da Boccaccio interpretato da Sergio Castellitto».Niente a che vedere con le performance di Roberto Benigni, immagino.«Assolutamente no. Sono lavori molto diversi».È curioso che da storie di horror, come Il Signor Diavolo, si occupi della famiglia di Elisabetta e Vittorio Sgarbi e poi addirittura del mostro sacro Dante Alighieri. Se questo non è eclettismo… «Non sono l'unico autore che realizza e scrive storie di argomenti diversi».Com'è noto, Il Signor Diavolo è ispirato da una storia di horror ambientata nella pianura padana e che il regista aveva già raccontata nel 1968 in un romanzo. Ora, durante l'isolamento a causa della pandemia, ha scritto il seguito: un nuovo romanzo, sempre di carattere gotico, che uscirà a giorni, per le edizioni Solferino.Il regista, per chi non lo sapesse, è anche uno scrittore molto apprezzato. Ha scritto una ventina di libri. E poi - ricordiamolo - ha diretto più di 50 film, ha scritto innumerevoli sceneggiature e realizzato, una lunga serie di programmi e film per la tv. I riconoscimenti sono numerosissimi. Ricordiamo i David di Donatello, i Nastri d'argento, premio Chiara,ecc. Avati, alla sua età, è superattivo: insegna anche in una scuola di cinematografia e si arrabbia quando scopre che i suoi studenti, che si propongono di fare i registi e gli attori, scambiano il titolo di un film di Federico Fellini (Otto e mezzo) per un'altra cosa.«Molti giovani non capiscono che quella del regista è una professione difficile. È un mestiere che non si può improvvisare. Io ci ho messo una vita. Il grande Fellini faceva sacrifici inenarrabili per fare un film. Per l'ultimo ha sofferto moltissimo e poi non ha potuto farlo. Un altro grande del cinema, Orson Welles, non lo hanno fatto più lavorare. I sacrifici sono veramente molti. E non tutti sono pronti ad affrontarli». Nella sua casa, vicino piazza di Spagna, Avati vive da più di mezzo secolo con la moglie Nicola (nome maschile in omaggio al nonno, molto amato) e dove sono nati i tre figli (Mariantonia, anch'essa regista; Tommaso, sceneggiatore; Alvise, apprezzato e super premiato animatore 3d). Avati è comunque amareggiato, deluso dalle tante promesse dei ministri, delle istituzioni, della Rai.Proprio all'azienda di viale Mazzini lei ha lanciato un appello che ha riscosso l'adesione di oltre 150 autori (tra cui Carlo Verdone, Laura Morante, Luca Zingaretti, Paolo Taviani), in cui si chiedeva di programmare più film d'autore, documentari e concerti di qualità. Che risposta ha ricevuto ?«La solita sceneggiata. I vertici della Rai mi hanno accolto con simpatia e cortesia, riconoscendo la giustezza delle mie proposte. Hanno promesso che le terranno in considerazione, ma in realtà non è cambiato nulla, ma proprio nulla. I palinsesti delle reti sono rimasti quasi del tutto immutati».Forse la concorrenza, sempre più aggressiva, delle reti private ha impedito qualsiasi cambiamento ? «Così lo giustificano i vertici di viale Mazzini e i tanti dirigenti che non sono interessati alla qualità dei programmi. Si ricorda quando esistevano gli indici di gradimento, poi eliminati perché creavano problemi, anche per l'apporto della pubblicità?».Una situazione che è stata peggiorata con il canone di abbonamento obbligatorio inserito nella bolletta elettrica (governo Renzi). In pratica, la concorrenza non esiste più. I conduttori delle trasmissioni, i giornalisti, gli attori passano in modo disinvolto da un rete pubblica a una privata. Come se si trattasse di un'unica grande azienda.«Condivido. La Rai è stata e continua e a essere un'azienda politica. Prima si parlava di lottizzazione. Ora le formule sono cambiate, ma nella sostanza l'influenza dei partiti, di maggioranza e di opposizione, è rimasta immutata». Anche se tutti continuano a parlare di servizio pubblico, di pluralismo, di libertà dell'informazione radiotelevisiva…«Per decenni ho sentito discorsi improntati a quei principi. SI tratta di importanti valori della nostra democrazia, ma che nella pratica della gestione non sempre vengono rispettati, non da uno o due partiti, ma da tutte le forze politiche del passato e di quelle di oggi. Poi c'è il carrierismo, le sfrenate ambizioni di giornalisti, programmisti, dirigenti che cambiano facilmente casacca.» E il merito di cui si continua a parlare nelle conferenze, nelle interviste dei dirigenti Rai, nei discorsi dei leader dei partiti politici? «Lasciamo perdere. Purtroppo la demagogia, la superficialità, l'ignoranza e l'incompetenza sono fattori dominanti nella nostra epoca».Anche nella classe politica? «Soprattutto».Dopo la fase più acuta della pandemia, il ministro Franceschini parla di incentivi creditizi, fiscali, finanziamenti pubblici, ecc. (tutte cose che peraltro già esistevano). «Intanto scontiamo le conseguenze della pandemia, che ha comportato disoccupazione e crisi delle imprese e degli addetti di tutto il mondo dello spettacolo. Fra cinema, teatri e concerti parliamo di circa 150.000 persone e le loro famiglie. Per sostenere questi settori è stato fatto poco, troppo poco». Ma la crisi della nostra industria esisteva anche prima. A parte i cinepanettoni raramente le sale tornavano ad essere affollate come un tempo. Oggi la situazione si è aggravata. E c'è chi paragona le sale alle edicole dei giornali che chiudono per la crisi dell'editoria. «Non sono così pessimista, però certo la crisi c'è ed è molto ampia: crisi strutturale per un piccolo mercato come il nostro, ma anche di talenti… È una grande fatica oggi, più di ieri, fare un film, soprattutto quando si è indipendenti, cioè quando non si è aggregati ad alcun partito o lobby politica». C'è anche una crisi di attori, registi, sceneggiatori? «Ce ne sono anche troppi di registi e attori, ma i talenti sono pochi. I giovani registi sono pragmatici, poco idealisti, almeno se paragonati a quelli che eravamo noi negli anni Sessanta. Quando vedevamo uscire la gente dalle sale, che ci sembrava perplessa dopo aver visto i nostri film, eravamo contenti: avevamo colpito nel segno. Oggi è tutto così diverso».Si guarda forse più al mercato?«Certo, ma anche allora. Sappiamo bene che realizzare un film non è come scrivere un romanzo. Un film ha dei costi e, se non si recuperano, si producono solo dei flop. E dove lo trovi a quel punto un produttore e soprattutto un finanziatore? Oggi, quando ci si incontra tra registi la prima domanda è “quanto ha incassato il tuo film?". Una volta ho chiesto a un mio amico, un regista inglese, quanti film un autore si può permettere di sbagliare. Mi ha risposto categorico: “Non più di due flop, poi ha chiuso definitivamente". Ecco perché devo stare attento, molto attento agli insuccessi .Anche perché chi lo sente poi mio fratello Antonio, che è il produttore?».Forse rischierebbe di tornare a suonare il clarinetto, come nel 1959 quando lavorava in una banda, prima della Doctor Dixie Jazz e poi con Lucio Dalla?«Magari potessi tornare a quei tempi».