L'imam della comunità islamica di Torino, Mohamed Shanin (Ansa)
- Nuova sberla dei giudici al governo. Shahin, che elogiava le stragi del 7 ottobre, resterà in Italia malgrado il decreto di espulsione del Viminale. La Corte di Caltanissetta si appella alla richiesta d’asilo del predicatore, coinvolto nello scandalo dei fondi ad Hamas.
- Mohammad Hannoun rilascia solo dichiarazioni spontanee. Sandro Gozi: Schlein chiarisca i suoi legami.
Lo speciale contiene due articoli.
La decisione della Corte d’appello di Caltanissetta rappresenta un nuovo stop per il governo sul terreno della sicurezza e dell’immigrazione. I giudici hanno infatti confermato che l’imam torinese Mohamed Shahin, in quanto richiedente asilo, può restare sul territorio italiano in attesa che la sua domanda di protezione internazionale venga esaminata. Una pronuncia che non cancella formalmente il decreto di espulsione firmato dal ministero dell’Interno, ma che ne sospende l’efficacia, impedendone l’esecuzione fino alla conclusione della procedura. Si tratta di una conferma di quanto già stabilito in primo grado dal tribunale di Caltanissetta, contro cui l’Avvocatura dello Stato aveva presentato ricorso. Anche in appello, tuttavia, la linea dell’esecutivo si è scontrata con la valutazione dei giudici, che hanno ritenuto legittima la permanenza di Shahin in Italia in virtù della richiesta di asilo presentata dopo l’arresto. Un esito che, sul piano politico, viene letto come l’ennesimo schiaffo al Viminale, impegnato da mesi a difendere un provvedimento adottato esclusivamente per ragioni di sicurezza nazionale.
La vicenda affonda le sue radici nello scorso novembre, quando il ministero dell’Interno aveva emesso un decreto di espulsione nei confronti dell’imam, motivandolo con la presenza di elementi ritenuti indicativi di una radicalizzazione ideologica. Al centro del dossier vi erano anche alcune dichiarazioni sulla strage compiuta dai miliziani di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, considerate dalle autorità incompatibili con la permanenza sul territorio nazionale. In seguito al decreto, Mohamed Shahin era stato trasferito nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Caltanissetta, in attesa dell’esecuzione dell’espulsione. Ma già in quella fase era arrivato un primo, significativo stop per il governo: la Corte d’appello di Torino aveva infatti disposto la sua liberazione, ritenendo che non sussistessero i presupposti giuridici per il trattenimento nel Cpr. Una decisione che aveva di fatto indebolito l’impianto del provvedimento ministeriale, pur senza metterlo formalmente in discussione.
Ora, con la pronuncia della Corte d’appello di Caltanissetta, l’azione dell’esecutivo subisce un ulteriore rallentamento. I giudici non entrano nel merito del decreto di espulsione, ma ribadiscono che la presentazione di una domanda di protezione internazionale produce effetti sospensivi, imponendo allo Stato di attendere l’esito della procedura prima di procedere con l’allontanamento. Una distinzione tecnica, ma politicamente pesante, perché di fatto congela l’iniziativa del governo. Sul piano amministrativo resta aperto un altro fronte cruciale: quello relativo alla revoca del permesso di soggiorno di Shahin. Su questo aspetto dovrà pronunciarsi il Tar del Lazio nel mese di gennaio. Anche in questo caso, però, i tempi della giustizia amministrativa si sovrappongono alle esigenze di sicurezza rivendicate dal Viminale, alimentando la frizione tra poteri dello Stato.
A complicare ulteriormente il quadro è l’emersione del nome di Mohamed Shahin negli atti dell’Operazione Domino, l’inchiesta che ha portato alla scoperta di una presunta rete di raccolta e trasferimento di fondi destinati a Hamas. Nell’ordinanza firmata dal gip Silvia Carpantini viene ricostruita l’attività della cosiddetta cellula di Mohammed Hannoun, attiva anche in Italia. Tra i contatti citati compare più volte - pur senza risultare indagato - proprio l’imam di Torino. Il suo nome emerge in diverse conversazioni intercettate, talvolta con errori di battitura, ma comunque riconducibili a Shahin. Dagli atti risulta che l’imam intrattenesse rapporti diretti con uno degli arrestati, l’uomo accusato di raccogliere fondi a Torino per destinarli a Gaza. Un elemento che rafforza, sul piano politico, la convinzione dell’esecutivo di trovarsi di fronte a un profilo altamente problematico, anche in assenza di contestazioni penali formali. Non sorprende, quindi, la dura reazione di Fratelli d’Italia. La deputata Augusta Montaruli, che da tempo segue il caso, parla apertamente di una distorsione del sistema. «È incredibile - ha dichiarato - che dopo anni di permanenza in Italia emerga una richiesta di protezione internazionale solo a seguito di un decreto di espulsione. Ma ancora più incredibile è che questo strumento diventi un modo per bloccare l’allontanamento, a fronte di elementi che, al di là delle eventuali responsabilità penali, si aggiungono ad altri che già motivavano un’espulsione preventiva per ragioni di sicurezza nazionale». Il caso di Mohammed Shahin si conferma così come uno dei dossier più sensibili per il governo sul fronte dell’immigrazione e della prevenzione. Non un annullamento formale delle decisioni del Viminale, ma una serie di incredibili stop giudiziari che ne paralizzano l’efficacia, alimentando lo scontro politico e lasciando aperta una partita che, tra tribunali ordinari, giustizia amministrativa e procedure di asilo, è tutt’altro che chiusa e che mette a repentaglio la sicurezza nazionale.
Hannoun non risponde alle domande. A sinistra presentano il conto a Elly
La notte di Mohammad Hannoun nel carcere di Marassi ha già una scadenza. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha deciso che il carcere genovese non è il posto giusto per un uomo accusato di terrorismo. E così, a breve, l’architetto palestinese di 63 anni, indicato dagli inquirenti come figura apicale della cellula italiana di Hamas, verrà trasferito. A Ferrara o ad Alessandria, entrambe strutture dotate di sezioni ad «alta sorveglianza», quelle riservate ai detenuti accusati di terrorismo o eversione. Sezioni speciali. Sorveglianza rafforzata. Isolamento più rigido. «Si tratta di una decisione amministrativa che non dipende né dalla giudice né dalla Procura», spiegano i suoi difensori, Fabio Sommovigo ed Emanuele Tambuscio. Hannoun, dal momento dell’arresto, è stato posto in isolamento. Sabato le manette, poi Marassi. E ieri mattina alle 9 in punto l’interrogatorio di garanzia davanti al gip che l’ha privato della libertà: Silvia Carpanini. E la scelta dell’indagato è stata netta. Hannoun si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Gli abbiamo consigliato noi di avvalersi», spiegano ancora i legali, «perché non ha avuto modo ancora di leggere gli atti». Ma non è stato un muro totale. Perché Hannoun, pur senza rispondere alle domande, ha rilasciato dichiarazioni spontanee. Ha parlato per circa mezz’ora. Ha rivendicato la sua storia, la sua attività di raccolta fondi «per iniziative precise di beneficenza a favore del popolo palestinese in tutte le sedi, cioè Gaza, la Cisgiordania e i campi profughi, attività che ha cominciato a svolgere negli anni Novanta». Hannoun ha confermato la finalità umanitaria del suo agire e ha provato a smontare la pietra angolare dell’accusa: ha negato con forza di avere finanziato direttamente o indirettamente Hamas. Poi ha spiegato come funzionava la raccolta fondi e la loro distribuzione prima e dopo il 7 ottobre 2023. Da una parte l’accusa, che parla di oltre 7 milioni di euro transitati attraverso associazioni benefiche fondate e guidate da Hannoun, soldi che secondo gli investigatori avrebbero alimentato Hamas. Dall’altra la versione dell’indagato, che insiste su un’attività di beneficenza cominciata 30 anni fa, su canali, modalità e contesti che, a suo dire, nulla avrebbero a che fare con il finanziamento del terrorismo. I suoi avvocati valutano i prossimi passi, ovvero «se presentare una qualche istanza di attenuazione della misura o se proporre ricorso al tribunale del Riesame». Sulla vicenda piove da sinistra una bomba su Pd. A lanciarla è l’ex dem Sandro Gozi, eurodeputato dei centristi di Renew Europe (ma è stato eletto con il partito di Emmanuel Macron) e segretario generale del Partito democratico europeo, in relazione alle manifestazioni pro Pal: «La sinistra deve fare i conti con una realtà scomoda. C’è imbarazzo, legato a una sottovalutazione e a un’ingenuità, da parte dei propri leader. Questo mix deve essere subito superato da Elly Schlein, altrimenti non puoi guidare il Pd». La ramanzina di Gozi prosegue: «Parliamo di posizioni politiche molto nette, come quelle di chi ha definito Hamas un movimento di resistenza o che ha detto che si possono uccidere tranquillamente gli ebrei, che non potevano essere mescolate con l’entusiasmo di tanti giovani e non che, in buona fede, hanno partecipato alle iniziative pro Pal. Movimenti interi sono stati strumentalizzati». L’eurodeputato ha poi criticato duramente anche il comportamento di alcuni amministratori locali dem: «Quei sindaci, che sono andati a quelle manifestazioni, sono stati davvero degli sprovveduti a dare, poi la cittadinanza onoraria a un personaggio come la Albanese». Il riferimento è a Francesca Albanese, la giurista relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. «Anche Bonelli (Angelo, portavoce di Alleanza dei Verdi e Sinistra, ndr), dopo le ultime rivelazioni, ha dovuto scaricarla».
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Sara Kelany (Imagoeconomica)
I giudici costituzionali promuovono il criticatissimo (da sinistra e ong) emendamento. Kelany: a decidere sui trattenimenti non saranno più le sezioni speciali dei tribunali.
Dal rischio di incostituzionalità a quello di mettere in ginocchio le Corti territoriali, gli scenari più grigi erano stati paventati tutti. E invece niente. La Corte Costituzionale ha dato ragione alla misura del governo che sposta la decisione sulle convalide del trattenimento dei migranti alle Corti d’Appello. Sottraendola alle sezioni specializzate. Come stabilito in un emendamento al decreto flussi presentato poco più di un anno fa da Sara Kelany responsabile del dipartimento immigrazione di Fratelli d’Italia.
Poi a maggio, un giudice della corte d’Appello di Lecce, ritenendo che su un tema complesso come la protezione internazionale il giudicante debba essere specializzato, aveva rimesso la questione nelle mani della Corte Costituzionale. Che invece, in materia di immigrazione, ha promosso il governo a pieni voti. Diversamente dalle misure in materia di pedaggi in autostrada che saliranno del 15% o del fine vita dove il ricorso del governo contro la regione Toscana è stato accolto a metà. «Per mesi le sinistre, ong e parte della magistratura ci hanno attaccato ferocemente affermando che avremmo voluto cambiare il giudice naturale e dicendo che la norma sarebbe stata illegittima», ha commentato Kelany. «Niente di tutto questo».
Il coinvolgimento delle Corti d’Appello era nato in risposta al muro eretto dal tribunale di Roma contro i trasferimenti dei migranti in Albania, con i trattenimenti nei centri sistematicamente annullati dai giudici. Carrellate di ricorsi e altrettanti accoglimenti fotocopia.
Un’alzata di scudi da parte delle sezioni immigrazione dei tribunali civili che hanno portato l’operazione Albania ad un impasse, ad utilizzare i centri di Shengjin e Gjadër come cpr per destinatari di provvedimenti di espulsione, e quindi a congelare la funzione per cui erano nati, quella di basi per operazioni accelerate di frontiera destinate a chi sbarca da paesi sicuri.
Ma proprio questo era il punto contestato dai giudici delle sezioni immigrazione che anziché valutare le posizioni dei singoli migranti, avevano messo in dubbio il diritto da parte del governo di stilare una propria lista di Paesi sicuri. Una posizione che i giudici dichiaravano di prendere solo in punta di diritto, in linea con la Corte di giustizia europea e il principio per cui un Paese o è sicuro per tutti o non lo è.
Caso dopo caso però, con i trattenimenti dei migranti tutti sistematicamente respinti, è emersa una matrice probabilmente ideologica visto che la Corte di giustizia europea non detta ai magistrati una linea ma dà l’opportunità di un controllo giurisdizionale. Che però, curiosamente, è andato sempre in un’unica direzione. Contraria a quella del governo.
In primis Silvia Albano, a capo della sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, presidente di Magistratura democratica e sostenitrice di una lettura a dir poco estensiva del diritto di asilo.
Ora però in linea con le scelte del governo c’è anche l’Europa visto che nel 2026, probabilmente già a febbraio, sarà operativa la lista sui Paesi sicuri. Tra questi anche Egitto e Bagladesh, rigorosamente nella black list dei Paesi più insicuri secondo i giudici. «I riconoscimenti che stiamo ottenendo a livello europeo dimostrano che le nostre decisioni non sono prese sulla base dell’ideologia ma della legge. Le persone hanno bisogno di norme certe di capire chi può essere accolto e chi no. A beneficio anche di chi ha veramente diritto alla protezione», così il senatore Marco Scurria di Fdi. Soddisfazione dalla maggioranza, con Nicola Molteni, sottosegretario al ministero dell’Interno che spiega come la decisione della Corte conferma che la strada intrapresa dal governo per contrastare l’immigrazione irregolare, di massa, senza regole è quella giusta. «Oltre il 35% dei reati in Italia sono connessi da stranieri che diventano oltre il 50% per i reati predatori da strada. Quindi bloccare l’immigrazione illegale è funzionale per garantire sicurezza nelle nostre città».
Linea sostenuta da sempre anche dall’europarlamentare della Lega Anna Cisint che punta il dito contro i rallentamenti causati da iniziative giudiziarie «su un tema che invece richiede decisioni rapide e responsabili. È sempre più ovvio quanto nel nostro Paese sia necessaria la separazione delle carriere. La gestione dei temi legati ai migranti irregolari, ai trattenimenti e alle procedure di estradizione è condizionata dall’azione congiunta di una parte della politica e della magistratura che operano secondo logiche ideologiche».
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Imagoeconomica
Il sorteggio smantellerà la cappa soffocante delle correnti, liberando quei molti magistrati che per lungo tempo hanno dovuto tacere per non essere ostracizzati.
L’appuntamento referendario del prossimo marzo costituisce un’occasione da non perdere per una svolta riformatrice delle istituzioni. Si fronteggiano oggi due visioni culturali diametralmente opposte: da un lato il partito del No a tutti i costi, che col pretesto della sacralità della Costituzione nulla vuole cambiare - e che non a caso si identifica in un ben determinato schieramento politico e ideologico - e dall’altro il fronte del Si, più trasversale e multitasking, che abbraccia, oltre all’ala filogovernativa, anche una certa parte dell’elettorato che si riconosce nei valori della sinistra più moderata, moderna e consapevole.
Al centro del dibattito c’è il futuro assetto della magistratura, tra indipendenza e garanzie del cittadino.
Partiamo dalla prima, e cominciamo col chiederci se la riforma inciderà in maniera positiva sull’autonomia della magistratura, sia come ordine, contro i tentativi di condizionamento provenienti dalla politica, e sia al livello del singolo magistrato, a tutela della libertà di ciascun giudice di decidere secondo scienza e coscienza, a fronte di eventuali pressioni da parte di singoli soggetti o centri di potere interni alla magistratura stessa.
La risposta è certamente sì.
Cominciamo col dire che l’articolo 104 della Costituzione, come riformulato, prevede al primo comma che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente». Inoltre, in base al quarto comma, i rapporti di forza tra componenti laici e togati all’interno dei due Csm (della magistratura giudicante e requirente) resteranno invariati (rispettivamente, un terzo e due terzi). Mentre l’Alta Corte, a cui secondo l’articolo 105 spetterà la giurisdizione disciplinare nei confronti dei giudici e dei pubblici ministeri, risulterà composta da 15 giudici, di cui tre nominati dal presidente della Repubblica - ovvero la massima istituzione di garanzia dello Stato -, tre estratti a sorte da un elenco di soggetti altamente qualificati eletti dal Parlamento in seduta comune, e altri nove estratti a sorte dai magistrati giudicanti e requirenti (sei giudici e tre pubblici ministeri) con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie, e che svolgano, o abbiano svolto, funzioni di legittimità presso la Suprema Corte di Cassazione.
Come si vede, quindi, l’indipendenza esterna della magistratura resterà garantita al massimo grado contro le invasioni di campo della politica.
Passiamo poi alla indipendenza interna, che uscirà notevolmente rafforzata dalla riforma attraverso il sistema del sorteggio, il vero e proprio perno intorno al quale ruoterà il nuovo assetto della magistratura, e contro il quale, nella reale sostanza, anche se non nella forma, si levano ora le voci di protesta delle correnti, dove con tale termine si intendono le conventicole interne all’Associazione nazionale magistrati, siano esse di destra, di centro o di sinistra.
Già molti anni fa, chi scrive rassegnò le proprie dimissioni dall’Anm perché non condivideva le logiche spartitorie e il ruolo di centro occulto di potere assunto dall’organismo sindacale delle toghe, soprattutto a seguito della riforma Mastella, che, sostituendo il vecchio sistema basato sull’anzianità di servizio con degli astratti e opinabili criteri di merito e attitudini, aveva di fatto finito con l’attribuire al Csm, e quindi alle correnti, una pressoché assoluta discrezionalità nelle procedure di nomina dei capi degli uffici giudiziari, sia giudicanti che requirenti.
Una discrezionalità di cui, invero, si è fatto un pessimo uso, e che di fatto è sconfinata nell’arbitrio, come ha dimostrato la vicenda Palamara.
Da allora, avvolta nella cappa soffocante delle correnti, la magistratura è diventata sempre più un luogo burocratico e senza anima, asfittico e soffocante, ideologicamente orientato, autoreferenziale e separato dal contesto sociale. Facendo leva sugli appetiti carrieristici, si è sacrificata la libertà dei singoli magistrati sull’altare della onnipotente pervasività delle conventicole associative.
Ma torniamo alla riforma.
Cosa vuol dire precisamente «separazione delle carriere»? Perché il fatto di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri aumenterà le garanzie del cittadino? E perché il sorteggio dei componenti togati dei Csm garantirà una maggiore autonomia dei magistrati?
Per diverse buone ragioni.
In primo luogo, separare le carriere vuol dire che non solo gli avanzamenti in carriera, ma anche le promozioni e tutto ciò che riguarda le sorti professionali dei magistrati (e quindi, ad esempio, anche le ambite nomine alla Scuola Superiore della Magistratura) non verranno più decise nella comune «stanza di compensazione» di un unico Csm, ma da due Csm diversi, uno per i giudici e un altro per i pubblici ministeri. Quindi, non accadrà più che i pubblici ministeri decidano sulle carriere e sulle vicende disciplinari dei giudici e viceversa. Questo non potrà che rafforzare l’autonomia sia degli uni che degli altri.
In secondo luogo, il potere dell’Anm ne uscirà di fatto fortemente ridimensionato, in quanto la separazione delle carriere e il sorteggio ostacoleranno gli accordi spartitori delle correnti, liberando i magistrati dal soffocante giogo delle conventicole. Aumenteranno di conseguenza sia il tasso di autonomia interna della magistratura che le garanzie dei cittadini.
In terzo luogo, il sorteggio dei componenti togati del Csm reciderà il rapporto tra elettore ed eletto, rendendo più trasparenti le nomine dei capi degli uffici, che pertanto si baseranno più su criteri meritocratici che di appartenenza ideologica, facendo quindi anche diminuire, auspicabilmente, il numero dei ricorsi al giudice amministrativo, che negli ultimi anni sono esponenzialmente aumentati e hanno determinato un danno per l’immagine della magistratura.
Questi sono tutti fattori che rafforzeranno concretamente l’autonomia e l’imparzialità dei giudici, sia rispetto alle correnti che all’ufficio del pubblico ministero, rendendo, nel complesso, le decisioni di tutti i magistrati più trasparenti, autorevoli e libere da interferenze esterne. Di conseguenza, ci troveremo di fronte anche a una magistratura più efficiente e più attenta alle garanzie dei cittadini.
Ma separare le carriere vuol dire anche andare verso una maggiore specializzazione e aumentare la professionalità del magistrato. Il mestiere del pubblico ministero è infatti profondamente diverso da quello del giudice, perché occorrono specifiche competenze in vari settori del sapere quali l’informatica, la dattiloscopia, la medicina legale, la psichiatria, la grafologia e la criminologia, che sono propri più dell’inquirente che del giurista. Senza contare che il coordinamento della polizia giudiziaria richiede particolari attitudini e percorsi esperienziali diversi, oltre che, a volte, valutazioni di opportunità e persino di natura economica (costi-benefici) che sono estranee, in linea di principio, alla cultura della giurisdizione intesa in senso stretto. Una cosa è infatti scrivere una sentenza, ben altro è disporre od eseguire una perquisizione, svolgere un sopralluogo, oppure stabilire quante unità di polizia giudiziaria impiegare in una certa indagine.
In tal senso, la maggiore specializzazione consentirà anche una migliore qualità delle indagini, e un più efficace contrasto di ogni forma di criminalità.
E ancora, con il sorteggio verranno meno le gravi opacità emerse dallo scandalo Palamara, e sarà possibile recuperare almeno in parte la fiducia dei cittadini verso l’istituzione della magistratura, che viene oggi sempre più vista come una corporazione a sé, piuttosto che un ordine autonomo e indipendente al servizio dei cittadini.
Un’ultima importante osservazione. Il fatto che un’associazione privata come l’Anm, e quindi per definizione permeabile alla politica, possa decidere di fatto le nomine dei procuratori della Repubblica costituisce un’anomalia tutta italiana, che non ha precedenti nel mondo occidentale e determina un pericolo esiziale per gli equilibri democratici del Paese. Votare a favore della riforma vuol dire perciò porre riparo a tale anomalia e ricondurre l’Italia sui binari della normalità attraverso un più corretto bilanciamento dei poteri dello Stato.
Che altro dire? È questa la migliore delle riforme possibili? Forse no. Ma, come si sa, il meglio è nemico del bene, soprattutto se l’alternativa alla riforma è il sistema di potere correntizio anestetizzato dal non-pensiero delle false ideologie.
Soprattutto, questa è una riforma a tutela dei cittadini, ma anche di quei tanti silenziosi magistrati che non aspettano altro che di essere liberati dalla tirannia delle conventicole, e che per troppo tempo hanno dovuto tacere per non incorrere nell’ostracismo e nell’emarginazione.
Piuttosto, quel che è più grave è che - qualunque sarà l’esito del referendum - con l’abbracciare in maniera così drastica la causa del No, l’Anm si è fatto soggetto politico, e questo ha già determinato e determinerà un ancor più grave danno all’immagine dell’intera magistratura. Danno che sarà difficilmente sanabile nel breve periodo, e che non basteranno a riparare né le fake news o le improbabili chiamate alle armi a difesa della democrazia, e né tantomeno le coccarde sulla toga.
di Paolo Itri
Magistrato e scrittore, presidente di sezione della Corte tributaria di Napoli
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