2020-01-29
«Curo gli ammalati, però non li guarisco»
Il direttore di Vidas Giada Lonati,, associazione che assiste chi è alla fine della vita: «Spesso ci dimentichiamo che il dottore può intervenire fino a un certo punto. Chi promette la salvezza sempre, non è lucido. La morte di un paziente non è il fallimento della medicina».«La salute è la vita nel silenzio degli organi», sosteneva nella prima metà del Novecento René Leriche, chirurgo e fisiologo francese. Dello stesso parere era il connazionale Paul Valéry, noto letterato, il quale descriveva la salute come «lo stato in cui le funzioni necessarie si compiono insensibilmente o con piacere». È nel rumoreggiare sordo del corpo che opera invece Giada Lonati, 51 anni, medico palliativista e direttore sociosanitario di Vidas, associazione laica fondata nel 1982 per offrire assistenza gratuita ai malati a fine vita: circa 2.000 all'anno, tra sostegno in struttura e intervento a domicilio. Come tutti i palliativisti, Giada accompagna i pazienti inguaribili nel tratto finale dell'esistenza: lavora sul dolore. Anzi, contro il dolore, morfina, sedazione profonda, eccetera. È tra coloro che sono considerati angeli. «Secondo l'etimologia greca, il terapeuta non è colui che guarisce, ma il servitore che si prende cura», osserva mentre mi dà il benvenuto a Casa Vidas, hospice milanese che dal 2006 accoglie centinaia di degenti. Nello stesso isolato, pochi mesi fa, è sorta Casa sollievo bimbi, complesso di sei mini appartamenti riservato a bambini e adolescenti con patologie gravi.«Qui nessuno indossa un camice. Vogliamo trasmettere l'idea che siamo tutti esseri umani», spiega Lonati muovendosi con familiare destrezza nel silenzioso dedalo di corridoi, le sue mani ricoperte di annotazioni scritte a penna. «Ho troppe cose da ricordare. Fare il direttore a volte è una tortura. Odio gestire i conflitti tra colleghi. Quando vado a casa dei malati, paradossalmente, è il mio momento di tregua».Nel suo libro, L'ultima cosa bella, si è definita «un medico che non guarisce». Non è un ritratto impietoso?«Affatto. Spesso ci scordiamo che i medici possono guarire fino a un certo punto. Chi promette la guarigione, o è poco lucido, o non sa comunicare col paziente. C'è stato un obnubilamento da medicina che doveva guarire sempre; ci siamo sentiti onnipotenti e abbiamo sbagliato. I pazienti muoiono, e la morte non è il fallimento della medicina».Difficile spiegarlo a chi si ammala.«Poco dopo l'uscita del libro, il marito di una paziente mi disse: “Voi siete l'ultima cosa bella che abbiamo incontrato". Mi ha fatto pensare che esistono tanti pregiudizi sul cancro. Che il fine vita è un tempo possibile di scoperta della bellezza nel quotidiano».Ha scritto della difficoltà dei medici a dire la verità senza togliere la speranza. In cosa può sperare un essere umano, se non nella guarigione, nella vita?«Ci sono persone che riescono a trovare una speranza nell'orizzonte del reale, del possibile. Ognuno di noi ha tante piccole aspettative che abbandoniamo sul cammino della vita. Nel caso di un paziente inguaribile, speranza può significare vedere un figlio laurearsi, o assistere alla nascita di un nipotino».Qual è il pregiudizio più grande sul cancro?«L'idea che si muoia come si è vissuto. Tante volte, una malattia grave scompagina il tuo mondo di valori, il tuo orizzonte. Gli automatismi della vita vanno a farsi friggere».Spesso passa l'idea che lo sconfigga chi lotta di più.«Oltre a essere un'idiozia, è un giudizio crudele. Indotto, credo, dal nostro sistema di difesa: ci raccontiamo che se uno avesse reagito avrebbe vinto. Ho visto persone innamorate della vita che non ce l'hanno fatta. Dobbiamo uscire dallo schema della guerra per entrare in uno schema di accettazione, di mistero».Perché c'è ancora tanto pudore nel chiamare il cancro col suo nome?«Perché è associato alla morte e la morte è la grande rimossa della nostra epoca. Voi media siete immersi in questa cultura, dunque ci raccontate solo quello che vogliamo sentirci dire. Pensi alla tv: spettacolarizza la morte costantemente, ma ne parla pochissimo».Quanti anni aveva quando cominciò a fare la palliativista?«Ventisei. Mi ero appena laureata in oncologia. La prima volta che entrai in casa di un paziente mi innamorai di questo lavoro. Era il modo di fare il medico che avevo sempre immaginato. Ogni casa è un mondo, ogni giorno una nuova scoperta».Cosa è cambiato in quella ragazza?«Difficile distinguere tra i cambiamenti determinati dall'età e quelli prodotti dall'esperienza a Vidas. Di certo, le cure palliative ti costringono a porti delle domande su cosa sia essenziale. Sono un esercizio filosofico. Mio marito, che mi conosce dai tempi del liceo, dice che sono sempre stata austera ed essenziale. Non so se sia vero…».Riesce davvero a non perdersi in stupidaggini?«Sono difettosa come tutti gli esseri umani, non mi considero più saggia. Ancora non mi sono abituata a vedere allo specchio il corpo che cambia, le rughe. Dovrò imparare a farci i conti, questo attaccarsi all'immagine è una cosa patetica. Mi sento più fortunata, questo sì. Non è un memento mori, è uno sprone a vivere intensamente. Per me è stata un'opportunità anche essere malata».In che senso?«Durante la mia prima gravidanza, sviluppai una malattia piuttosto seria che mise a rischio la vita di mio figlio e la mia. Uno dei medici che consultai mi suggerì di abortire; ricordo ancora la sua faccia mentre, masticando la cicca, diceva: “Dopo questo figlio, ne fai altri dieci sani". Invece non riuscii più ad averne. Francesca, la mia secondogenita, nacque con la fecondazione in vitro. Fu un momento fondante per la mia esistenza. Quando passi dall'altra parte e sperimenti sul tuo corpo la malattia, torni a fare il medico con uno sguardo diverso».Esiste una formazione che educhi i medici all'empatia?«Di recente si è creata una parte di medical humanities che ai miei tempi non esisteva. Uno spostamento verso quella che chiamano umanizzazione della medicina. I test di facoltà, però, sono ancora molto tecnici. Se una tecnica la impari, l'empatia deve essere nelle tue corde, altrimenti è difficile. Certo, si può affinare… anche attraverso gli errori. Io stessa ne ho fatti. Come tutti i medici, imparo dai pazienti».C'è un errore che non si perdona?«In 25 anni ho ricevuto infinite lettere di ringraziamento, solo due di protesta. Purtroppo, ricordo quest'ultime più delle altre. Per me hanno rappresentato l'incapacità di trovare una chiave per comunicare; ma anche l'incapacità di una parte dell'umanità di accettare che si debba morire. Conservo entrambe le lettere con immenso dolore».Sono più complicate le relazioni coi malati o con le famiglie?«Con i parenti è più faticoso. Spesso la medicina riconosce nella famiglia una minaccia, perché si frappone tra paziente e medico. Non solo: il paziente muore, la famiglia rimane, deve essere oggetto di cure. Ha un bagaglio di sofferenza che può trasformarsi in rabbia, rancore. Ecco perché è importante costruire un rapporto di fiducia».Mi dice il suo peggior difetto?«Sono un'iraconda. Non sopporto la trasandatezza, penso che fare una cosa equivalga a farla bene. E ho poca pazienza, quindi amo chi ha il dono della sintesi».Si potrebbe accusarla di avere un deficit di attenzione.(Ride). «Mi dicono anche questo. Detesto che mi si chieda di prendere decisioni in mezzo a un corridoio. C'è un metodo per tutto».Nel privato, invece, cosa le fa perdere le staffe?«Le stesse cose. I miei figli sono adolescenti e io sono una mamma piuttosto ingombrante. Anche molto contestata. Dico sempre che sono una donna di 51 anni e una madre di 20. Genitori si diventa, e si scopre che spesso i figli dicono delle verità assolute».Per esempio?«Una volta, mentre lo sgridavo, mio figlio mi disse col magone: “Sai qual è il tuo problema? Che quando parli arrivano prima le tue emozioni e poi le parole". Una lettura perfetta, che spiega perché sono considerata un'ottima comunicatrice. In alcune situazioni è importante che le emozioni arrivino per prime».Riesce a segnare un confine tra lavoro e vita privata?«Il confine va cercato di volta in volta. San Martino, il santo protettore dei palliativisti, tagliò il suo mantello a metà gettandone una parte sul povero per ripararlo dal freddo e tenendo l'altra per sé (il termine palliativo deriva appunto da pallio). Nessuno di noi può donare tutto il mantello». Ha paura di ammalarsi?«Ne avevo molta quando i bambini erano piccoli. Ora ho paura che si ammalino loro. Mi spaventa il pensiero di perdere l'autonomia, o la morte improvvisa; preferirei avere il tempo di sistemare certe cose. Questo lavoro mi ha insegnato a non rimandare; cerco di non chiudere mai le mie giornate in conflitto con le persone che amo».Parla della morte coi suoi figli?«Parlo molto del mio lavoro in generale. Mio marito dice che respiro, mangio, dormo e Vidas. Anche senza volerlo, i miei figli sono coinvolti. Eppure, in casa mia si ride tantissimo. Quando Samuele era piccolo, seguivo un paziente di cui mi aveva sentito parlare più volte. Un giorno, mentre giocava con i Lego, ricevetti una telefonata in cui la moglie mi informava che il marito era morto. Samuele smise di giocare ed esclamò: “È morto anche questo?", come a dire “Ma che razza di medico sei?". Fu un modo per spiegargli che un medico è anche questo. Oggi che ha 20 anni ed è iscritto a medicina, dice che farà il neonatologo, l'opposto della mamma».Ha mai visto qualcuno andarsene «pronto»?«Non è tanto l'essere pronti ad andarsene, quanto l'essere capaci di affidarsi. Ho visto persone capaci di essere come foglie sull'acqua, in grado di lasciarsi trasportare dalla corrente. Ecco, penso che quelle si possano considerare più pronte di altre».Cosa la commuove?«Percepire l'universalità del dolore. Come se la sofferenza degli altri risuonasse dentro di te. Avverti il dolore della lacerazione. La pelle si fa sottile. Credo si chiami compassione».