2020-03-07
Crolla il castello di carte tedesco: «Abbiamo dei focolai come in Italia»
Il ministro della Salute, Jens Spahn, ammette: «I nostri casi non sono importati». La Germania ora è a quota 534, con 134 malati in un solo giorno. Tenuto nascosto il contagio in Baviera.Crolla anche l'ultimo baluardo dell'infame propaganda che dipingeva il nostro Paese come untore mondiale del coronavirus. È stato lo stesso ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, a margine del Consiglio straordinario svoltosi ieri a Bruxelles, a confessare sconsolato: «Abbiamo più focolai, ma la maggioranza dei casi non è più importata dall'Italia, dalla Cina o dall'Iran o da altri Paesi». Smontata dunque - si spera una volta per tutte - la narrazione che per settimane ha imperversato da una parte all'altra del globo. «Sono casi che non sembrano più importati, quindi possiamo paragonare la nostra situazione a quella dell'Italia e a quella della Francia», ha spiegato il ministro della Salute, «ci sono molti Paesi che sono ancora nella fase “detect and contain" (rintraccia e contieni, ndr) come noi dieci giorni fa, ma è un tipo di situazione in cui tutti si ritroveranno prima o poi». Dunque Spahn alza bandiera bianca e ammette che, anche da quelle parti, la situazione ormai si è fatta seria. D'altronde, gli ultimi dati diffusi dal Robert Koch institut (Rki) parlano chiaro: il numero di casi in Germania sta salendo molto rapidamente. Fino a ieri, sono 534 le persone risultate positive al test, ben 134 in più rispetto al giorno prima. Nel podio degli Stati più colpiti, svetta la Renania settentrionale-Vestfalia (281 casi), seguita dal Baden-Wurttemberg (91) e dalla Baviera (79). Molto presto, dunque, Berlino potrebbe trovarsi nella stessa situazione in cui versa l'Italia. Sia ben chiaro, non c'è nulla da festeggiare, tutt'altro. Più il virus si propaga, più persone rischiano di soffrire e necessitare di cure, maggiore sarà l'impatto sociale ed economico. Certo, bisogna anche ammettere che rispetto a agli ultimi giorni la situazione si è completamente ribaltata. Oggi che il problema rischia di diventare globale, si moltiplicano gli appelli alla solidarietà e alla condivisione delle informazioni. Ma quando l'epidemia è scoppiata un paio di settimane fa, il nostro Paese si è trovato ad affrontare in solitudine quella che rischia di trasformarsi nella più grave emergenza sanitaria dal dopoguerra ad oggi. Come se non bastasse, i nostri vicini non hanno esitato a puntarci il dito senza pietà, accusandoci di aver sparso ovunque la pestilenza. Le parole pronunciate da Jens Spahn hanno il grande merito di segnare, finalmente, un doveroso ritorno alla realtà. Perché se è vero che i virus non conoscono né lingue, né confini, bisogna ammettere che sono stati tanti i campanelli d'allarme ignorati. Per prima cosa, c'è un dato scolpito sulla pietra ma che molti - anche nella comunità scientifica - hanno bellamente scelto di ignorare: il «paziente uno» non è un italiano, bensì un tedesco. Nessun campanilismo, per carità, solo fatti. Settimane prima che scoppiasse il focolaio lombardo, il 27 gennaio 2020, un manager di 33 anni dell'azienda di componentistica auto Webasto (con sede a Stockdorf, vicino a Monaco) è risultato positivo al patogeno. A trasmetterglielo, pochi giorni prima, una collega cinese in visita in Germania da Shangai e risultata positiva al test una volta rientrata in patria. La storia del «paziente 1» è scritta nero su bianco in un articolo pubblicato da un team di studiosi sul New England journal of medicine il 30 gennaio scorso.È passato poco più di un mese, eppure sembrano secoli fa. Già si parlava di coronavirus, ma in Europa la minaccia era percepita ancora in maniera molto flebile, e d'altronde l'Oms non aveva nemmeno ancora dichiarato l'emergenza sanitaria a livello mondiale. Se andiamo a rileggere i giornali tedeschi dell'epoca, a pensarci oggi vengono i brividi. Nella sede della Webasto, «l'unico segno della malattia è una bottiglia di disinfettante al banco della reception, ma né il flacone né la proposta formulata dal consiglio di amministrazione di lavorare da case sembrano interessare i dipendenti», scrive la Suddeutsche Zeitung all'indomani dell'annuncio della positività al test. L'atmosfera nello stabilimento del contagiato viene definita «molto rilassata». Le cose cambieranno di lì a poco: la sede verrà chiusa e centinaia di persone verranno messe in quarantena. Ma chi può dire cos'è successo nel frattempo? Chi ha viaggiato da Monaco e in quale direzione, quanti mani ha stretto, da quanti bicchieri ha bevuto, se ha starnutito o tossito nelle vicinanze di qualche altra persona… Qualche scienziato ha provato a mettere in dubbio il dogma secondo il quale il virus si è diffuso nel resto del mondo attraverso il nostro Paese. Così facendo, si è dovuto scontrare con fortissime resistenze. Uno di questi è Trevor Bedford, ricercatore al Fred Hutch di Seattle, il quale studiando la genetica del virus ha rilevato che quello tedesco sembra essere il «progenitore» degli altri ceppi europei e dunque responsabile «di una certa frazione dell'epidemia in corso» nel continente. Apriti cielo. Diversi colleghi hanno contestato i risultati e Bedford è stato costretto a fare parziale marcia indietro. Contattato dalla Verità, non ha mai risposto. Così come si è trincerata dietro il silenzio anche l'autrice dello studio sul «paziente uno», la dottoressa Camilla Rothe dell'università di Monaco, la quale dopo averci risposto sul giallo delle date di pubblicazione (l'articolo è stato ripubblicato sul Nejm il 5 marzo), ha evitato di commentare i risultati ottenuti da Bedford. Stesso discorso per il professor Nuno Faria, docente all'università di Oxford, che in una prima versione della ricerca sui primi casi in Sudamerica aveva ammesso la forte somiglianza del campione brasiliano con quello tedesco. Salvo poi cancellare successivamente la frase incriminata dallo studio e spiegare imbarazzato alla Verità: «È ancora troppo presto per capire se il virus sia arrivato dalla Germania, ci servono più dati».Non si tratta, come abbiamo ripetuto più volte, di trovare il colpevole. Ma non si può non ammettere che, nel corso di queste settimane, l'Italia ha rappresentato un bersaglio fin troppo facile. Passata questa emergenza, qualcuno dovrà spiegarci il perché.
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