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2018-07-28
Crisi del lavoro e della sicurezza ma il Pd per 5 anni ha parlato d’altro
Ansa
Non si può dire che il Pd non sia un partito sportivo. Nella scorsa legislatura, quella dominata dal renzismo, fiaccata dalla legnata al referendum costituzionale e chiusa con le rivoluzionarie elezioni del 4 marzo scorso, i democrats si sono impegnati molto nel promuovere le attività sportive per far contento il ministro Luca Lotti, nel foraggiare iniziative dei loro circoli intellettuali e di spettacolo, in definitiva trasformandosi agli occhi degli italiani in una forza ricreativa. Non lo sostengono i nuovi barbari, ma un serissimo dossier messo online dall'Ufficio valutazione impatto del Senato, su fonte altrettanto certificata della banca dati Teseo, che ha monitorato con silenziosa attenzione notarile il lavoro dei parlamentari della Camera Alta per far comprendere quali sono i temi più cari ai vari partiti in campo.
La fotografia ha lo stesso valore di una proiezione elettorale e spiega meglio di tanti editoriali di Eugenio Scalfari, di tanti talk show su Raitre perché la sinistra è stata mandata a casa con un sospiro di sollievo che ha fatto garrire le bandiere da Vipiteno a Lampedusa. Mentre gli italiani erano alle prese con la crisi del lavoro, i fantasmi della sicurezza, i buchi delle banche, l'insoddisfazione nei confronti dell'Europa, i senatori del Pd parlavano d'altro, legiferavano d'altro. Come se improvvisamente l'Italia fosse una colonia della Norvegia. La classifica è impietosa. Su 2.762 disegni di legge (692 dei quali sono stati perfezionati dal Pd) al primo posto nei cuori rossi c'era il tema Diritto e giustizia (17,89% degli interventi), al secondo la Sanità (9,3%), al terzo Affari costituzionali e ordinamento della Repubblica (9,2%), al quarto appunto Sport, spettacoli e cultura (7,3%).
Argomenti del tutto rispettabili, ma destinati (tranne la Sanità con la battaglia sui vaccini) a non intercettare i bisogni, gli affanni e le speranze di cittadini che probabilmente si attendevano risposte concrete su Occupazione e lavoro, emarginati al 3% dell'interesse; Lavori pubblici ed edilizia abitativa (3%); riforma della burocrazia pubblica e servizi al cittadino (3,8%); Scuola, università, ricerca (4,6%). Ambiente, protezione civile, previdenza (5,2%). Più facile darsi all'ippica o finanziare l'ennesimo film da circolo Arci.
Poiché il Pd, prima con Matteo Renzi e poi con Paolo Gentiloni, è stato il partito di governo, è ovvio che l'agenda dei lavori sia stata impostata sulle sue priorità e abbia condizionato l'intera legislatura. Così quel 17,89% dedicato a Diritto e giustizia nasconde sostanzialmente due moloch, centrali del dibattito autoreferenziale delle élites al potere ma del tutto marginali per l'uomo della strada: lo ius soli e le Unioni civili gay con annessi lampi di stepchild adoption e di utero in affitto, pratiche spazzate via in un pomeriggio dal neoministro Lorenzo Fontana. L'estenuante braccio di ferro voluto dai progressisti paralizzò il Senato per mesi, creando una legge farraginosa, applicata per il 2,2% dei matrimoni. Ma valsa a Monica Cirinnà, che l'ha firmata nel 2016, il titolo di personaggio gay dell'anno.
Mentre la mai varata legge sullo ius soli (il diritto alla cittadinanza per i figli nati da stranieri) è entrata e uscita dall'aula di Palazzo Madama per la bellezza di quattro anni fra sedute sospese, strepiti indegni, ingerenze curiali e ministri all'ospedale come Valeria Fedeli, temi meno salottieri ma forse più concreti sono rimasti fuori sul marciapiede. Per esempio, ai rappresentanti piddini non è interessato nulla (o non più dello 0,5% del loto tempo) di Borsa e attività finanziaria, anzi meglio soprassedere sulla crisi epocale di Montepaschi, sui crac di Banca Etruria, Veneto Banca e Popolare di Vicenza.
Il Pd di Maurizio Martina che oggi si lambicca se sia o non sia il caso di seguire in montagna Roberto Saviano contro i sovranisti, allora non sembrava scaldarsi neppure davanti a un argomento popolarissimo come gli Affari europei, inserito in un contesto di critica verso le scelte di Bruxelles, di vessazioni sui parametri di Maastricht, di rapporti sempre tesi con gli euroburocrati manovrati da Berlino. Mentre Renzi si esibiva in show mediatici dall'effetto impressionista e gustava gelato italiano fuori da Palazzo Chigi, in aula nessuno della maggioranza si preoccupava di proporre disegni di legge per rimodulare i rapporti con l'Europa. È curioso notare che anche il Commercio con l'estero (cavallo di battaglia renziano che si definiva «primo ambasciatore delle imprese italiane», a tal punto da attribuire l'acquisto dell'Airbus presidenziale da 150 milioni alle missioni imprenditoriali) ha prodotto da parte dei senatori Pd uno 0,5% di interesse. Come dire: che noia, che barba l'export. Meglio il quarto di finale di Champions league in Hd.
Al contrario, oltre allo ius soli, ad agitare i cuori dem erano come oggi le sorti dei migranti di ogni ordine e grado, punto di partenza per interminabili interventi sulle meraviglie dell'accoglienza diffusa e contro le retrive preoccupazioni degli italiani riguardo a degrado, criminalità, sicurezza. «Non si tratta di materie reali, ma di paure percepite» è stato il mantra di Gentiloni, che oggi percepisce concretamente il senso del fallimento di una politica di retroguardia, che ha sacrificato gli interessi generali del paese sull'altare dei capricci dei radical chic da Ztl. Fine delle priorità.
E lavoro, disoccupazione giovanile, sicurezza, burocrazia invasiva, servizi al cittadino, disuguaglianze sociali, famiglia, ambiente, assistenza ad anziani e disabili? Secondo il dossier del Senato l'illuminata risposta della sinistra agli italiani è stata per cinque anni la stessa di Fabio Rovazzi alla fidanzata petulante: «La vastità del ca... che me ne frega». Poi sono arrivate le elezioni.
Giorgio Gandola
Contro il governo ci sono le Brigate Rolex
Bisogna fare qualcosa, ma non si sa bene cosa. Mobilitazione generale, compagni: però non sappiamo dirvi come, quando e perché. Il pericolo è enorme, il momento è grave, i barbari sono alle porte, anzi stanno già al Viminale: però ne riparliamo dopo le vacanze. È questa l'imbarazzante sintesi del carteggio - che la storia, temiamo, non ricorderà - tra Roberto Saviano e Maurizio Martina.
Riassunto delle puntate precedenti: lo scrittore Sandro Veronesi ha chiesto al collega Roberto Saviano di portare i loro corpi, onusti di gloria e di virtù civili, sui barconi delle Ong, come testimonianza contro i buzzurri semirazzisti che stanno al governo. Saviano, come si sa, avendo forse altri programmi per l'estate, ha risposto con un flusso di coscienza (meno elegantemente: con una lunga supercazzola), ma non si è presentato al molo, dove presumibilmente Veronesi lo sta ancora aspettando.
In compenso, l'Oracolo campano, per recuperare terreno, ha lanciato un appello (ne ha scritto nei giorni scorsi il direttore Maurizio Belpietro qui sulla Verità) per la grande battaglia anti Salvini. Curiosamente, Saviano non sembra volere lavoratori né operai né impiegati né pensionati né disoccupati né sottoccupati né precari: il Vate di Gomorra si è rivolto a «scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber». A questa platea, tutta presumibilmente concentrata tra Capalbio e Cortina, Saviano ha chiesto perentoriamente di «prendere posizione». «Dove siete, perché vi nascondete?», ha domandato con tono più lamentoso del solito. Da Lotta continua a Lagna continua, si potrebbe dire.
Nel silenzio e nella noia generale che hanno fatto seguito all'iniziativa, l'unica cosa notevole da registrare sono state le fragorose pernacchie che Saviano ha rimediato su Twitter e Facebook da chi non ne può più di prediche e appelli. Un fallimento conclamato, insomma. Ma, quando tutto sembrava già compromesso per Saviano, a peggiorare le cose, come un sigillo definitivo di tristezza e malinconia, è giunta su Repubblica l'adesione di Maurizio Martina, il capo barelliere che provvisoriamente si occupa del Pd.
Martina, da qualche giorno più barbuto che pallido, ha preso carta e penna e ha indirizzato al giornale di Largo Fochetti una lettera che per metà sembra un edificante temino da quinta elementare, e per l'altra metà ripropone le consuete giaculatorie della sinistra. Non manca una sola frase fatta, un solo luogo comune, una sola banalità già sentita, già masticata, già digerita: «scossa necessaria» (quella di Saviano); «c'è chi soffia sul fuoco» (indovina chi); «le solitudini e il disagio»; serve «una nuova prospettiva di impegno»; «la società è attraversata da esperienze e fermenti positivi»; «il desiderio di reagire». E allora Martina dirama le convocazioni: «associazionismo, terzo settore, volontariato, cultura, amministratori locali, giovani, le magliette rosse di don Ciotti». E il Pd? «Deve ascoltare» e «unire queste voci» verso una «riscossa e una ribellione civile». «Dobbiamo metterci al servizio», «metterci in discussione», «non accettare passivamente», «non consentire»… E poi citazione finale di Antonio Gramsci (che, per evidenti ragioni, non può difendersi né replicare) che - spiega Martina - «urla alle nostre coscienze».
Posto che qualche eroico lettore di Repubblica, ieri, sia arrivato alla fine della letterina resistendo al colpo di sonno, gli sarà rimasto un dubbio. Come dire, un piccolo «dettaglio»: non si capisce che cosa debbano fare tutti questi bravi militanti di sinistra e della società civile, quale battaglia in positivo debba unirli, quali iniziative concrete, quali risposte effettive sull'economia, sulla sicurezza, sull'immigrazione.
Ok, abbiamo capito che Matteo Salvini è cattivo e che Saviano è buono, anzi buonissimo: questa valutazione è largamente condivisa all'Ultima Spiaggia di Capalbio, dagli intellettuali e da quelle che chiameremo le brigate Rolex. Ma, detto questo, non c'è una proposta concreta, un'idea da avanzare. L'unica cosa che un bravo militante di sinistra possa fare - così par di capire - è seguire questo epistolario, questa elevata corrispondenza: Veronesi scrive a Saviano, Saviano scrive a Veronesi, Saviano scrive a tutti, Martina risponde a Saviano. Sorge il dubbio che qualcuno pensi di essere San Paolo (il mittente) e qualcun altro i Corinzi (i destinatari). E l'estate è ancora lunga.
Daniele Capezzone
La cricca Soros all’Europarlamento: 14 i deputati italiani, tutti di sinistra
Le prossime elezioni europee del maggio 2019 saranno una sfida, probabilmente decisiva, tra sovranisti ed europeisti. Da un lato i partiti che mettono al primo posto dei loro programmi il benessere delle proprie nazioni, dall'altro le forze che invece continuano a credere (o a fingere di credere) nelle sempre più traballanti parole d'ordine dei fanatici delle frontiere aperte e del mondialismo. Sarà una partita dura, e quindi i duri stanno già iniziando a prepararsi: i simboli delle due «squadre» in campo sono certamente Steve Bannon e George Soros.
Bannon, paladino del sovranismo, «guru» della trionfale campagna elettorale di Donald Trump, sta mettendo a punto le sue mosse e ha annunciato recentemente di essere pronto a trasferirsi in Europa. Dall'altro lato, invece, è già in piena attività George Soros, che può contare, come ha scritto Italia Oggi, su una nutrita schiera di fedelissimi europarlamentari uscenti, pronti a ricandidarsi sventolando il vessillo della migrazione incontrollata e dell'abbattimento delle frontiere.
«L'unico privato cittadino al mondo ad avere una politica estera», come è stato definito l'ottantottenne Soros, multimiliardario ungherese di nascita e americano di adozione, in Italia punta tutto sul Pd. È quanto risulta dal bilancio della sua fondazione, la Open society, che contiene un elenco di 226 eurodeputati definiti «alleati affidabili», su un totale di 751 parlamentari europei. La scoperta, opera di un sito di controinformazione, è recente: risale al novembre del 2017. Tra i 226 eurodeputato ritenuti «affidabili» dalla fondazione di George Soros, ci sono 14 italiani, 13 dei quali del Pd e una, la giornalista Barbara Spinelli, eletta con la Lista Tsipras.
I 13 eurodeputati «sorosiani» del Partito democratico sono Brando Maria Benifei, Sergio Cofferati, Cecile Kyenge, Alessia Mosca, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Roberto Gualtieri, Isabella Del Monte, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Elena Schlein e Daniele Viotti. Spulciando l'intero elenco, si nota che la stragrande maggioranza dei 226 eurodeputati «affidabili» secondo la fondazione di Soros, appartengono a gruppi progressisti, mentre solo 38 sono iscritti al gruppo del Partito popolare europeo.
Tra i nomi più altisonanti dell'elenco degli «alleati affidabili» di Soros, spicca quello del tedesco Martin Schulz, l'ex presidente del Parlamento europeo.
Schulz, lo scorso settembre, ha sfidato Angela Merkel alle elezioni politiche tedesche, ma ha perso rovinosamente ed ha lasciato la guida della Spd.
Anche il sostegno di Soros a Hillary Clinton, in occasione delle presidenziali Usa, non ha portato fortuna alla candidata dei democratici. Soros porta jella? Scherzi a parte, quello che è certo è che la sua fondazione ha ingentissimi risorse economiche da mettere in campo: Italia Oggi fa notare che uno dei progetti patrocinati dalla Open foundation negli ultimi anni già nel proprio titolo teorizza con chiarezza la necessità di «far accettare agli europei i migranti e la scomparsa delle frontiere». I fondi impegnati per questo programma ammontano a ben 18 miliardi di dollari, e attraverso questo piano la fondazione di Soros ha contribuito a finanziare anche le famose Ong, che con le loro navi, prima dell'intervento decisivo del governo italiano e in particolare del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, hanno contribuito in maniera determinante a incrementare i numeri dell'invasione di immigrati in Italia e in Europa.
Dunque, le prossime elezioni europee si annunciano una resa dei conti tra sovranisti e mondialisti: sarà interessante verificare se le proposte degli europarlamentari uscenti del Pd inseriti nell'elenco degli «alleati affidabili» della fondazione di George Soros combaceranno con gli obiettivi del paladino delle frontiere aperte.
Carlo Tarallo
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Per comprendere i motivi della dissoluzione elettorale dei dem basta l'agenda delle priorità che hanno condizionato l'intera legislatura. Con il Senato paralizzato per mesi dal dibattito su ius soli e unioni gay.All'appello di Sandro Veronesi a salire sui barconi delle Ong ha risposto la supercazzola di Roberto Saviano. Il guru ha lanciato la chiamata anti Salvini trovando l'adesione di Maurizio Martina: solo una lettera in cui sono presenti tutte le frasi fatte, i luoghi comuni, le banalità.La cricca di George Soros all'Europarlamento: 14 i deputati italiani, tutti di sinistra. Il multimiliardario che fa lo statista freelance conta su una pattuglia di 226 eurofedeli.Lo speciale contiene tre articoli.Non si può dire che il Pd non sia un partito sportivo. Nella scorsa legislatura, quella dominata dal renzismo, fiaccata dalla legnata al referendum costituzionale e chiusa con le rivoluzionarie elezioni del 4 marzo scorso, i democrats si sono impegnati molto nel promuovere le attività sportive per far contento il ministro Luca Lotti, nel foraggiare iniziative dei loro circoli intellettuali e di spettacolo, in definitiva trasformandosi agli occhi degli italiani in una forza ricreativa. Non lo sostengono i nuovi barbari, ma un serissimo dossier messo online dall'Ufficio valutazione impatto del Senato, su fonte altrettanto certificata della banca dati Teseo, che ha monitorato con silenziosa attenzione notarile il lavoro dei parlamentari della Camera Alta per far comprendere quali sono i temi più cari ai vari partiti in campo. La fotografia ha lo stesso valore di una proiezione elettorale e spiega meglio di tanti editoriali di Eugenio Scalfari, di tanti talk show su Raitre perché la sinistra è stata mandata a casa con un sospiro di sollievo che ha fatto garrire le bandiere da Vipiteno a Lampedusa. Mentre gli italiani erano alle prese con la crisi del lavoro, i fantasmi della sicurezza, i buchi delle banche, l'insoddisfazione nei confronti dell'Europa, i senatori del Pd parlavano d'altro, legiferavano d'altro. Come se improvvisamente l'Italia fosse una colonia della Norvegia. La classifica è impietosa. Su 2.762 disegni di legge (692 dei quali sono stati perfezionati dal Pd) al primo posto nei cuori rossi c'era il tema Diritto e giustizia (17,89% degli interventi), al secondo la Sanità (9,3%), al terzo Affari costituzionali e ordinamento della Repubblica (9,2%), al quarto appunto Sport, spettacoli e cultura (7,3%). Argomenti del tutto rispettabili, ma destinati (tranne la Sanità con la battaglia sui vaccini) a non intercettare i bisogni, gli affanni e le speranze di cittadini che probabilmente si attendevano risposte concrete su Occupazione e lavoro, emarginati al 3% dell'interesse; Lavori pubblici ed edilizia abitativa (3%); riforma della burocrazia pubblica e servizi al cittadino (3,8%); Scuola, università, ricerca (4,6%). Ambiente, protezione civile, previdenza (5,2%). Più facile darsi all'ippica o finanziare l'ennesimo film da circolo Arci. Poiché il Pd, prima con Matteo Renzi e poi con Paolo Gentiloni, è stato il partito di governo, è ovvio che l'agenda dei lavori sia stata impostata sulle sue priorità e abbia condizionato l'intera legislatura. Così quel 17,89% dedicato a Diritto e giustizia nasconde sostanzialmente due moloch, centrali del dibattito autoreferenziale delle élites al potere ma del tutto marginali per l'uomo della strada: lo ius soli e le Unioni civili gay con annessi lampi di stepchild adoption e di utero in affitto, pratiche spazzate via in un pomeriggio dal neoministro Lorenzo Fontana. L'estenuante braccio di ferro voluto dai progressisti paralizzò il Senato per mesi, creando una legge farraginosa, applicata per il 2,2% dei matrimoni. Ma valsa a Monica Cirinnà, che l'ha firmata nel 2016, il titolo di personaggio gay dell'anno. Mentre la mai varata legge sullo ius soli (il diritto alla cittadinanza per i figli nati da stranieri) è entrata e uscita dall'aula di Palazzo Madama per la bellezza di quattro anni fra sedute sospese, strepiti indegni, ingerenze curiali e ministri all'ospedale come Valeria Fedeli, temi meno salottieri ma forse più concreti sono rimasti fuori sul marciapiede. Per esempio, ai rappresentanti piddini non è interessato nulla (o non più dello 0,5% del loto tempo) di Borsa e attività finanziaria, anzi meglio soprassedere sulla crisi epocale di Montepaschi, sui crac di Banca Etruria, Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Il Pd di Maurizio Martina che oggi si lambicca se sia o non sia il caso di seguire in montagna Roberto Saviano contro i sovranisti, allora non sembrava scaldarsi neppure davanti a un argomento popolarissimo come gli Affari europei, inserito in un contesto di critica verso le scelte di Bruxelles, di vessazioni sui parametri di Maastricht, di rapporti sempre tesi con gli euroburocrati manovrati da Berlino. Mentre Renzi si esibiva in show mediatici dall'effetto impressionista e gustava gelato italiano fuori da Palazzo Chigi, in aula nessuno della maggioranza si preoccupava di proporre disegni di legge per rimodulare i rapporti con l'Europa. È curioso notare che anche il Commercio con l'estero (cavallo di battaglia renziano che si definiva «primo ambasciatore delle imprese italiane», a tal punto da attribuire l'acquisto dell'Airbus presidenziale da 150 milioni alle missioni imprenditoriali) ha prodotto da parte dei senatori Pd uno 0,5% di interesse. Come dire: che noia, che barba l'export. Meglio il quarto di finale di Champions league in Hd. Al contrario, oltre allo ius soli, ad agitare i cuori dem erano come oggi le sorti dei migranti di ogni ordine e grado, punto di partenza per interminabili interventi sulle meraviglie dell'accoglienza diffusa e contro le retrive preoccupazioni degli italiani riguardo a degrado, criminalità, sicurezza. «Non si tratta di materie reali, ma di paure percepite» è stato il mantra di Gentiloni, che oggi percepisce concretamente il senso del fallimento di una politica di retroguardia, che ha sacrificato gli interessi generali del paese sull'altare dei capricci dei radical chic da Ztl. Fine delle priorità.E lavoro, disoccupazione giovanile, sicurezza, burocrazia invasiva, servizi al cittadino, disuguaglianze sociali, famiglia, ambiente, assistenza ad anziani e disabili? Secondo il dossier del Senato l'illuminata risposta della sinistra agli italiani è stata per cinque anni la stessa di Fabio Rovazzi alla fidanzata petulante: «La vastità del ca... che me ne frega». Poi sono arrivate le elezioni. Giorgio Gandola<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/crisi-del-lavoro-e-della-sicurezza-ma-il-pd-per-5-anni-ha-parlato-daltro-2590444639.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="contro-il-governo-ci-sono-le-brigate-rolex" data-post-id="2590444639" data-published-at="1764980134" data-use-pagination="False"> Contro il governo ci sono le Brigate Rolex Bisogna fare qualcosa, ma non si sa bene cosa. 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In compenso, l'Oracolo campano, per recuperare terreno, ha lanciato un appello (ne ha scritto nei giorni scorsi il direttore Maurizio Belpietro qui sulla Verità) per la grande battaglia anti Salvini. Curiosamente, Saviano non sembra volere lavoratori né operai né impiegati né pensionati né disoccupati né sottoccupati né precari: il Vate di Gomorra si è rivolto a «scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber». A questa platea, tutta presumibilmente concentrata tra Capalbio e Cortina, Saviano ha chiesto perentoriamente di «prendere posizione». «Dove siete, perché vi nascondete?», ha domandato con tono più lamentoso del solito. Da Lotta continua a Lagna continua, si potrebbe dire. Nel silenzio e nella noia generale che hanno fatto seguito all'iniziativa, l'unica cosa notevole da registrare sono state le fragorose pernacchie che Saviano ha rimediato su Twitter e Facebook da chi non ne può più di prediche e appelli. Un fallimento conclamato, insomma. Ma, quando tutto sembrava già compromesso per Saviano, a peggiorare le cose, come un sigillo definitivo di tristezza e malinconia, è giunta su Repubblica l'adesione di Maurizio Martina, il capo barelliere che provvisoriamente si occupa del Pd. Martina, da qualche giorno più barbuto che pallido, ha preso carta e penna e ha indirizzato al giornale di Largo Fochetti una lettera che per metà sembra un edificante temino da quinta elementare, e per l'altra metà ripropone le consuete giaculatorie della sinistra. Non manca una sola frase fatta, un solo luogo comune, una sola banalità già sentita, già masticata, già digerita: «scossa necessaria» (quella di Saviano); «c'è chi soffia sul fuoco» (indovina chi); «le solitudini e il disagio»; serve «una nuova prospettiva di impegno»; «la società è attraversata da esperienze e fermenti positivi»; «il desiderio di reagire». E allora Martina dirama le convocazioni: «associazionismo, terzo settore, volontariato, cultura, amministratori locali, giovani, le magliette rosse di don Ciotti». E il Pd? «Deve ascoltare» e «unire queste voci» verso una «riscossa e una ribellione civile». «Dobbiamo metterci al servizio», «metterci in discussione», «non accettare passivamente», «non consentire»… E poi citazione finale di Antonio Gramsci (che, per evidenti ragioni, non può difendersi né replicare) che - spiega Martina - «urla alle nostre coscienze». Posto che qualche eroico lettore di Repubblica, ieri, sia arrivato alla fine della letterina resistendo al colpo di sonno, gli sarà rimasto un dubbio. Come dire, un piccolo «dettaglio»: non si capisce che cosa debbano fare tutti questi bravi militanti di sinistra e della società civile, quale battaglia in positivo debba unirli, quali iniziative concrete, quali risposte effettive sull'economia, sulla sicurezza, sull'immigrazione. Ok, abbiamo capito che Matteo Salvini è cattivo e che Saviano è buono, anzi buonissimo: questa valutazione è largamente condivisa all'Ultima Spiaggia di Capalbio, dagli intellettuali e da quelle che chiameremo le brigate Rolex. Ma, detto questo, non c'è una proposta concreta, un'idea da avanzare. L'unica cosa che un bravo militante di sinistra possa fare - così par di capire - è seguire questo epistolario, questa elevata corrispondenza: Veronesi scrive a Saviano, Saviano scrive a Veronesi, Saviano scrive a tutti, Martina risponde a Saviano. Sorge il dubbio che qualcuno pensi di essere San Paolo (il mittente) e qualcun altro i Corinzi (i destinatari). E l'estate è ancora lunga. Daniele Capezzone <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/crisi-del-lavoro-e-della-sicurezza-ma-il-pd-per-5-anni-ha-parlato-daltro-2590444639.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-cricca-soros-alleuroparlamento-14-i-deputati-italiani-tutti-di-sinistra" data-post-id="2590444639" data-published-at="1764980134" data-use-pagination="False"> La cricca Soros all’Europarlamento: 14 i deputati italiani, tutti di sinistra Le prossime elezioni europee del maggio 2019 saranno una sfida, probabilmente decisiva, tra sovranisti ed europeisti. Da un lato i partiti che mettono al primo posto dei loro programmi il benessere delle proprie nazioni, dall'altro le forze che invece continuano a credere (o a fingere di credere) nelle sempre più traballanti parole d'ordine dei fanatici delle frontiere aperte e del mondialismo. Sarà una partita dura, e quindi i duri stanno già iniziando a prepararsi: i simboli delle due «squadre» in campo sono certamente Steve Bannon e George Soros. Bannon, paladino del sovranismo, «guru» della trionfale campagna elettorale di Donald Trump, sta mettendo a punto le sue mosse e ha annunciato recentemente di essere pronto a trasferirsi in Europa. Dall'altro lato, invece, è già in piena attività George Soros, che può contare, come ha scritto Italia Oggi, su una nutrita schiera di fedelissimi europarlamentari uscenti, pronti a ricandidarsi sventolando il vessillo della migrazione incontrollata e dell'abbattimento delle frontiere. «L'unico privato cittadino al mondo ad avere una politica estera», come è stato definito l'ottantottenne Soros, multimiliardario ungherese di nascita e americano di adozione, in Italia punta tutto sul Pd. È quanto risulta dal bilancio della sua fondazione, la Open society, che contiene un elenco di 226 eurodeputati definiti «alleati affidabili», su un totale di 751 parlamentari europei. La scoperta, opera di un sito di controinformazione, è recente: risale al novembre del 2017. Tra i 226 eurodeputato ritenuti «affidabili» dalla fondazione di George Soros, ci sono 14 italiani, 13 dei quali del Pd e una, la giornalista Barbara Spinelli, eletta con la Lista Tsipras. I 13 eurodeputati «sorosiani» del Partito democratico sono Brando Maria Benifei, Sergio Cofferati, Cecile Kyenge, Alessia Mosca, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Roberto Gualtieri, Isabella Del Monte, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Elena Schlein e Daniele Viotti. Spulciando l'intero elenco, si nota che la stragrande maggioranza dei 226 eurodeputati «affidabili» secondo la fondazione di Soros, appartengono a gruppi progressisti, mentre solo 38 sono iscritti al gruppo del Partito popolare europeo. Tra i nomi più altisonanti dell'elenco degli «alleati affidabili» di Soros, spicca quello del tedesco Martin Schulz, l'ex presidente del Parlamento europeo. Schulz, lo scorso settembre, ha sfidato Angela Merkel alle elezioni politiche tedesche, ma ha perso rovinosamente ed ha lasciato la guida della Spd. Anche il sostegno di Soros a Hillary Clinton, in occasione delle presidenziali Usa, non ha portato fortuna alla candidata dei democratici. Soros porta jella? Scherzi a parte, quello che è certo è che la sua fondazione ha ingentissimi risorse economiche da mettere in campo: Italia Oggi fa notare che uno dei progetti patrocinati dalla Open foundation negli ultimi anni già nel proprio titolo teorizza con chiarezza la necessità di «far accettare agli europei i migranti e la scomparsa delle frontiere». I fondi impegnati per questo programma ammontano a ben 18 miliardi di dollari, e attraverso questo piano la fondazione di Soros ha contribuito a finanziare anche le famose Ong, che con le loro navi, prima dell'intervento decisivo del governo italiano e in particolare del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, hanno contribuito in maniera determinante a incrementare i numeri dell'invasione di immigrati in Italia e in Europa. Dunque, le prossime elezioni europee si annunciano una resa dei conti tra sovranisti e mondialisti: sarà interessante verificare se le proposte degli europarlamentari uscenti del Pd inseriti nell'elenco degli «alleati affidabili» della fondazione di George Soros combaceranno con gli obiettivi del paladino delle frontiere aperte. Carlo Tarallo
iStock
Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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