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2018-07-28
Crisi del lavoro e della sicurezza ma il Pd per 5 anni ha parlato d’altro
Ansa
Non si può dire che il Pd non sia un partito sportivo. Nella scorsa legislatura, quella dominata dal renzismo, fiaccata dalla legnata al referendum costituzionale e chiusa con le rivoluzionarie elezioni del 4 marzo scorso, i democrats si sono impegnati molto nel promuovere le attività sportive per far contento il ministro Luca Lotti, nel foraggiare iniziative dei loro circoli intellettuali e di spettacolo, in definitiva trasformandosi agli occhi degli italiani in una forza ricreativa. Non lo sostengono i nuovi barbari, ma un serissimo dossier messo online dall'Ufficio valutazione impatto del Senato, su fonte altrettanto certificata della banca dati Teseo, che ha monitorato con silenziosa attenzione notarile il lavoro dei parlamentari della Camera Alta per far comprendere quali sono i temi più cari ai vari partiti in campo.
La fotografia ha lo stesso valore di una proiezione elettorale e spiega meglio di tanti editoriali di Eugenio Scalfari, di tanti talk show su Raitre perché la sinistra è stata mandata a casa con un sospiro di sollievo che ha fatto garrire le bandiere da Vipiteno a Lampedusa. Mentre gli italiani erano alle prese con la crisi del lavoro, i fantasmi della sicurezza, i buchi delle banche, l'insoddisfazione nei confronti dell'Europa, i senatori del Pd parlavano d'altro, legiferavano d'altro. Come se improvvisamente l'Italia fosse una colonia della Norvegia. La classifica è impietosa. Su 2.762 disegni di legge (692 dei quali sono stati perfezionati dal Pd) al primo posto nei cuori rossi c'era il tema Diritto e giustizia (17,89% degli interventi), al secondo la Sanità (9,3%), al terzo Affari costituzionali e ordinamento della Repubblica (9,2%), al quarto appunto Sport, spettacoli e cultura (7,3%).
Argomenti del tutto rispettabili, ma destinati (tranne la Sanità con la battaglia sui vaccini) a non intercettare i bisogni, gli affanni e le speranze di cittadini che probabilmente si attendevano risposte concrete su Occupazione e lavoro, emarginati al 3% dell'interesse; Lavori pubblici ed edilizia abitativa (3%); riforma della burocrazia pubblica e servizi al cittadino (3,8%); Scuola, università, ricerca (4,6%). Ambiente, protezione civile, previdenza (5,2%). Più facile darsi all'ippica o finanziare l'ennesimo film da circolo Arci.
Poiché il Pd, prima con Matteo Renzi e poi con Paolo Gentiloni, è stato il partito di governo, è ovvio che l'agenda dei lavori sia stata impostata sulle sue priorità e abbia condizionato l'intera legislatura. Così quel 17,89% dedicato a Diritto e giustizia nasconde sostanzialmente due moloch, centrali del dibattito autoreferenziale delle élites al potere ma del tutto marginali per l'uomo della strada: lo ius soli e le Unioni civili gay con annessi lampi di stepchild adoption e di utero in affitto, pratiche spazzate via in un pomeriggio dal neoministro Lorenzo Fontana. L'estenuante braccio di ferro voluto dai progressisti paralizzò il Senato per mesi, creando una legge farraginosa, applicata per il 2,2% dei matrimoni. Ma valsa a Monica Cirinnà, che l'ha firmata nel 2016, il titolo di personaggio gay dell'anno.
Mentre la mai varata legge sullo ius soli (il diritto alla cittadinanza per i figli nati da stranieri) è entrata e uscita dall'aula di Palazzo Madama per la bellezza di quattro anni fra sedute sospese, strepiti indegni, ingerenze curiali e ministri all'ospedale come Valeria Fedeli, temi meno salottieri ma forse più concreti sono rimasti fuori sul marciapiede. Per esempio, ai rappresentanti piddini non è interessato nulla (o non più dello 0,5% del loto tempo) di Borsa e attività finanziaria, anzi meglio soprassedere sulla crisi epocale di Montepaschi, sui crac di Banca Etruria, Veneto Banca e Popolare di Vicenza.
Il Pd di Maurizio Martina che oggi si lambicca se sia o non sia il caso di seguire in montagna Roberto Saviano contro i sovranisti, allora non sembrava scaldarsi neppure davanti a un argomento popolarissimo come gli Affari europei, inserito in un contesto di critica verso le scelte di Bruxelles, di vessazioni sui parametri di Maastricht, di rapporti sempre tesi con gli euroburocrati manovrati da Berlino. Mentre Renzi si esibiva in show mediatici dall'effetto impressionista e gustava gelato italiano fuori da Palazzo Chigi, in aula nessuno della maggioranza si preoccupava di proporre disegni di legge per rimodulare i rapporti con l'Europa. È curioso notare che anche il Commercio con l'estero (cavallo di battaglia renziano che si definiva «primo ambasciatore delle imprese italiane», a tal punto da attribuire l'acquisto dell'Airbus presidenziale da 150 milioni alle missioni imprenditoriali) ha prodotto da parte dei senatori Pd uno 0,5% di interesse. Come dire: che noia, che barba l'export. Meglio il quarto di finale di Champions league in Hd.
Al contrario, oltre allo ius soli, ad agitare i cuori dem erano come oggi le sorti dei migranti di ogni ordine e grado, punto di partenza per interminabili interventi sulle meraviglie dell'accoglienza diffusa e contro le retrive preoccupazioni degli italiani riguardo a degrado, criminalità, sicurezza. «Non si tratta di materie reali, ma di paure percepite» è stato il mantra di Gentiloni, che oggi percepisce concretamente il senso del fallimento di una politica di retroguardia, che ha sacrificato gli interessi generali del paese sull'altare dei capricci dei radical chic da Ztl. Fine delle priorità.
E lavoro, disoccupazione giovanile, sicurezza, burocrazia invasiva, servizi al cittadino, disuguaglianze sociali, famiglia, ambiente, assistenza ad anziani e disabili? Secondo il dossier del Senato l'illuminata risposta della sinistra agli italiani è stata per cinque anni la stessa di Fabio Rovazzi alla fidanzata petulante: «La vastità del ca... che me ne frega». Poi sono arrivate le elezioni.
Giorgio Gandola
Contro il governo ci sono le Brigate Rolex
Bisogna fare qualcosa, ma non si sa bene cosa. Mobilitazione generale, compagni: però non sappiamo dirvi come, quando e perché. Il pericolo è enorme, il momento è grave, i barbari sono alle porte, anzi stanno già al Viminale: però ne riparliamo dopo le vacanze. È questa l'imbarazzante sintesi del carteggio - che la storia, temiamo, non ricorderà - tra Roberto Saviano e Maurizio Martina.
Riassunto delle puntate precedenti: lo scrittore Sandro Veronesi ha chiesto al collega Roberto Saviano di portare i loro corpi, onusti di gloria e di virtù civili, sui barconi delle Ong, come testimonianza contro i buzzurri semirazzisti che stanno al governo. Saviano, come si sa, avendo forse altri programmi per l'estate, ha risposto con un flusso di coscienza (meno elegantemente: con una lunga supercazzola), ma non si è presentato al molo, dove presumibilmente Veronesi lo sta ancora aspettando.
In compenso, l'Oracolo campano, per recuperare terreno, ha lanciato un appello (ne ha scritto nei giorni scorsi il direttore Maurizio Belpietro qui sulla Verità) per la grande battaglia anti Salvini. Curiosamente, Saviano non sembra volere lavoratori né operai né impiegati né pensionati né disoccupati né sottoccupati né precari: il Vate di Gomorra si è rivolto a «scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber». A questa platea, tutta presumibilmente concentrata tra Capalbio e Cortina, Saviano ha chiesto perentoriamente di «prendere posizione». «Dove siete, perché vi nascondete?», ha domandato con tono più lamentoso del solito. Da Lotta continua a Lagna continua, si potrebbe dire.
Nel silenzio e nella noia generale che hanno fatto seguito all'iniziativa, l'unica cosa notevole da registrare sono state le fragorose pernacchie che Saviano ha rimediato su Twitter e Facebook da chi non ne può più di prediche e appelli. Un fallimento conclamato, insomma. Ma, quando tutto sembrava già compromesso per Saviano, a peggiorare le cose, come un sigillo definitivo di tristezza e malinconia, è giunta su Repubblica l'adesione di Maurizio Martina, il capo barelliere che provvisoriamente si occupa del Pd.
Martina, da qualche giorno più barbuto che pallido, ha preso carta e penna e ha indirizzato al giornale di Largo Fochetti una lettera che per metà sembra un edificante temino da quinta elementare, e per l'altra metà ripropone le consuete giaculatorie della sinistra. Non manca una sola frase fatta, un solo luogo comune, una sola banalità già sentita, già masticata, già digerita: «scossa necessaria» (quella di Saviano); «c'è chi soffia sul fuoco» (indovina chi); «le solitudini e il disagio»; serve «una nuova prospettiva di impegno»; «la società è attraversata da esperienze e fermenti positivi»; «il desiderio di reagire». E allora Martina dirama le convocazioni: «associazionismo, terzo settore, volontariato, cultura, amministratori locali, giovani, le magliette rosse di don Ciotti». E il Pd? «Deve ascoltare» e «unire queste voci» verso una «riscossa e una ribellione civile». «Dobbiamo metterci al servizio», «metterci in discussione», «non accettare passivamente», «non consentire»… E poi citazione finale di Antonio Gramsci (che, per evidenti ragioni, non può difendersi né replicare) che - spiega Martina - «urla alle nostre coscienze».
Posto che qualche eroico lettore di Repubblica, ieri, sia arrivato alla fine della letterina resistendo al colpo di sonno, gli sarà rimasto un dubbio. Come dire, un piccolo «dettaglio»: non si capisce che cosa debbano fare tutti questi bravi militanti di sinistra e della società civile, quale battaglia in positivo debba unirli, quali iniziative concrete, quali risposte effettive sull'economia, sulla sicurezza, sull'immigrazione.
Ok, abbiamo capito che Matteo Salvini è cattivo e che Saviano è buono, anzi buonissimo: questa valutazione è largamente condivisa all'Ultima Spiaggia di Capalbio, dagli intellettuali e da quelle che chiameremo le brigate Rolex. Ma, detto questo, non c'è una proposta concreta, un'idea da avanzare. L'unica cosa che un bravo militante di sinistra possa fare - così par di capire - è seguire questo epistolario, questa elevata corrispondenza: Veronesi scrive a Saviano, Saviano scrive a Veronesi, Saviano scrive a tutti, Martina risponde a Saviano. Sorge il dubbio che qualcuno pensi di essere San Paolo (il mittente) e qualcun altro i Corinzi (i destinatari). E l'estate è ancora lunga.
Daniele Capezzone
La cricca Soros all’Europarlamento: 14 i deputati italiani, tutti di sinistra
Le prossime elezioni europee del maggio 2019 saranno una sfida, probabilmente decisiva, tra sovranisti ed europeisti. Da un lato i partiti che mettono al primo posto dei loro programmi il benessere delle proprie nazioni, dall'altro le forze che invece continuano a credere (o a fingere di credere) nelle sempre più traballanti parole d'ordine dei fanatici delle frontiere aperte e del mondialismo. Sarà una partita dura, e quindi i duri stanno già iniziando a prepararsi: i simboli delle due «squadre» in campo sono certamente Steve Bannon e George Soros.
Bannon, paladino del sovranismo, «guru» della trionfale campagna elettorale di Donald Trump, sta mettendo a punto le sue mosse e ha annunciato recentemente di essere pronto a trasferirsi in Europa. Dall'altro lato, invece, è già in piena attività George Soros, che può contare, come ha scritto Italia Oggi, su una nutrita schiera di fedelissimi europarlamentari uscenti, pronti a ricandidarsi sventolando il vessillo della migrazione incontrollata e dell'abbattimento delle frontiere.
«L'unico privato cittadino al mondo ad avere una politica estera», come è stato definito l'ottantottenne Soros, multimiliardario ungherese di nascita e americano di adozione, in Italia punta tutto sul Pd. È quanto risulta dal bilancio della sua fondazione, la Open society, che contiene un elenco di 226 eurodeputati definiti «alleati affidabili», su un totale di 751 parlamentari europei. La scoperta, opera di un sito di controinformazione, è recente: risale al novembre del 2017. Tra i 226 eurodeputato ritenuti «affidabili» dalla fondazione di George Soros, ci sono 14 italiani, 13 dei quali del Pd e una, la giornalista Barbara Spinelli, eletta con la Lista Tsipras.
I 13 eurodeputati «sorosiani» del Partito democratico sono Brando Maria Benifei, Sergio Cofferati, Cecile Kyenge, Alessia Mosca, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Roberto Gualtieri, Isabella Del Monte, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Elena Schlein e Daniele Viotti. Spulciando l'intero elenco, si nota che la stragrande maggioranza dei 226 eurodeputati «affidabili» secondo la fondazione di Soros, appartengono a gruppi progressisti, mentre solo 38 sono iscritti al gruppo del Partito popolare europeo.
Tra i nomi più altisonanti dell'elenco degli «alleati affidabili» di Soros, spicca quello del tedesco Martin Schulz, l'ex presidente del Parlamento europeo.
Schulz, lo scorso settembre, ha sfidato Angela Merkel alle elezioni politiche tedesche, ma ha perso rovinosamente ed ha lasciato la guida della Spd.
Anche il sostegno di Soros a Hillary Clinton, in occasione delle presidenziali Usa, non ha portato fortuna alla candidata dei democratici. Soros porta jella? Scherzi a parte, quello che è certo è che la sua fondazione ha ingentissimi risorse economiche da mettere in campo: Italia Oggi fa notare che uno dei progetti patrocinati dalla Open foundation negli ultimi anni già nel proprio titolo teorizza con chiarezza la necessità di «far accettare agli europei i migranti e la scomparsa delle frontiere». I fondi impegnati per questo programma ammontano a ben 18 miliardi di dollari, e attraverso questo piano la fondazione di Soros ha contribuito a finanziare anche le famose Ong, che con le loro navi, prima dell'intervento decisivo del governo italiano e in particolare del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, hanno contribuito in maniera determinante a incrementare i numeri dell'invasione di immigrati in Italia e in Europa.
Dunque, le prossime elezioni europee si annunciano una resa dei conti tra sovranisti e mondialisti: sarà interessante verificare se le proposte degli europarlamentari uscenti del Pd inseriti nell'elenco degli «alleati affidabili» della fondazione di George Soros combaceranno con gli obiettivi del paladino delle frontiere aperte.
Carlo Tarallo
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Per comprendere i motivi della dissoluzione elettorale dei dem basta l'agenda delle priorità che hanno condizionato l'intera legislatura. Con il Senato paralizzato per mesi dal dibattito su ius soli e unioni gay.All'appello di Sandro Veronesi a salire sui barconi delle Ong ha risposto la supercazzola di Roberto Saviano. Il guru ha lanciato la chiamata anti Salvini trovando l'adesione di Maurizio Martina: solo una lettera in cui sono presenti tutte le frasi fatte, i luoghi comuni, le banalità.La cricca di George Soros all'Europarlamento: 14 i deputati italiani, tutti di sinistra. Il multimiliardario che fa lo statista freelance conta su una pattuglia di 226 eurofedeli.Lo speciale contiene tre articoli.Non si può dire che il Pd non sia un partito sportivo. Nella scorsa legislatura, quella dominata dal renzismo, fiaccata dalla legnata al referendum costituzionale e chiusa con le rivoluzionarie elezioni del 4 marzo scorso, i democrats si sono impegnati molto nel promuovere le attività sportive per far contento il ministro Luca Lotti, nel foraggiare iniziative dei loro circoli intellettuali e di spettacolo, in definitiva trasformandosi agli occhi degli italiani in una forza ricreativa. Non lo sostengono i nuovi barbari, ma un serissimo dossier messo online dall'Ufficio valutazione impatto del Senato, su fonte altrettanto certificata della banca dati Teseo, che ha monitorato con silenziosa attenzione notarile il lavoro dei parlamentari della Camera Alta per far comprendere quali sono i temi più cari ai vari partiti in campo. La fotografia ha lo stesso valore di una proiezione elettorale e spiega meglio di tanti editoriali di Eugenio Scalfari, di tanti talk show su Raitre perché la sinistra è stata mandata a casa con un sospiro di sollievo che ha fatto garrire le bandiere da Vipiteno a Lampedusa. Mentre gli italiani erano alle prese con la crisi del lavoro, i fantasmi della sicurezza, i buchi delle banche, l'insoddisfazione nei confronti dell'Europa, i senatori del Pd parlavano d'altro, legiferavano d'altro. Come se improvvisamente l'Italia fosse una colonia della Norvegia. La classifica è impietosa. Su 2.762 disegni di legge (692 dei quali sono stati perfezionati dal Pd) al primo posto nei cuori rossi c'era il tema Diritto e giustizia (17,89% degli interventi), al secondo la Sanità (9,3%), al terzo Affari costituzionali e ordinamento della Repubblica (9,2%), al quarto appunto Sport, spettacoli e cultura (7,3%). Argomenti del tutto rispettabili, ma destinati (tranne la Sanità con la battaglia sui vaccini) a non intercettare i bisogni, gli affanni e le speranze di cittadini che probabilmente si attendevano risposte concrete su Occupazione e lavoro, emarginati al 3% dell'interesse; Lavori pubblici ed edilizia abitativa (3%); riforma della burocrazia pubblica e servizi al cittadino (3,8%); Scuola, università, ricerca (4,6%). Ambiente, protezione civile, previdenza (5,2%). Più facile darsi all'ippica o finanziare l'ennesimo film da circolo Arci. Poiché il Pd, prima con Matteo Renzi e poi con Paolo Gentiloni, è stato il partito di governo, è ovvio che l'agenda dei lavori sia stata impostata sulle sue priorità e abbia condizionato l'intera legislatura. Così quel 17,89% dedicato a Diritto e giustizia nasconde sostanzialmente due moloch, centrali del dibattito autoreferenziale delle élites al potere ma del tutto marginali per l'uomo della strada: lo ius soli e le Unioni civili gay con annessi lampi di stepchild adoption e di utero in affitto, pratiche spazzate via in un pomeriggio dal neoministro Lorenzo Fontana. L'estenuante braccio di ferro voluto dai progressisti paralizzò il Senato per mesi, creando una legge farraginosa, applicata per il 2,2% dei matrimoni. Ma valsa a Monica Cirinnà, che l'ha firmata nel 2016, il titolo di personaggio gay dell'anno. Mentre la mai varata legge sullo ius soli (il diritto alla cittadinanza per i figli nati da stranieri) è entrata e uscita dall'aula di Palazzo Madama per la bellezza di quattro anni fra sedute sospese, strepiti indegni, ingerenze curiali e ministri all'ospedale come Valeria Fedeli, temi meno salottieri ma forse più concreti sono rimasti fuori sul marciapiede. Per esempio, ai rappresentanti piddini non è interessato nulla (o non più dello 0,5% del loto tempo) di Borsa e attività finanziaria, anzi meglio soprassedere sulla crisi epocale di Montepaschi, sui crac di Banca Etruria, Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Il Pd di Maurizio Martina che oggi si lambicca se sia o non sia il caso di seguire in montagna Roberto Saviano contro i sovranisti, allora non sembrava scaldarsi neppure davanti a un argomento popolarissimo come gli Affari europei, inserito in un contesto di critica verso le scelte di Bruxelles, di vessazioni sui parametri di Maastricht, di rapporti sempre tesi con gli euroburocrati manovrati da Berlino. Mentre Renzi si esibiva in show mediatici dall'effetto impressionista e gustava gelato italiano fuori da Palazzo Chigi, in aula nessuno della maggioranza si preoccupava di proporre disegni di legge per rimodulare i rapporti con l'Europa. È curioso notare che anche il Commercio con l'estero (cavallo di battaglia renziano che si definiva «primo ambasciatore delle imprese italiane», a tal punto da attribuire l'acquisto dell'Airbus presidenziale da 150 milioni alle missioni imprenditoriali) ha prodotto da parte dei senatori Pd uno 0,5% di interesse. Come dire: che noia, che barba l'export. Meglio il quarto di finale di Champions league in Hd. Al contrario, oltre allo ius soli, ad agitare i cuori dem erano come oggi le sorti dei migranti di ogni ordine e grado, punto di partenza per interminabili interventi sulle meraviglie dell'accoglienza diffusa e contro le retrive preoccupazioni degli italiani riguardo a degrado, criminalità, sicurezza. «Non si tratta di materie reali, ma di paure percepite» è stato il mantra di Gentiloni, che oggi percepisce concretamente il senso del fallimento di una politica di retroguardia, che ha sacrificato gli interessi generali del paese sull'altare dei capricci dei radical chic da Ztl. Fine delle priorità.E lavoro, disoccupazione giovanile, sicurezza, burocrazia invasiva, servizi al cittadino, disuguaglianze sociali, famiglia, ambiente, assistenza ad anziani e disabili? Secondo il dossier del Senato l'illuminata risposta della sinistra agli italiani è stata per cinque anni la stessa di Fabio Rovazzi alla fidanzata petulante: «La vastità del ca... che me ne frega». Poi sono arrivate le elezioni. Giorgio Gandola<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/crisi-del-lavoro-e-della-sicurezza-ma-il-pd-per-5-anni-ha-parlato-daltro-2590444639.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="contro-il-governo-ci-sono-le-brigate-rolex" data-post-id="2590444639" data-published-at="1765320793" data-use-pagination="False"> Contro il governo ci sono le Brigate Rolex Bisogna fare qualcosa, ma non si sa bene cosa. Mobilitazione generale, compagni: però non sappiamo dirvi come, quando e perché. Il pericolo è enorme, il momento è grave, i barbari sono alle porte, anzi stanno già al Viminale: però ne riparliamo dopo le vacanze. È questa l'imbarazzante sintesi del carteggio - che la storia, temiamo, non ricorderà - tra Roberto Saviano e Maurizio Martina. Riassunto delle puntate precedenti: lo scrittore Sandro Veronesi ha chiesto al collega Roberto Saviano di portare i loro corpi, onusti di gloria e di virtù civili, sui barconi delle Ong, come testimonianza contro i buzzurri semirazzisti che stanno al governo. Saviano, come si sa, avendo forse altri programmi per l'estate, ha risposto con un flusso di coscienza (meno elegantemente: con una lunga supercazzola), ma non si è presentato al molo, dove presumibilmente Veronesi lo sta ancora aspettando. In compenso, l'Oracolo campano, per recuperare terreno, ha lanciato un appello (ne ha scritto nei giorni scorsi il direttore Maurizio Belpietro qui sulla Verità) per la grande battaglia anti Salvini. Curiosamente, Saviano non sembra volere lavoratori né operai né impiegati né pensionati né disoccupati né sottoccupati né precari: il Vate di Gomorra si è rivolto a «scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber». A questa platea, tutta presumibilmente concentrata tra Capalbio e Cortina, Saviano ha chiesto perentoriamente di «prendere posizione». «Dove siete, perché vi nascondete?», ha domandato con tono più lamentoso del solito. Da Lotta continua a Lagna continua, si potrebbe dire. Nel silenzio e nella noia generale che hanno fatto seguito all'iniziativa, l'unica cosa notevole da registrare sono state le fragorose pernacchie che Saviano ha rimediato su Twitter e Facebook da chi non ne può più di prediche e appelli. Un fallimento conclamato, insomma. Ma, quando tutto sembrava già compromesso per Saviano, a peggiorare le cose, come un sigillo definitivo di tristezza e malinconia, è giunta su Repubblica l'adesione di Maurizio Martina, il capo barelliere che provvisoriamente si occupa del Pd. Martina, da qualche giorno più barbuto che pallido, ha preso carta e penna e ha indirizzato al giornale di Largo Fochetti una lettera che per metà sembra un edificante temino da quinta elementare, e per l'altra metà ripropone le consuete giaculatorie della sinistra. Non manca una sola frase fatta, un solo luogo comune, una sola banalità già sentita, già masticata, già digerita: «scossa necessaria» (quella di Saviano); «c'è chi soffia sul fuoco» (indovina chi); «le solitudini e il disagio»; serve «una nuova prospettiva di impegno»; «la società è attraversata da esperienze e fermenti positivi»; «il desiderio di reagire». E allora Martina dirama le convocazioni: «associazionismo, terzo settore, volontariato, cultura, amministratori locali, giovani, le magliette rosse di don Ciotti». E il Pd? «Deve ascoltare» e «unire queste voci» verso una «riscossa e una ribellione civile». «Dobbiamo metterci al servizio», «metterci in discussione», «non accettare passivamente», «non consentire»… E poi citazione finale di Antonio Gramsci (che, per evidenti ragioni, non può difendersi né replicare) che - spiega Martina - «urla alle nostre coscienze». Posto che qualche eroico lettore di Repubblica, ieri, sia arrivato alla fine della letterina resistendo al colpo di sonno, gli sarà rimasto un dubbio. Come dire, un piccolo «dettaglio»: non si capisce che cosa debbano fare tutti questi bravi militanti di sinistra e della società civile, quale battaglia in positivo debba unirli, quali iniziative concrete, quali risposte effettive sull'economia, sulla sicurezza, sull'immigrazione. Ok, abbiamo capito che Matteo Salvini è cattivo e che Saviano è buono, anzi buonissimo: questa valutazione è largamente condivisa all'Ultima Spiaggia di Capalbio, dagli intellettuali e da quelle che chiameremo le brigate Rolex. Ma, detto questo, non c'è una proposta concreta, un'idea da avanzare. L'unica cosa che un bravo militante di sinistra possa fare - così par di capire - è seguire questo epistolario, questa elevata corrispondenza: Veronesi scrive a Saviano, Saviano scrive a Veronesi, Saviano scrive a tutti, Martina risponde a Saviano. Sorge il dubbio che qualcuno pensi di essere San Paolo (il mittente) e qualcun altro i Corinzi (i destinatari). E l'estate è ancora lunga. Daniele Capezzone <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/crisi-del-lavoro-e-della-sicurezza-ma-il-pd-per-5-anni-ha-parlato-daltro-2590444639.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-cricca-soros-alleuroparlamento-14-i-deputati-italiani-tutti-di-sinistra" data-post-id="2590444639" data-published-at="1765320793" data-use-pagination="False"> La cricca Soros all’Europarlamento: 14 i deputati italiani, tutti di sinistra Le prossime elezioni europee del maggio 2019 saranno una sfida, probabilmente decisiva, tra sovranisti ed europeisti. Da un lato i partiti che mettono al primo posto dei loro programmi il benessere delle proprie nazioni, dall'altro le forze che invece continuano a credere (o a fingere di credere) nelle sempre più traballanti parole d'ordine dei fanatici delle frontiere aperte e del mondialismo. Sarà una partita dura, e quindi i duri stanno già iniziando a prepararsi: i simboli delle due «squadre» in campo sono certamente Steve Bannon e George Soros. Bannon, paladino del sovranismo, «guru» della trionfale campagna elettorale di Donald Trump, sta mettendo a punto le sue mosse e ha annunciato recentemente di essere pronto a trasferirsi in Europa. Dall'altro lato, invece, è già in piena attività George Soros, che può contare, come ha scritto Italia Oggi, su una nutrita schiera di fedelissimi europarlamentari uscenti, pronti a ricandidarsi sventolando il vessillo della migrazione incontrollata e dell'abbattimento delle frontiere. «L'unico privato cittadino al mondo ad avere una politica estera», come è stato definito l'ottantottenne Soros, multimiliardario ungherese di nascita e americano di adozione, in Italia punta tutto sul Pd. È quanto risulta dal bilancio della sua fondazione, la Open society, che contiene un elenco di 226 eurodeputati definiti «alleati affidabili», su un totale di 751 parlamentari europei. La scoperta, opera di un sito di controinformazione, è recente: risale al novembre del 2017. Tra i 226 eurodeputato ritenuti «affidabili» dalla fondazione di George Soros, ci sono 14 italiani, 13 dei quali del Pd e una, la giornalista Barbara Spinelli, eletta con la Lista Tsipras. I 13 eurodeputati «sorosiani» del Partito democratico sono Brando Maria Benifei, Sergio Cofferati, Cecile Kyenge, Alessia Mosca, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Roberto Gualtieri, Isabella Del Monte, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Elena Schlein e Daniele Viotti. Spulciando l'intero elenco, si nota che la stragrande maggioranza dei 226 eurodeputati «affidabili» secondo la fondazione di Soros, appartengono a gruppi progressisti, mentre solo 38 sono iscritti al gruppo del Partito popolare europeo. Tra i nomi più altisonanti dell'elenco degli «alleati affidabili» di Soros, spicca quello del tedesco Martin Schulz, l'ex presidente del Parlamento europeo. Schulz, lo scorso settembre, ha sfidato Angela Merkel alle elezioni politiche tedesche, ma ha perso rovinosamente ed ha lasciato la guida della Spd. Anche il sostegno di Soros a Hillary Clinton, in occasione delle presidenziali Usa, non ha portato fortuna alla candidata dei democratici. Soros porta jella? Scherzi a parte, quello che è certo è che la sua fondazione ha ingentissimi risorse economiche da mettere in campo: Italia Oggi fa notare che uno dei progetti patrocinati dalla Open foundation negli ultimi anni già nel proprio titolo teorizza con chiarezza la necessità di «far accettare agli europei i migranti e la scomparsa delle frontiere». I fondi impegnati per questo programma ammontano a ben 18 miliardi di dollari, e attraverso questo piano la fondazione di Soros ha contribuito a finanziare anche le famose Ong, che con le loro navi, prima dell'intervento decisivo del governo italiano e in particolare del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, hanno contribuito in maniera determinante a incrementare i numeri dell'invasione di immigrati in Italia e in Europa. Dunque, le prossime elezioni europee si annunciano una resa dei conti tra sovranisti e mondialisti: sarà interessante verificare se le proposte degli europarlamentari uscenti del Pd inseriti nell'elenco degli «alleati affidabili» della fondazione di George Soros combaceranno con gli obiettivi del paladino delle frontiere aperte. Carlo Tarallo
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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