2024-09-20
Contro l’auto green l’Italia ha più alleati
La fabbrica di auto elettriche Volkswagen di Zwickau (Ansa)
Berlino, dove Volkswagen rischia il bagno di sangue, sta spingendo a Bruxelles sui motori a e-fuel. Il governo potrebbe sostenerla in cambio dell’appoggio ai biocarburanti, nei quali noi siamo a livelli di eccellenza. Intanto Urso incontra il collega ceco Sìkela.Prevedere i trend è sempre difficile. Lo è ancora di più quando i media unificati confondono strategie economiche e visioni politiche, che invece nulla hanno a che fare con i numeri. Così per anni il mantra della transizione green (costruito dall’olandese Frans Timmermans a lungo vice presidente con delega) è stato bevuto con l’imbuto senza accorgersi che non c’erano numeri sottostanti. La cosa è andata bene a lungo anche alle case automobilistiche. Adesso il numero delle vendite è così basso che seppur di fronte a un imponente aumento delle marginalità (il prezzo medio di un’auto è cresciuto del 30% in soli 4 anni) molte aziende chiedono di rivedere la strada verso lo stop ai motori endotermici. La scorsa settimana Acea, l’associazione dei produttori aveva lanciato l’allarme. Con l’inasprimento dei vincoli sulle emissioni previsto dal primo gennaio l’Europa rischia di perdere capacità produttiva pari a 2 milioni di veicoli (circa 8 fabbriche) o dover pagare multe per 13 miliardi di euro. Al di là della posizione di Stellantis che si ostina a voler la transizione green, Acea ieri lo ha ribadito con forza. E lo ha fatto di fronte ai nuovi dati di vendite. Uno sfacelo.Acea sa, tra l’altro, che i licenziamenti da parte di Volkswagen potrebbero essere molto più numerosi. Non 15.000 come anticipato, ma addirittura 30.000. Praticamente il 25% della forza lavoro. Un deserto industriale per la Germania e un enorme problema per tutti i fornitori. Compresa l’Italia che a sua volta soffre delle fabbriche ferme di Stellantis. Di fronte a tali numeri e alla realtà ci sono due posizioni nette e contrarie. Una è quella dirigista. «La richiesta dei produttori delle società automobilistiche di ritardare gli obiettivi, che loro stessi avevano approvato, nasce dal fatto che ci si aspettava investimenti, ad esempio in batterie, ricariche e colonnine, che poi non ci sono stati. Siamo in forte ritardo su questi aspetti», ha detto ieri l’ex premier ed ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, in occasione del convegno «Sviluppo economico e competitività: il ruolo dei centri di innovazione». «L’intero sistema di politiche economiche, giuridiche e climatiche deve essere allineato», ha ribadito in scia alla presentazione del report sulla competitività. In pratica, se il modello non funziona, spiega Draghi, basta raddoppiare gli sforzi. Con che soldi? Pubblici? Privati? Sembra quasi sfuggire all’ex premier un dettaglio. Cioè che il sistema di mobilità full electric funziona bene solo per pochi. Costa tanto, richiede non solo infrastrutture logistiche ma una capacità di potenza elettrica che non gemella minimamente con l’idea delle rinnovabili. Per viaggiare tutti in elettrico dovremmo riempire l’Europa di centrali nucleari. Ma qui i sostenitori della transizione green estrema preferiscono cambiare sempre discorso. Di conseguenza, di fronte ai dati del crollo dell’automotive resta il secondo paradigma di approccio. Quello non dirigista né ideologico, ma pragmatico. L’invito dei produttori auto a rivedere il meccanismo di emissioni va accolto a piene mani. E inserito in un piano di revisione modulare. Non solo perché non è immaginabile smontare lo schema di colpo. Sarebbe un ulteriore tracollo per le aziende. Queste vanno accompagnate su strade parallele fino al ripristino delle logiche di mercato. E i segnali ci sono. Non soltanto quelli provenienti dal mondo dei produttori. L’altro ieri il nuovo presidente di Confindustria ha raddrizzato la barra su questi temi e ha aggiunto un passo fondamentale. In futuro va rivisto anche il meccanismo della tassazione della CO2 e degli Ets. Sono un circolo vizioso. Per cui tra il primo passo e l’intervento finale per rimuovere tutte le storture serve una scaletta con tanto di alleanze. Ieri il ministro Adolfo Urso ha incontrato virtualmente il collega ceco, Josef Sìkela. Hanno concordato di anticipare dalla fine del 2026 ai primi mesi del 2025 l’attivazione della clausola di revisione prevista dal «Regolamento in materia di emissioni di CO2 delle autovetture nuove e dei veicoli leggeri». Praticamente la stessa clausola invocata da Acea. La scorsa settimana in una lettera al neo commissario al clima, Wopke Hoekstra, Ursula von der Leyen sottelineava la necessità di avviare emendamenti a favore dell’e-fuel. Chiaramente in rappresentanza delle istanze tedesche. Qui l’Italia può cercare l’altro spicchio di alleanza. Appoggiare Berlino in cambio dell’emendamento al bio-fuel. Si tratta della nostra industria e della capacità di fornire carburanti con livelli di eccellenza e con il vantaggio di non dover modificare né le linee produttive delle auto, né la catena logistica dell’approvvigionamento. Non è poco. Anzi un vantaggio per i produttori e per l’Italia. Certo, sullo sfondo ci sarà la battaglia con la Spagna. Il ministro spagnolo e neo vice presidente con delega al Green deal, Teresa Ribera, ha accolto con freddezza l’ipotesi di rinviare le scadenze. Salvo poi spiegare che l’Europa non può andare allo scontro con la Cina sui dazi e in generale per il comparto automotive. L’obiettivo dei socialisti europei è quello di allineare il Vecchio Continente alla tecnologia di Pechino. Una scelta che ci vedrà in ogni caso sconfitti. O perché totalmente dominati o perché semplicemente secondi e quindi in grado di raccogliere le briciole.
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