2023-01-09
«Il Covid l’ha messo all’angolo. Ma il populismo ritornerà»
Lo studioso Marco Tarchi: «Migranti e crisi economica muteranno lo scenario. Meloni draghiana? Alla lunga, le gioverà. Il M5s riprenderebbe il 30% solo sotto la guida di Di Battista».Il populismo è morto? L’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale in Italia è esplicito: siamo entrati, argomenta l’istituto di ricerca, «nel ciclo del post populismo». E, sulla questione, è maturato un vivace dibattito sulla Stampa, aperto dal direttore Massimo Giannini e proseguito dal politologo Giovanni Orsina. La Verità ne ha discusso con Marco Tarchi, fine studioso, già ideologo della cosiddetta «nuova destra», professore ordinario alla facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri dell’Università di Firenze.Professore, non è un paradosso che proprio quando è arrivato al governo uno dei partiti della destra sovranista, si inizi a parlare di una politica post populista?«No, e per varie ragioni. La prima è che Fratelli d’Italia è un partito che si proclama sovranista, ma ben poco ha a che spartire con il populismo».Dice? Perché?«È strutturato e istituzionalizzato sin dalle origini, i suoi dirigenti non sono outsider ma professionisti della politica e nel suo discorso lo Stato e la Nazione (entrambi con la maiuscola!) vengono molto prima del popolo (con la minuscola)». Chiaro. La seconda ragione?«La seconda ragione è che, appunto, sovranismo e populismo non si sovrappongono necessariamente, anche se in taluni casi ciò può accadere».Si spieghi.«Si può volere uno Stato sovrano e disprezzare il popolo, negandogli la pretesa di sovranità: non è certamente il caso di Fdi, ma è bene chiarire il punto». E poi?«La terza ragione è che, a Giorgia Meloni, certi toni populisti sono serviti strumentalmente per andare a caccia di voti, ma lei stessa - anche nella sua autobiografia - ha preso le distanze dal concetto di populismo, che assimila (con troppa semplificazione) alla demagogia». Dunque, l’era populista è davvero finita?«Come ha ben scritto Loris Zanatta, storico che ha studiato a lungo il fenomeno in America Latina, il populismo è un fiume carsico: scorre costantemente sotto la superficie della politica ma si manifesta a cielo aperto solo a tratti. Altri studiosi parlano di “momenti” populisti, collegandoli alle crisi sociali, culturali, politiche». Quello che stiamo vivendo cos’è, allora?«Questa volta, e questo sì è un paradosso, è stata proprio una crisi, quella sanitaria del Covid, a rilanciare la politica istituzionale - con i sussidi, il Pnrr, le rassicurazioni via tv e Facebook dei presidenti - e a mettere in un angolo i suoi sfidanti. Ma è solo una fase: il tempo del populismo ritornerà».Ma per il Censis, la caratteristica essenziale del post populismo è proprio che, a differenza che nella stagione della protesta, la quale reca in sé anche una speranzosa energia di cambiamento, ora gli italiani sarebbero rassegnati all’idea di vivere in una crisi permanente, sia essa sanitaria, bellica o economica. Addirittura, temono la guerra nucleare. È questo aspetto ad aver sparigliato le carte?«Non ne sono affatto sicuro. Semplicemente, un paio di grandi eventi inattesi - pandemia e guerra - hanno spostato per un po’ i centri di attenzione dei cittadini. Ma altre crisi, a partire da quella che si accompagnerà alla crescita esponenziale dell’immigrazione da Africa e Asia e agli attriti tipici delle società culturalmente eterogenee, senza sottovalutare le difficoltà economiche, muteranno di nuovo lo scenario».Torniamo alla Meloni: è stata la leader dell’unico partito che si è opposto a Mario Draghi, ma non ha certo rotto con l’eredità del predecessore. È un sintomo del post populismo? «Insisto: in Meloni c’era molta più demagogia che populismo, ai tempi dell’opposizione. Che sarebbe stata sostituita da una decisa volontà di legittimarsi usando la carta della moderazione e della ragionevolezza, era inevitabile. Chi ha studiato e capito il percorso che portò dal Msi ad Alleanza nazionale non poteva che prevederlo. E più in là si andrà, più questo aspetto si accentuerà».Il principale potere frenante di quella «demagogia» meloniana è il vincolo esterno. In varie forme: vincolo con l’Europa, con gli Stati Uniti, con la Nato… Esiste ancora uno spazio di manovra autonomo, all’interno di questo reticolo di obbligazioni?«Per chi volesse davvero “cambiare questo Paese”, come Meloni diceva e scriveva, anche a costo di scontrarsi con i poteri forti, gli spazi ci sarebbero. A partire da una posizione meno supina ai voleri del Grande fratello d’Oltreoceano. Ma, evidentemente, tra il dire e il fare c’è un abisso».Fratelli d’Italia, continuando a mantenere questo profilo istituzionale, corre il rischio paradossale di guadagnare consensi nell’area centrista-moderata, perdendo invece lo zoccolo duro degli elettori più radicali? «Con l’andar del tempo, sì, ma probabilmente questo travaso, sul piano numerico - e su quello della legittimazione negli “ambienti che contano” - dal punto di vista numerico gioverebbe al partito. E comunque non si tratta di uno scenario attuale. Come il Msi e An, Fdi può contare infatti su un’ineliminabile eredità del neofascismo». Sarebbe?«Il culto del capo, che per quasi tutti i seguaci ha sempre ragione, qualunque cosa dica o faccia: guai ad avere o manifestare dubbi sulle sue scelte. Ogni voltafaccia è scusato in nome del “realismo”, mai considerato opportunismo - come invece, almeno in passato, è ripetutamente accaduto. Finché i successi durano, non ci sono problemi».È la volta buona per la costituzione di un grande partito conservatore, come auspica, per l’ennesima volta, Silvio Berlusconi? Fdi pare escluderlo. E di fronte alla frammentarietà del centrodestra e alle rivalità interne, sembra un’impresa impossibile…«Non c’è solo questo pur serio problema: un’aggregazione così concepita sarebbe, soprattutto per Fdi, ma non solo, un errore grossolano». È scettico nei confronti delle fusioni politiche?«Tutte le fusioni di partiti diversi per storia, idee e stile hanno prodotto risultati scarsi se non pessimi: dalle aggregazioni “laiche” di oltre mezzo secolo fa al Partito democratico. Ai vertici, queste operazioni accrescono gelosie e lotte per i posti di potere; a livello intermedio, acuiscono la concorrenza per le candidature nelle liste uniche; alla base suscitano malumori e diffidenze. La mossa di Berlusconi di fatto punta a indebolire Meloni, non a creare chissà quale invincibile macchina da guerra elettorale».Secondo Orsina, tra i partiti del centrosinistra, quello più avvantaggiato a raccogliere i frutti della stagione post populista è il M5s, il quale, rispetto al Pd, sa rivolgersi anche ai vinti della globalizzazione. È d’accordo? È merito delle sterzate di Giuseppe Conte, che hanno corretto quella metamorfosi in partito di sistema che stava imprimendo, alla creatura di Beppe Grillo, Luigi Di Maio?«Concordo. Il M5s ha avuto un grande successo quando andava al rimorchio di un leader a quel tempo integralmente populista quale era il Grillo pre 2018, ed è sceso drasticamente nei consensi quando ha lasciato alla Lega lo scettro di alcune delle sue originarie rivendicazioni. Conte è stato quasi costretto a invertire - parzialmente - la rotta quando la gestione prima e la scissione poi di Di Maio avevano cancellato dal Movimento le caratteristiche che gli avevano consentito l’ascesa, e di questo cambiamento si sono visti i risultati». Il famigerato 33%, però, è ancora molto lontano...«Per tornare ai livelli di un tempo ci vorrebbe un M5s guidato da Alessandro Di Battista, con le idee che costui ha sempre espresso, e non dall’ex presidente del Consiglio, che quelle idee non le ha nelle corde».E il Pd? Stefano Bonaccini ha la stoffa per diventare un leader nazionale? Per rimettere il partito in contatto con quel pezzo di società che lo considera troppo elitario?«È davvero difficile fare pronostici attendibili in questo ambito: il Pd ha un’immagine logorata e una identità vaga, se non indecifrabile, date le tendenze estremamente diverse che lo attraversano. E fin dall’inizio ha insistito nel non volersi dare segretari troppo caratterizzati, demonizzando ogni spinta leaderista - la crisi di rigetto nei confronti di Matteo Renzi è stata un segno eloquente. Ma nella situazione in cui versa, solo una personalità di spicco e dotata di ampi poteri potrebbe riuscire a domare le spinte centrifughe delle correnti. Bonaccini può rivestire questo ruolo? E sarà realmente autonomo dai suoi sponsor? Il dubbio è lecito».E il destino del terzo polo?«Dipende da altri, e questo è un problema non di poco conto».Quali altri?«Da una parte, potrebbe trarre giovamento dall’irritazione, ormai sempre più palese, di taluni settori di Forza Italia di fronte al taglio decisionista dell’azione governativa di Giorgia Meloni, che potrebbe sfociare in un’ulteriore scissione e attrarre qualche fetta di elettorato moderato. Dall’altra, per quanto ciò appaia per ora improbabile, un successo della candidatura Schlein alla segreteria del Pd sarebbe per Renzi e Calenda vera manna dal cielo» .Sì?«Una svolta verso una sinistra ancor più radicalmente affascinata dal politicamente corretto e dalle cause elitario-intellettualistiche, che già hanno allontanato tanti elettori dei ceti popolari, si tramuterebbe in un esodo di quadri intermedi verso il terzo polo. Ma, appunto, si tratta solo di ipotesi che potrebbero non realizzarsi e lasciare questa aggregazione centrista in una terra di nessuno, preda di amletici dubbi strategici e tattici».
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)