
Questo appellativo fa riferimento alle norme che regolano esclusivamente il recupero dei naufraghi. I salvatori professionisti, invece, le distorcono per giustificare lo sbarco dei migranti e la richiesta di asilo su suolo italiano. E anche sui porti sicuri mentono.Com'è noto, il leit motiv sul quale le Ong basano la loro pretesa di far sbarcare in Italia e, in particolare, a Lampedusa i migranti raccolti in mare è costituito dal richiamo all'obbligo, previsto dalla «legge del mare», di condurli nel più vicino «porto sicuro», da individuarsi - secondo loro - appunto in quello di Lampedusa. Ciò soprattutto perché non potrebbe essere considerato «sicuro» il porto di Tripoli e neppure qualsiasi altro porto dell'Africa settentrionale, a cominciare da quello di Tunisi, dal momento che né la Libia né la Tunisia garantirebbero il rispetto delle Convenzioni internazionali che tutelano i diritti dei migranti e, segnatamente, di quelli che avessero, in ipotesi, titolo per chiedere ed ottenere lo status di rifugiati. In Libia, inoltre, a causa della locale situazione politica, i migranti sarebbero addirittura esposti al pericolo di torture e violenze di ogni genere, proprio per sfuggire alle quali avrebbero tentato di raggiungere, via mare, l'Europa. Questa argomentazione, però, è del tutto priva di fondamento giuridico. Essa è, infatti, solo il frutto di una consapevole e volontaria distorsione del reale contenuto delle norme invocate, fatta per mascherare il vero scopo delle Ong che non è certo quello, da esse sbandierato, di salvare dei naufraghi (peraltro volontari) altrimenti destinati alla morte, ma piuttosto quello di sottrarli al salvataggio da parte della Guardia costiera libica e così consentire loro la realizzazione dell'obiettivo da essi perseguito, che è quello di raggiungere l'Europa, via Italia, pur non avendone, il più delle volte, alcun diritto. Cominciamo quindi col ricordare che la «legge del mare» è essenzialmente costituita, per quanto qui interessa, dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (più nota come Convenzione Sar), integrata dalle linee guida elaborate nel 2004 dall'Imo (International maritime organization). È di fondamentale importanza mettere in luce che l'una e le altre sono state dettate solo ed esclusivamente con riferimento alla situazione di soggetti qualificabili come «naufraghi» e non come «migranti». Ed è solo per tali soggetti, quindi, che è stabilita la regola per cui essi, una volta raccolti, devono essere condotti non esattamente in un porto, ma, più genericamente, in una place of safety, da intendersi come «una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale». Appare chiaro, dunque, che tra le condizioni richieste perché un luogo o, più specificamente, un porto possa essere considerato sicuro per dei naufraghi non vi è affatto quella che gli stessi, in quanto migranti e non più naufraghi, possano anche fruire, una volta sbarcati, della possibilità di presentare e vedere accolte le eventuali richieste di asilo o protezione internazionale. Questo non significa, naturalmente, che l'esigenza di assicurare, per quanto possibile, tale possibilità, sia necessariamente destinata a rimanere del tutto ignorata. Significa soltanto che di essa non può e non deve occuparsi il comandante della nave soccorritrice, il quale deve invece, di regola, attenersi all'indicazione del luogo sicuro che deve essergli fornita dal governo o da altra autorità dello Stato responsabile della zona Sar in cui è avvenuto il recupero.Quella che dovrebbe occuparsene è invece la competente autorità dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, dal momento che quest'ultima è da considerare, a tutti gli effetti, come territorio del medesimo Stato. Essa e solo essa, quindi, avrebbe titolo per fornire al comandante le opportune istruzioni sul come gestire la situazione dei «migranti». Come pure è la stessa autorità quella che dovrebbe assumersi il compito e la responsabilità di autorizzare il comandante a non attenersi all'indicazione del porto sicuro fornita dallo Stato responsabile della zona Sar, quando ritenga che manchi, in realtà, taluna delle condizioni previste dalle Linee guida Imo, impartendogli, anche in questa ipotesi, le opportune istruzioni. Nell'uno e nell'altro caso, fra tali istruzioni, potrebbe anche esservi quella di dirigersi verso un porto di uno Stato diverso, a condizione però di aver preventivamente chiesto ed ottenuto il suo consenso. Il che, tuttavia, non comporterebbe affatto, come conseguenza automatica, che quello Stato, e non lo Stato di bandiera, diventi quindi competente per l'accoglienza dei migranti e la trattazione delle eventuali richieste di protezione internazionale. In base, infatti, all'art. 13 del vigente Regolamento europeo n. 604/2013 (che ha sostituito l'originaria Convenzione di Dublino), soltanto nel caso che il richiedente la protezione internazionale abbia «varcato illegalmente» la frontiera terrestre, marittima o aerea di uno Stato, quest'ultimo diventa necessariamente competente all'esame della domanda, con obbligo, quindi, di consentire la presenza del richiedente sul suo territorio fino a che l'esame non sia stato completato. Ma la suddetta condizione sarebbe, con ogni evidenza, mancante qualora i migranti venissero fatti sbarcare a seguito di volontaria e libera adesione dello Stato alla richiesta avanzata da un altro Stato. Quest'ultimo, pertanto, rimarrebbe comunque competente all'esame delle richieste di protezione internazionale, previo accoglimento dei richiedenti, dopo lo sbarco, nel proprio territorio. In conclusione, dunque, deve escludersi che i comandanti delle navi Ong abbiano titolo alcuno per disattendere, di loro iniziativa, l'indicazione del porto sicuro che ad essi sia stata fornita dalla competente autorità dello Stato responsabile della zona Sar in cui è avvenuto il recupero; e meno che mai può ammettersi che abbiano titolo alcuno per individuare essi stessi il diverso porto al quale dirigersi per poi pretendere di farvi sbarcare le persone soccorse. E ciò senza che si possa, in contrario, far leva sul fatto che la Commissione europea, l'Unhcr o altri organismi internazionali, avrebbero affermato che il porto di Tripoli e, più in generale, tutti i porti del Nord Africa, sarebbero da considerare «non sicuri» e perciò da evitare. Si tratta, infatti, di prese di posizione frutto di valutazioni puramente politiche alle quali non può quindi attribuirsi la benché minima efficacia vincolante nei confronti tanto dei governi quanto dei comandanti delle navi. Al che sia poi consentito aggiungere, a puro titolo di cronaca, che anche il porto di Tripoli, al pari di tutti gli altri porti del Nord Africa, risulta regolarmente aperto al normale traffico marittimo di merci e passeggeri. Diventa perciò alquanto difficile comprendere come esso possa essere considerato non sicuro per l'accoglienza dei naufraghi, sempre che, naturalmente, per la nozione di sicurezza si faccia doverosamente riferimento a quanto è previsto dalla pur invocata «legge del mare» e non ad altri parametri di valutazione che con essa, come si è visto, non hanno assolutamente nulla a che vedere e sui quali solo le pubbliche autorità dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, e non le Ong, hanno titolo ad interloquire.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





