2018-08-31
Così i predoni rossi si papparono Telecom
La chiamarono la «madre di tutte le privatizzazioni». In realtà fu un dono di Romano Prodi e Massimo D'Alema agli amici della «gauche caviar». Ernesto Pascale fu l'unico a opporsi, ma il Prof lo fece fuori e l'azienda finì a Colaninno. Un pessimo affare per l'Iri e per il Paese.Fu «la madre di tutte le privatizzazioni», la svendita di Telecom. A Palazzo Chigi sedeva quella che Guido Rossi, grand commis di Stato e avvocato nel recinto della gauche caviar, noto agli italiani per aver passato a tavolino uno scudetto dalla Juventus all'Inter, battezzò come l'unica merchant bank che non parla inglese. Il capo era Massimo D'Alema, i consiglieri più stretti Claudio Velardi, Fabrizio Rondolino, Giuliano Ferrara. Commissario politico Marco Minniti. Furono loro a favorire la finanza creativa della «razza predona» dei bresciani, i Colaninno, gli Gnutti che avevano come sponsor politico Pier Luigi Bersani , come sponda efficace nella finanza rossa Giovanni Consorte (Unipol) e in quella bianco sporco Gianpiero Fiorani, dominus della Popolare di Lodi: che significa crac Parmalat, scandalo Antonveneta, «furbetti del quartierino». La finanza creativa consisteva nel comprare senza tirare fuori un soldo indebitando le aziende da acquistare. Si può fare solo se chi vende lo concede: e la merchant di Palazzo Chigi stese tappeti rossi. Si chiama leveraged buyout. Roberto Colaninno che ha un figlio, Matteo (l'altro sta in azienda), parlamentare del Pd dal 2008, un caro ragazzo che fa la morale a tutti, è lo specialista principe di queste operazioni: si è comprato così l'Olivetti estromettendo Carlo De Benedetti (e solo questo è da record) con cui scalò Telecom e nello stesso modo ha conquistato la Piaggio, divenendo il quarto produttore al mondo di veicoli a due ruote e uno degli uomini più ricchi del continente. Tanto per avere ancora un'idea di cosa è stata la grande abbuffata della telefonia pubblica basti dire che Colaninno è riuscito a tenere per sé le proprietà immobiliari della Stet facendone un business collaterale. Attorno a Telecom ci sono state furbizie di capitale degli Agnelli (con meno dell'1% del capitale volevano comandare), furibonde lotte di potere tra Franco Bernabè, Marco Tronchetti Provera e lo stesso Guido Rossi. Perché la «madre di tutte le privatizzazioni» ha partorito due volte. Una prima volta con Romano Prodi a palazzo Chigi, determinando una minusvalenza mostruosa per lo Stato. Una seconda volta con l'assalto della «razza predona», regnante D'Alema, che ha prodotto un enorme arricchimento per gli amici degli amici. Oggi Telecom è in mano a Vivendi (Vincent Bolloré, dunque Francia) per il 23,94% del capitale e un altro 55,48% è di investitori esteri. Prima di essere «privatizzato», l'agglomerato Telecom valeva all'incirca 140.000 miliardi di lire (78 miliardi di euro). Dalla privatizzazione l'Iri ottenne meno della metà. Quando era pubblica, la galassia Telecom aveva 120.000 dipendenti. Oggi sono meno di 50.000. L'indebitamento era sotto il 30% rispetto al fatturato, oggi è pari al 100%. Da pubblica investiva 10.000 miliardi di lire all'anno (5 miliardi di euro) ed era presente in 20 Paesi? Da privata investe meno di 4 miliardi ed è presente ormai solo su tre mercati. Ma soprattutto, quando era pubblica, Telecom era un centro di ricerca all'avanguardia del mondo. Così oggi quando non vi prende il cellulare avete diritto ad arrabbiarvi tre volte: perché da contribuenti avete finanziato le telecomunicazioni in Italia, da cittadini siete stati impoveriti con la privatizzazione e da clienti il servizio latita.Prodi l'ha voluta svendere, D'Alema ha compiuto l'opera. E per l'Italia è stato un altro tramonto. Che più o meno cominciò così. Roma a primavera nel pomeriggio tardo ha una luce d'infinito: l'aria è soave, le ombre s'allungano in sfumature cremisi. Le 18: appuntamento insolito per un'intervista. Dall'altra parte del telefono la risposta: «Il tramonto s'addice a questo incontro».Stet: ottavo piano d'un palazzo incerto nell'architettura tra burocrazia e futuro. Incontrai Ernesto Pascale pochi mesi prima del suo «licenziamento». Se penso a certi manager di oggi la differenza è abissale: passammo una buona mezzora a discettare sui macchiaioli. Lui aveva passione per la pittura e firmava i suoi quadri come Paracelso. Lo presentavano come un boiardo, ma aveva costruito con la Stet la più moderna compagnia di telecomunicazioni d'Europa. La verità è che aveva carattere d'acciaio e intelletto fino, modi garbati a contrasto con la sua figura erculea e però aveva una certa ritrosia a «obbedire agli ordini». Per questo Prodi lo odiava e fece da premier ciò che non gli era riuscito da presidente dell'Iri: licenziò Pascale per distruggere definitivamente la Stet. Che significava far arretrare il Paese di vent'anni. Curioso no? Prodi che ogni piè sospinto parla di innovazione! In quell'intervista Pascale mi confessò che si sentiva un po' come il suo maestro Biagio Agnes (il creatore della Rai): giubilato in vita. E aveva un grande rimpianto: «Ora spazzeranno via tutto, compreso Socrate». Socrate era il progetto di cablaggio di tutta Italia con fibra ottica: Pascale lo aveva messo a punto con il Cselt, il centro di ricerca sulle telecomunicazioni che tutta Europa ci invidiava. Ed è stato forse il primo motivo del suo licenziamento. Agnes lo aveva avvertito: «Te la faranno pagare». Perché Pascale un errore l'aveva fatto: si era messo in proprio nel dialogo con l'Italia. Quando nel 1992 la Sip, che era la proprietaria dei telefoni, viene fusa con Italcable e Telespazio e la Stet, da sola finanziaria, diventa società operativa per favorire le privatizzazioni volute da Giuliano Amato per accontentare Beniamino Andreatta (che voleva entrare nell'euro ad ogni costo), Pascale, che trasloca da amministratore delegato di Sip alla medesima carica in Stet, pensa di chiudere il cerchio: produce dai telefoni alle idee per i telefoni e fa nascere Stream, la prima pay tv d'Italia. Il progetto del cablaggio serviva a connettere tutta Italia cercando di superare le infinite difficoltà che l'orografia del nostro Paese pone ai collegamenti.Mi disse in quell'intervista: «Non so se Enrico Mattei abbia avuto la stessa sensazione, ma io ho provato a imitarlo». Mattei era stato chiamato per chiudere l'Eni, ma la rilanciò fino a farla diventare il contraltare delle sette sorelle. E così voleva fare Pascale: sapendo che volevano privatizzare lui provò a dimostrare che le telecomunicazioni pubbliche erano una risorsa tecnologica, economica e scientifica del Paese. Sottovalutando però una cosa. La classe politica era cambiata. E pure gli interessi esterni. Pascale peraltro controllava con Stet anche giornali e agenzie di stampa e governava su un impero da 14.000 miliardi di fatturato e 130.000 dipendenti. Ai tempi della prima presidenza Prodi ebbe uno scontro furibondo con il Professore, che voleva in tutti i modi controllare direttamente la telefonia e già pensava di venderla. Nel 1993, quando Prodi tornò alla presidenza dell'Iri, Pascale sapeva che ci sarebbe stata guerra: l'Olivetti aveva fatto nascere Omnitel e De Benedetti picchiava duro contro Stet. Quel giorno Pascale mi rimproverò bonariamente: «Sono quattro anni che il suo giornale (Repubblica, ndr) mi fa la guerra, ma almeno oggi deponiamo le armi». Poi arrivò un caffè e mi confidò: «Vuol sapere come va finire? Faranno un pacco regalo per gli amici e il Paese farà un balzo indietro di vent'anni. Ma diranno che è il futuro. Perché devono trovare i soldi per entrare nell'euro. Il tempo sta scadendo e si vendono l'argenteria. Ah, quando scende guardi se non hanno già cambiato la targa. Si chiamerà Telecom Italia». Da lì a qualche settimana Repubblica uscirà con il titolo «La madre di tutte le privatizzazioni». Romano Prodi, come preconizzato da Pascale, confeziona il pacchetto regalo e offre sul mercato azioni Telecom a 10.980 lire (6 euro) e tira su 13 miliardi di euro. L'idea è costituire la solita public company confidando però sul fatto che le famiglie del capitalismo italiano s'impegnino. Carlo Azeglio Ciampi è ministro del Tesoro e ha promesso che l'Italia avrà i requisiti per stare nell'euro: deve fare cassa. Tutti sperano che Mediobanca dia una mano. Ma a conti fatti gli Agnelli, con l'Ifil, comprano un misero 0,60%. Il «nocciolino duro» è troppo fragile per governare una società che tutti hanno interpretato come la gallina dalle uva d'oro. Macina utili, agisce ancora in monopolio, distribuisce un utile che con l'11% del fatturato, genera 7,5 milioni di risorse finanziare all'anno. Ma l'equilibrio non regge; in un anno la Telecom cambia tre presidenti: Guido Rossi, Gian Mario Rossignolo e Vito Gamberale e dopo otto mesi senza guida arriva Franco Bernabè. In quei mesi Colaninno prepara il piano. A Palazzo Chigi sale Massimo D'Alema. Colaninno, che ha preso in mano l'Olivetti dal 1996 (Carlo De Benedetti resta maggiore azionista fino al 1998), lancia un'Opa sulla totalità del capitale Telecom per 102.000 miliardi di lire. Parte di quei soldi li trova vendendo Omnitel e Infostrada a Mannesmann, il che vuol dire privare l'Italia di due asset strategici. Ad ogni modo Colaninno ha in mano un assegno in bianco da 60 miliardi di euro di alcune banche. Bernabè organizza la resistenza cercando di fare una contro Opa con l'appoggio di Deutsche Telekom, ma all'assemblea degli azionisti che deve approvare il contropiano Palazzo Chigi (che aveva ancora una rilevante partecipazione di minoranza) non si presenta. Proverà Draghi a fermare l'operazione, ma anche lui viene battuto. Franco Bernabè scrive anche ai dipendenti avvertendoli che Telecom sarà comprata indebitandola e che il futuro si presenta incerto, ma alla fine Colaninno la spunta. L'Italia entrerà nell'euro e questo è quello che interessava alla politica. Allo Stato non arriveranno altri soldi, ma ora sono affari dei privati. E infatti Colaninno farà un sacco di quattrini. Per comprarsi tutta la società indebita Telecom e attraverso Olivetti la controlla. Poi concentra il controllo di Olivetti in un'altra società: la Bell. Sarà questa piramide a consentire nel 2001 (quando a Palazzo Chigi torna Silvio Berlusconi) a Marco Tronchetti Provera di impadronirsi di Telecom comprando meno del 10% delle azioni. La vita di Telecom da quel momento sarà un vorticoso giro di scatole cinesi. Diventerà il bancomat del capitalismo italiano. E l'ora giusta per parlarne resta quella del tramonto. (4. Continua)