2024-03-20
Meglio fare le elezioni anche per la Consulta
Augusto Barbera ne ha dato prova: i giudici sostengono di dover colmare dei «vuoti normativi», ma in realtà seguono l’agenda progressista. Il controllo di costituzionalità è diventato un grimaldello ideologico: a questo punto, si renda esplicita la politicizzazione della Corte.Siamo adulti e vaccinati - anche in virtù delle sentenze della Corte costituzionale. Magari non siamo proprio cinici e machiavellici, ma di sicuro siamo ormai smaliziati. E allora, a questo punto, solleviamo il velo d’ipocrisia: se la giustizia dev’essere politica, che la politicizzazione sia integrale, esplicita. Quindi, onesta e trasparente. Eleggiamo anche i 15 giudici della Consulta. Oppure, seguiamo il modello della Corte Suprema Usa: li indichi il presidente del Consiglio - la carica che somiglia di più al presidente americano e, se andasse in porto la riforma di Giorgia Meloni, quella che i cittadini prima o poi sceglieranno alle urne - e dopo passino al vaglio delle Camere. Il motivo? Un’imparzialità simulata, per la democrazia, può essere più insidiosa di una partigianeria dichiarata. Lunedì, presentando la sua relazione annuale, il numero uno della Consulta, Augusto Barbera, un ex del Pci ora in quota dem, ha lanciato un vero e proprio manifesto filosofico. Ha ribadito che l’organo da lui diretto deve supplire al ruolo negletto dal Parlamento, che è prigioniero di un’intollerabile «inerzia legislativa». La Consulta ha dunque il compito di «cogliere le pulsioni evolutive della società pluralista, con le quali la Costituzione respira». Di qui, la ratio dei moniti a deputati e senatori: essi devono muoversi a colmare i «vuoti normativi». Beninteso, seguendo, come nel caso del fine vita o delle adozioni gay, le indicazioni fornite dalle toghe.La versione ufficiale, in sostanza, è che queste ultime intervengano quasi loro malgrado e soltanto perché l’Aula rinuncia «a una prerogativa» che altrimenti le competerebbe. Barbera, comunque, afferma anche che la Corte è, sì, chiamata «a essere “custode della Costituzione”, ma è tenuta a essere altrettanto attenta a non costruire, con i soli strumenti dell’interpretazione, una fragile “Costituzione dei custodi”». È la teoria della Carta come «documento vivente» e delle Corti quali organi incaricati di «dinamizzare» l’ordinamento giuridico, accompagnando lo spirito dei tempi. Che per qualche ragione -ad esempio, perché nella classe dei tecnici, giuristi inclusi, alberga una schiacciante maggioranza progressista - sempre spinge per il riconoscimento dei «nuovi diritti» delle minoranze e sempre reclama un contrappeso agli esecutivi di destra. Giuliano Amato, predecessore di Barbera, l’aveva detto: la Consulta «è il contraltare della maggioranza». E in un certo senso aveva ragione. Se in molte democrazie liberali esiste il controllo di costituzionalità delle leggi, è proprio perché i nostri sistemi, oltre a essere democratici, sono liberali. Non tutto è lecito in nome della volontà generale; esistono «forme e limiti» per l’esercizio della sovranità popolare, come stabilisce la Costituzione italiana.Il guaio è che, ai nobili principi, è subentrata una prassi discutibile. Quella per cui il contraltare della maggioranza è diventato il contraltare di questa maggioranza; quella per cui il dottor Sottile avverte l’urgenza dei contropoteri solo quando governa chi a lui non piace; quella per cui i pronunciamenti della Consulta, ogni volta, promuovono l’agenda dei radicali, dei gruppi Lgbt, le istanze pro migranti e il primato del diritto europeo. Strano, no? O questi populisti hanno torto perenne, o qualcuno ha trovato la maniera di neutralizzarli, sfruttando le istituzioni non elettive. Che da garanti della Costituzione si sono trasformate in garanti di un’ideologia. Con un’ulteriore aggravante, nel caso della Consulta: l’ostinazione, cui si aggrappa l’attuale presidente, nell’occultare le cosiddette opinioni dissenzienti all’interno del collegio giudicante. Il pretesto è che bisogna preservare l’autorevolezza delle sentenze; ma l’impressione è che, obliterando gli orientamenti difformi, si voglia nascondere il carattere politico di certe decisioni.Molti esperti lo sostengono in modo lampante: è necessario addomesticare gli umori dei cittadini, perché i desideri che essi esprimono attraverso il voto, semplicemente, non si possono o non si debbono realizzare. Ricordate una vecchia intervista di Mario Monti? Il grande pregio degli organismi Ue, spiegò nel 1998, è stato di aver potuto accettare «l’onere dell’impopolarità, essendo più al riparo dal processo elettorale». La democrazia, ancorché sulla bocca di chiunque in Occidente, in realtà è percepita dalle élite come una minaccia dalla quale difendersi. E per stemperarne gli eccessi - eccessi che, guarda un po’, sono sistematicamente attribuiti alla destra discriminatoria, euroscettica e pure un tantino sudata - tornano utili Bruxelles, l’Onu, le convenzioni, i trattati, i tribunali. Addirittura, le Ong, che un recente libro del politologo polacco Jan Zielonka suggerisce di coinvolgere nei processi decisionali. Peccato che chi è «al riparo» dalle elezioni sia al riparo pure dalla vigilanza dei cittadini.Ecco il senso della provocazione: l’epoca delle geometrie perfette, fondate su controlli ed equilibri, è finita. Smettiamola di prenderci in giro, abbracciamo la polarizzazione e rendiamo qualunque istituzione contendibile. Senza squilli di trombe e grossi entusiasmi, per carità: c’è poco da festeggiare se il progetto di cesellare l’architettura del potere si è incagliato. Ma potrebbe avere un effetto benefico ammettere che il re è nudo. È meglio che chi vuole una democrazia sotto tutela sia messo sotto tutela della democrazia.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)