2021-04-27
Contro l’uso politico della giustizia chiudere le «riserve di caccia» ai pm
Il caso Palamara ha dimostrato che correnti e singoli magistrati incidono sugli assetti del potere pubblico. Bisogna togliere ai procuratori la possibilità di cercare e scegliere, in maniera autonoma, le notizie di reato.Correrebbe il rischio di un'amara disillusione chi nutrisse la speranza di vedere smantellato a colpi di riforme delle norme sull'elezione o sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura il cosiddetto «sistema» delle nomine agli uffici giudiziari sulla base di accordi fra le varie correnti della magistratura associata, quale ampiamente illustrato nel famoso libro contenente l'intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara (per la finta meraviglia anche di quanti, in gran numero e da gran tempo, fra magistrati e politici, ne erano già perfettamente a conoscenza). Accordi del genere anzidetto sono, infatti, nella ineliminabile natura della cose, ogni qual volta si affidi ad un organo collegiale elettivo la gestione della destinazione e della progressione in carriera di soggetti che, a loro volta, come appunto si verifica nel caso della magistratura, costituiscono il corpo elettorale dal quale quello stesso organo viene espresso. Ciò non significa, tuttavia, che la situazione non possa in alcun modo essere migliorata. Occorre però a tal fine cercare altre vie, cominciando con il porsi una fondamentale domanda: in che cosa consiste esattamente il danno che il «sistema» produce alla collettività nazionale? Per rispondere a tale interrogativo occorre anzitutto prendere in considerazione il fatto che, ai fini che qui interessano, gli uffici giudiziari da ritenere più importanti, a causa della loro funzione, per così dire, «di attacco», sono quelli del pubblico ministero, cui è affidato l'esercizio dell'azione penale, sulla base della previa acquisizione della cosiddetta «notizia di reato»; acquisizione alla quale, a differenza di quanto avveniva in passato, essi possono procedere anche di loro iniziativa, secondo quanto previsto dall'art. 330 dell'attuale codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1988; dal che è derivata l'attribuzione a tali uffici di una sfera di larghissima ed incontrollata discrezionalità, inevitabilmente destinata, come di fatto è avvenuto, ad assumere anche connotazioni politiche, correlate agli orientamenti, spesso pubblicizzati, dei singoli magistrati. Questo significa che le correnti della magistratura associata, dotate a loro volta, in maggiore o minor misura, di spiccate coloriture politiche, sono in grado di incidere pesantemente sugli assetti del potere politico, anche a livello nazionale, oltre che locale, mediante la scelta, proprio sulla base degli accordi che costituiscono il cosiddetto «sistema», di un soggetto piuttosto che un altro da destinare alla direzione di una Procura della Repubblica; e ciò, ovviamente, specie quando si tratti della Procura di Roma o di altre città di primaria importanza. Ed è questo appunto il vero danno al quale bisognerebbe porre riparo. In che modo? Non certo vietando la formazione delle correnti o imponendo loro il carattere dell'apoliticità, dal momento che tali divieti o imposizioni, oltre che presentare grossi rischi di incostituzionalità, sarebbero facilmente eludibili con accorgimenti della più varia natura. L'unico modo sarebbe invece quello di far cessare la possibilità che è attualmente concessa ai magistrati del pubblico ministero di scegliersi, a loro insindacabile arbitrio, quello che potremmo definire il «terreno di caccia» sul quale andare alla ricerca della «selvaggina» da essi ritenuta più appetibile; vale a dire quella costituita da personaggi di spicco in ambito politico, economico o sociale, da sottoporre a indagini penali anche prima e indipendentemente dall'acquisizione di una vera e propria «notizia di reato» a loro carico che abbia già in partenza, come dovrebbe avere, un minimo di specificità e di concretezza. Si tratterebbe, in altri termini, di riportare gli uffici del pubblico ministero alle caratteristiche che essi avevano prima della riforma del 1988, e cioè quelle di essere organi essenzialmente preposti non alla ricerca ma alla sola ricezione delle notizie di reato, per valutarne quindi, in primo luogo, la credibilità e la fondatezza giuridica e poi passare, dopo l'esito positivo di questo primo vaglio, alla ricerca delle prove ed infine, a seconda del risultato, alle conseguenti determinazioni circa l'esercizio o meno dell'azione penale. Ed era certamente questo il modello che i padri costituenti ebbero presente quando stabilirono, con l'art. 112 della Costituzione, che il pubblico ministero avesse l'obbligo di esercitare l'azione penale; il che altro non significava se non costituzionalizzare una norma già contenuta nel decreto luogotenenziale n. 288 del 1944, con la quale era stato tolto al pubblico ministero il potere, attribuitogli durante il regime fascista, di cosiddetta «cestinazione» delle notizie di reato, cioè la possibilità di non dar loro seguito senza in alcun modo sottoporle al vaglio di un giudice che quanto meno ne verificasse l'eventuale, effettiva infondatezza. Per realizzare il suddetto obiettivo basterebbe quindi eliminare la norma che, come si è visto, consente al pubblico ministero di ricercare ed acquisire di sua iniziativa le notizie di reato, imponendogli invece, come condizione indispensabile per l'instaurazione di un procedimento penale a carico di chicchessia, quella che la notizia di reato gli sia fatta pervenire da parte di chi ne abbia obbligo o facoltà (organi di polizia, pubblici ufficiali o anche privati) sotto forma di denuncia, querela, istanza e simili. A ciò occorrerebbe poi aggiungere il ripristino dell'immunità parlamentare quale prevista nella originaria formulazione dell'art. 68 della Costituzione, secondo cui anche per la sola instaurazione di un procedimento penale a carico di un parlamentare, e non soltanto (come ora è previsto) per l'adozione di determinati provvedimenti incidenti sulla libertà personale o sulla segretezza delle comunicazioni , era necessaria l'autorizzazione a procedere della Camera alla quale il parlamentare apparteneva; disciplina, questa, che, peraltro era ed è ancora comune a gran parte dei paesi retti da regimi democratici. Scontata appare, a questo punto, l'obiezione che, in tal modo, potrebbe risultare impedita la scoperta di un certo numero di reati, anche di notevole gravità, soprattutto del genere di quelli che costituiscono espressione di malcostume politico, sociale ed economico e danneggiano quindi fortemente gli interessi della collettività. A tale obiezione può facilmente rispondersi, però, che la libertà d'iniziativa di cui si sono avvalsi finora gli uffici del pubblico ministero ha anche portato all'instaurazione di un gran numero di procedimenti per presunti reati del genere anzidetto, poi finiti, come è universalmente noto, con pronunce pienamente assolutorie giunte dopo anni di sofferenze per gli imputati ingiustamente accusati. E, comunque, non può nemmeno dirsi che il frutto di quella stessa libertà d'iniziativa sia stato un generale, percepibile miglioramento del livello medio di onestà e di efficienza riscontrabile in quanti operano nel campo della politica, dell'economia e della pubblica amministrazione. D'altra parte, anche quando si dibatteva, a partire dal XVIII secolo, circa l'opportunità o meno di abolire la tortura come strumento per ottenere delle confessioni, gli antiabolizionisti sostenevano che, senza la tortura, un gran numero di delitti sarebbe rimasto impunito giacché, mancando la prova principe costituita dalla confessione, sarebbe stato pressoché impossibile, secondo le regole dell'epoca, pronunciare una sentenza di condanna. E la loro obiezione poteva apparire non del tutto priva di fondamento, giacché, contrariamente a quanto comunemente si pensa, non erano rari i casi in cui le confessioni, pur se estorte con la tortura, si rivelavano poi, sulla base di riscontri obiettivi, effettivamente rispondenti al vero. Ciononostante gli abolizionisti ebbero, alla fine, partita vinta e la loro vittoria è stata ed è universalmente considerata come un decisivo passo avanti sulla via della civiltà giuridica. Se ora qualcuno, pur proclamando la propria adesione ai principi di quella stessa civiltà, vuol tuttavia riprendere gli stessi argomenti dei quali si avvalevano gli oppositori all'abolizione della tortura, si accomodi pure. La storia giudicherà.Pietro Dubolino(Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione)
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 settembre 2025. Il deputato di Azione Ettore Rosato ci parla della dine del bipolarismo italiano e del destino del centrosinistra. Per lui, «il leader è Conte, non la Schlein».