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2019-12-26
Conte twitta sulla manovra dalla luna. Ma la grana Autostrade lo riporterà a terra
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Ansa
Partiamo dalla manovra. Mentre resta aperta una questione di metodo, e cioè la compressione dell'esame parlamentare della legge di bilancio (tema che sarà oggetto di un ricorso leghista alla Corte Costituzionale, che sarà formalizzato il 2 gennaio prossimo), Giuseppe Conte ha scelto la vigilia di Natale per un'offensiva sui social network: un tweet, con tanto di accattivante videografica, per descrivere a modo suo la manovra. Ecco la versione del premier: «In 100 giorni: meno tasse per i lavoratori, più soldi per famiglie, Comuni, vigili del fuoco, sanità, incentivi alle imprese. Crescita, sostenibilità, ambiente, welfare, lotta all'evasione fiscale: con fiducia guardiamo al futuro dei cittadini». E, nella videoanimazione, a rincarare la dose di ottimismo, i grandi slogan «più soldi in busta paga», «3 miliardi di tasse in meno», «i prezzi non aumentano», «vantaggi per chi paga con la carta».
In molti, sui social network, in un misto di ironia, sconcerto e indignazione, si sono chiesti a quale Paese e a quale manovra Conte si riferisse, essendo state omesse - nella sua comunicazione - le citazioni della pioggia di nuove tasse introdotte o aggravate (sugar tax, plastic tax, accise, giochi), il peggioramento della condizione delle partita Iva (nessuna estensione ai 100mila euro del regime di flat tax al 15%, e forti restrizioni anche entro i 65 mila euro di fatturato), il colpo alle imprese (con l'abolizione della mini Ires), e la mega ipoteca fatta calare sul 2020 e sul 2021 attraverso i 47 miliardi di nuove clausole di salvaguardia introdotte (20+27), circa il doppio di quelle disinnescate quest'anno.
La reazione dei cittadini sotto il tweet di Conte è stata impressionante, ai limiti dell'irriferibilità: @annaelegalita chiede «quando la smetterai di raccontare cazzate agli italiani», per @filippob8 «Siete dei pagliacci, sparirete», @63_ruspa auspica «che ti vada ti traverso il panettone», secondo @claudietta673 Conte è «bugiardo e ipocrita anche alla vigila di Natale», @emanuelatarquin consiglia «perlomeno state zitti». E avanti così con centinaia di commenti durissimi, a testimonianza del clamoroso autogol della comunicazione di Palazzo Chigi.
Ma Conte, alla ripresa, non dovrà fronteggiare solo le bordate degli utenti su Twitter. Ad attenderlo, c'è il rovente dossier legato alle concessioni, in particolare a quelle autostradali, dopo la norma inserita nel Milleproroghe e oggetto di aperta contestazione da parte dei renziani, che hanno letteralmente avvertito il resto della maggioranza («Ci vediamo in Parlamento»), minacciando guerriglia in sede di conversione del decreto.
Ma, prim'ancora che si giunga all'esame parlamentare del decreto Milleproroghe, appare già clamorosa la divaricazione tra tre figure apicali dello stesso esecutivo, che, il 24 mattina, sono riuscite a offrire in tre distinte interviste tre interpretazioni opposte della stessa norma. Obiettivamente, una scena senza precedenti, pur in un teatro romano che ha visto molti governi litigiosi nell'arco dei decenni.
Secondo Conte stesso, intervistato da Il Messaggero, «non chiediamo la revoca» della concessione. Esattamente il contrario di quanto sostenuto da Luigi Di Maio in un colloquio con La Stampa: «Per Autostrade non c'è alternativa. Bisogna revocare la concessione». Per chi non avesse capito bene, il leader grillino ha rincarato la dose: «Non c'è altra soluzione alla revoca». E ancora, in modo surreale, alla luce delle altre interviste dei suoi colleghi dell'esecutivo: «Su questo il governo è compatto, e se qualcuno la pensa diversamente aspetto di ascoltare le loro motivazioni, sono curioso». La terza versione è stata fornita dalla titolare delle Infrastrutture, Paola De Micheli, intervistata dal Corriere: «La revoca è una procedura separata sulla quale stiamo ancora acquisendo dati. A gennaio saremo in grado di prendere una decisione». Insomma, versione uno: no alla revoca. Versione due: sì alla revoca. Versione tre: decisione ancora da prendere. Una sola cosa appare chiara: davanti a queste tre strade, imboccarle contemporaneamente tutte e tre appare impossibile. Qualcuno perderà questa partita, e i riflessi sulla tenuta della maggioranza sembrano inevitabili.
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La mini pausa natalizia non sembra aver aiutato il governo né ad affrontare in modo più realistico – e meno propagandistico – i contenuti della legge di Bilancio appena licenziata dal Parlamento, né a mettere definitivamente a fuoco il dossier concessioni, che minaccia di rappresentare per i giallorossi ciò che la Tav fu per i gialloverdi: l'anticamera di una lacerazione insanabile.Partiamo dalla manovra. Mentre resta aperta una questione di metodo, e cioè la compressione dell'esame parlamentare della legge di bilancio (tema che sarà oggetto di un ricorso leghista alla Corte Costituzionale, che sarà formalizzato il 2 gennaio prossimo), Giuseppe Conte ha scelto la vigilia di Natale per un'offensiva sui social network: un tweet, con tanto di accattivante videografica, per descrivere a modo suo la manovra. Ecco la versione del premier: «In 100 giorni: meno tasse per i lavoratori, più soldi per famiglie, Comuni, vigili del fuoco, sanità, incentivi alle imprese. Crescita, sostenibilità, ambiente, welfare, lotta all'evasione fiscale: con fiducia guardiamo al futuro dei cittadini». E, nella videoanimazione, a rincarare la dose di ottimismo, i grandi slogan «più soldi in busta paga», «3 miliardi di tasse in meno», «i prezzi non aumentano», «vantaggi per chi paga con la carta». In molti, sui social network, in un misto di ironia, sconcerto e indignazione, si sono chiesti a quale Paese e a quale manovra Conte si riferisse, essendo state omesse - nella sua comunicazione - le citazioni della pioggia di nuove tasse introdotte o aggravate (sugar tax, plastic tax, accise, giochi), il peggioramento della condizione delle partita Iva (nessuna estensione ai 100mila euro del regime di flat tax al 15%, e forti restrizioni anche entro i 65 mila euro di fatturato), il colpo alle imprese (con l'abolizione della mini Ires), e la mega ipoteca fatta calare sul 2020 e sul 2021 attraverso i 47 miliardi di nuove clausole di salvaguardia introdotte (20+27), circa il doppio di quelle disinnescate quest'anno. La reazione dei cittadini sotto il tweet di Conte è stata impressionante, ai limiti dell'irriferibilità: @annaelegalita chiede «quando la smetterai di raccontare cazzate agli italiani», per @filippob8 «Siete dei pagliacci, sparirete», @63_ruspa auspica «che ti vada ti traverso il panettone», secondo @claudietta673 Conte è «bugiardo e ipocrita anche alla vigila di Natale», @emanuelatarquin consiglia «perlomeno state zitti». E avanti così con centinaia di commenti durissimi, a testimonianza del clamoroso autogol della comunicazione di Palazzo Chigi. Ma Conte, alla ripresa, non dovrà fronteggiare solo le bordate degli utenti su Twitter. Ad attenderlo, c'è il rovente dossier legato alle concessioni, in particolare a quelle autostradali, dopo la norma inserita nel Milleproroghe e oggetto di aperta contestazione da parte dei renziani, che hanno letteralmente avvertito il resto della maggioranza («Ci vediamo in Parlamento»), minacciando guerriglia in sede di conversione del decreto. Ma, prim'ancora che si giunga all'esame parlamentare del decreto Milleproroghe, appare già clamorosa la divaricazione tra tre figure apicali dello stesso esecutivo, che, il 24 mattina, sono riuscite a offrire in tre distinte interviste tre interpretazioni opposte della stessa norma. Obiettivamente, una scena senza precedenti, pur in un teatro romano che ha visto molti governi litigiosi nell'arco dei decenni.Secondo Conte stesso, intervistato da Il Messaggero, «non chiediamo la revoca» della concessione. Esattamente il contrario di quanto sostenuto da Luigi Di Maio in un colloquio con La Stampa: «Per Autostrade non c'è alternativa. Bisogna revocare la concessione». Per chi non avesse capito bene, il leader grillino ha rincarato la dose: «Non c'è altra soluzione alla revoca». E ancora, in modo surreale, alla luce delle altre interviste dei suoi colleghi dell'esecutivo: «Su questo il governo è compatto, e se qualcuno la pensa diversamente aspetto di ascoltare le loro motivazioni, sono curioso». La terza versione è stata fornita dalla titolare delle Infrastrutture, Paola De Micheli, intervistata dal Corriere: «La revoca è una procedura separata sulla quale stiamo ancora acquisendo dati. A gennaio saremo in grado di prendere una decisione». Insomma, versione uno: no alla revoca. Versione due: sì alla revoca. Versione tre: decisione ancora da prendere. Una sola cosa appare chiara: davanti a queste tre strade, imboccarle contemporaneamente tutte e tre appare impossibile. Qualcuno perderà questa partita, e i riflessi sulla tenuta della maggioranza sembrano inevitabili.
Sara Kelany
Funzionano i centri?
«Stanno cambiando cose. In meglio. Oggi sono Cpr ordinari. Il nostro obiettivo era ed è quello di renderli centri per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Sentenze ideologizzate di alcuni giudici italiani hanno incagliato la dinamica. Col pretesto dei Paesi sicuri. Sottolineo che nessuna delle ordinanze emesse ha trattato la posizione dei singoli migranti rispetto al loro diritto di ottenere protezione. Stabilivano che non è lo Stato che può individuare i Paesi sicuri. Ma può esserlo un giudice. Ritenevano che Egitto e Bangladesh non fossero Paesi sicuri».
Lo sono?
«Premesso che sono anche egiziana, ora in Europa la situazione si è finalmente ribaltata. Optando per accelerare sul Patto per la migrazione e l’asilo. Nel Consiglio dei ministri dell’Interno si è approvato un regolamento. Si è fatta una lista dei Paesi sicuri e, guarda caso, sono ricompresi Egitto e Bangladesh. L’Ue dà ragione alle politiche migratorie del governo Meloni, quindi quando entrerà in vigore questo regolamento i centri potranno ritornare pienamente in attività».
Tempistiche?
«Verosimilmente tra gennaio e febbraio il Parlamento Ue dovrà esprimersi. I regolamenti sono direttamente applicabili dagli Stati membri, non abbiamo bisogno di fare direttive di recepimento».
La parola remigrazione rimane un tema. E il 2023 rimane «annus horribilis» in termini di sbarchi.
«Uso più volentieri il termine “rimpatrio”. Il problema dei rimpatri è diffuso in tutta Europa. Abbiamo aumentato e stiamo aumentando del 100% l’anno i rimpatri forzosi. E abbiamo un grandissimo numero di rimpatri volontari assistiti con l’ausilio di Unhcr. Stanno alleggerendo di molto la posizione italiana. Con riferimento al 2023, i dati erano connessi a motivi esogeni. Il conflitto russo-ucraino, disordini e colpi di Stato nel Sahel, tensioni in Libia e Tunisia. Nel 2024, a seguito anche delle politiche di questo governo, che si basano sui controlli delle frontiere, sulla lotta ai trafficanti e sulla esternalizzazione della gestione dei flussi migratori irregolari in partnership coi Paesi terzi, segnatamente Albania, abbiamo registrato un meno 57% di sbarchi sul territorio nazionale. Sulla base di questi dati l’Europa ha guardato con occhi completamente diversi all’Italia e infatti si sta spostando sulle nostre politiche. Governi anche di estrazione diametralmente opposta a quella italiana ci prendono ad esempio. Vedi la Danimarca. Non parliamo di Ue ma di Europa. La Gran Bretagna è laburista. Starmer è venuto in Italia a chiedere alla Meloni: “Come hai fatto?”».
Come spiegarsi il rapporto speciale che c’è fra Italia e Albania?
«Si fonda su due basi. L’autorevolezza del nostro presidente del Consiglio e la personale empatia tra i due presidenti. Il presidente Rama è un socialista ma indipendentemente dall’estrazione politica, quando un premier è autorevole agli occhi del mondo, non può cambiare un rapporto con lo Stato solo e unicamente perché si viaggia su linee politiche differenti».
Zelensky è andato a Londra e ha incontrato Macron, Starmer e Merz. Dopodiché è venuto a Roma. Quei tre non sono stati in grado di dargli delle garanzie e lui è venuto a chiederle a Giorgia Meloni?
«Per l’Ucraina l’Italia è un partner fondamentale nella risoluzione del conflitto. Siamo sempre stati al suo fianco. Siamo sempre stati convinti che difendere l’Ucraina fosse una questione anche di principio, per la difesa di principi democratici europei. Kyev è vittima di un’orrida guerra di aggressione da parte della Russia. L’Italia, oltre ad avere questo tipo di approccio nei confronti dell’Ucraina, è anche una delle nazioni con il miglior rapporto gli Stati Uniti. Non ci dobbiamo dimenticare che gli Usa sono fondamentali affinché si arrivi a una risoluzione. Ed è ineliminabile l'apporto di Donald Trump in questa faccenda, così come lo è stato e lo sarà nelle questioni mediorientali. Giorgia Meloni è il leader, tra questi che mi hai menzionato, più forte e più stabile in Europa. Macron, Starmer e Merz sono più deboli. La loro debolezza interna si riflette anche in politica estera».
Il documento pubblicato sul sito della Casa Bianca è motivo di imbarazzo o di orgoglio per voi?
«Non è né motivo di imbarazzo né motivo di orgoglio. È una fotografia. Naturalmente la grammatica politica degli Stati Uniti non è la nostra. Noi non possiamo guardare la politica statunitense con i nostri occhi. Non siamo abituati ai loro toni. Ciò non significa che noi non dobbiamo continuare a conservare un rapporto privilegiato. Saldamente ancorato all’Occidente. Perché io mi chiedo e chiedo alle sinistre italiane: l’alternativa qual è? La Cina? Noi non vogliamo avere come alternativa la Cina. Finché ci saremo noi al governo».
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Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
L’assemblea dem non incorona Schlein come candidata premier Gori si fa portavoce dei riformisti: «Il Green deal va ripensato».
Suggerimento, gratis, per i talk televisivi: si sottopongano Elly Schlein e i dirigenti del Pd, tipo l’economista Francesco Boccia, al test della michetta. Ieri la segretaria che sperava di cambiare lo statuto – tentativo fallito – per farsi incoronare candidata unica alla presidenza del Consiglio e che sta tentando di rinviare il congresso (cade a marzo 2027 e se per caso lo perdesse non riuscirebbe neppure ad avvicinarsi a Palazzo Chigi), se n’è uscita con una battuta alimentare: «Meloni festeggia l’Unesco, ma il frigo degli italiani è sempre più vuoto, la sua calcolatrice è rotta: vada nei supermercati e guardi quanto sono aumentati i prezzi». Chissà se Elly Schlein sa quanto costa il pane al chilo e un etto di mandorle. Lei è vegetariana e chiederle del prosciutto sarebbe indelicato.
L’assemblea del Pd, convocata ieri a Roma in concomitanza con Atreju per non lasciare troppo spazio a Giorgia Meloni, ha ricordato, se ancora ce ne fosse bisogno, che per i dem vale tutto. Ma soprattutto ha lasciato in sospeso le polemiche interne: congelate perché si doveva tentare di offuscare la comunicazione Fdi. La Schlein ha evitato qualsiasi voto e qualsiasi argomento divisivo. Ha fatto un po’ di propaganda e nulla più. Così vale che Stefano Bonaccini, dopo averne dette di ogni contro la segretaria annunci che la sua corrente Energia popolare rientra in maggioranza e porti solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi così come l’hanno data alle vittime ebree di Bondi Beach. A Repubblica e alla Stampa al massimo cambiano padrone, in Australia gli amici di Hamas, non così distanti dai pro Pal e da Francesca Albanese a cui i sindaci Pd consegnano le chiavi delle città, hanno ammazzato. Ma è brutto dirlo nel giorno in cui Elly Schlein s’ingegna a sfidare Giorgia Meloni su tutto. «Anche tanti di coloro che hanno votato per questa destra capiscono che non ha fatto nulla per la crescita; Arianna Meloni ci ha detto che loro priorità sono il premierato e la legge elettorale perché hanno paura di perdere». La Schlein si sente già al governo e annuncia: «Metteremo 3 miliardi in più sulla sanità, faremo il salario minimo a 9 euro, abbatteremo il prezzo dell’energia scollegandolo da quello del gas». Il fatto è che per battere «queste destre che delegittimano l’Onu, il diritto internazionale e facendo i vassalli non difendono l’interesse nazionale» ci vogliono i voti. Elly Schlein azzarda: «I voti assoluti della nostra coalizione e di quella del governo sono sostanzialmente pari ma siamo il primo partito con i voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri». A essersi rotta deve essere la sua calcolatrice, non quella della Meloni.
Comunque la prospettiva – anche se Giuseppe Conte proprio da Atreju le ha fatto sapere che i 5 stelle non sono alleati col Pd – è «confrontiamoci anche aspramente, ma costruiamo l’alternativa: è tempo che l’Italia ricominci a sognare e a sperare». Così da gennaio lei parte per un tour programmatico. Doveva andare in giro a parlare del Pd, ma meglio dare addosso alla Meoni che fare i conti con i suoi. Che ieri hanno disertato la direzione nazionale che ha solo votato la relazione della segretaria (225 voti a favore e 36 astenuti) per evitare di palesare le fratture che invece ci sono. L’ala dura dei riformisti ha scelto di rinviare il confronto salvo Giorgio Gori, eurodeputato ex sindaco di Bergamo che all’assemblea ha scandito: «Il Pd ha perso la fiducia, sia della maggioranza degli operai, ma anche degli imprenditori. La sinistra è considerata lontana dal mondo dell’impresa. Serve il riformismo concreto e coraggioso di cui parla Prodi. Il Green deal fatica a tenere insieme obiettivi ambientali e tutele sociali, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e promuovere un nuovo e diverso Green deal», ha concluso Gori, «proporre un patto fra istituzioni, imprese e lavoro. La destra porta il Paese al declino, il Pd può presentarsi e vincere le elezioni come partito della crescita e della redistribuzione». La Schlein per ora si occupa dei supermercati, la grande distribuzione.
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Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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