2020-06-07
Conte tiene in ostaggio il voto per le elezioni regionali
Massimo D'Alema è stato il primo comunista a diventare presidente del Consiglio. Era il 21 ottobre del 1998 quando entrò trionfale a Palazzo Chigi dopo aver defenestrato Romano Prodi, ovvero il boiardo democristiano dietro cui gli eredi del Pci avevano deciso di nascondersi per vincere le elezioni e battere Silvio Berlusconi. Tuttavia, D'Alema è stato anche il primo presidente del Consiglio a dover lasciare l'incarico per la sconfitta (...)(...) alle regionali. Un anno, sei mesi e cinque giorni dopo aver conquistato la stanza dei bottoni, l'ex segretario del Pds fu infatti costretto alle dimissioni da una bruciante disfatta: al suo posto subentrò Giuliano Amato, giusto il tempo di prolungare l'agonia della legislatura. Vi chiedete perché rievochi storie del passato ormai ricoperte dalla polvere? Per due motivi. Il primo è che, come ha ben spiegato Claudio Antonelli ieri sulla Verità, dietro molte decisioni del governo si intravede la manina di Massimo D'Alema il quale, a differenza di ciò che si crede, non si è ritirato in Umbria a fare vino, ma continua a fare danni ed è tuttora il vero ispiratore delle scelte economiche della maggioranza. La seconda ragione per cui citiamo il mitico Spezzaferro (era il suo soprannome da studente) è che la fine di D'Alema deve essere ben presente nella mente di Giuseppe Conte e per questo il premier cerca di tenersi il più possibile alla larga dalle elezioni, al punto da non volere che si facciano.È vero che l'avvocato di Volturara Appula accarezza l'idea di affrancarsi dai 5 stelle, dove ormai è in corso una guerra di tutti contro tutti. E corrisponde certamente alla realtà l'idea di un partito personale, soprattutto dopo che sono iniziati a circolare alcuni sondaggi secondo cui, se si presentasse alle elezioni, la formazione politica capitanata dal presidente del Consiglio potrebbe arrivare al 14 per cento, scavalcando i grillini. Ma Conte sa che una cosa sono i sondaggi e un'altra la realtà. Se le rilevazioni fossero così affidabili, Pier Luigi Bersani nel 2013 sarebbe riuscito a fare un governo, Matteo Renzi avrebbe vinto il referendum costituzionale e oggi l'Italia non sarebbe governata da una maggioranza giallorossa, ma da una rossa e azzurra, ovvero da un'alleanza fra Pd, Forza Italia e qualche fuoriuscito raccattato qua e là, magari anche recuperato grazie a una scissione della Lega. No, Conte, che ha a lungo frequentato l'entourage della diplomazia vaticana, sa benissimo che in conclave si entra Papa ma si esce cardinale e dunque, nonostante lo accreditino di mirabolanti consensi, non ha voglia di toccare con mano quanti voti potrebbe racimolare. Anche Mario Monti sembrava godere di un'ampia popolarità, al punto da illudere due vecchie lenze come Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, che si allearono con lui pur di far fuori Berlusconi. Ma quando cominciò a contare i voti, si scoprì che l'ex rettore era alla guida dell'ennesimo partitino, che peraltro si sciolse come neve al sole, giusto il tempo di capire che non avrebbe contato niente. Sì, il presidente del Consiglio non intende fare la fine di Monti, imbalsamato a Palazzo Madama grazie a un seggio da senatore a vita. Ma neppure vuole finire in pellicceria come quella vecchia volpe di D'Alema. Come abbiamo spiegato nei giorni scorsi, il capo del governo cerca di puntellare il suo traballante trono e per farlo è disposto a tutto, anche a spostare le elezioni. Non quelle politiche, che intende procrastinare al 2023, in tempo per sognare il Quirinale, ma quelle regionali. Il 2020 era l'anno fissato per il rinnovo di alcuni importanti incarichi di governatore ma, con la scusa del Covid, Conte ha già ottenuto di far slittare di qualche mese il voto. Però ora alcune regioni fremono per fissare la data, puntando su elezioni ravvicinate già a luglio. A insistere per i seggi aperti in estate sono soprattutto i governatori del Veneto e della Campania, i quali intendono capitalizzare la buona gestione dell'emergenza Covid. Ma Conte teme che le consultazioni popolari possano essere un boomerang, perché è vero che in alcune regioni l'epidemia ha colpito meno duramente, ma è altrettanto vero che la crisi potrebbe fare dimenticare i risultati sanitari, richiamando l'attenzione su quelli meno rosei dell'economia. Cioè, in pochi mesi la popolarità del governo potrebbe precipitare al minimo, portandosi via ogni ambizione ed è certo che, di fronte a una sconfitta bruciante, l'avvocato di Volturara Appula non potrebbe uscirsene con uno dei suoi meravigliosi discorsi, pieni di parole, ma vuoti di contenuti.No, Conte sa bene che nel giro di poche settimane l'umore degli italiani potrebbe cambiare. E quindi intende evitare di farsi trovare nel pieno di una campagna elettorale. Meglio rinviare, meglio allentare anche il più timido appuntamento con gli elettori. Non si sa mai. La rabbia può fare brutti scherzi. Così come l'ambizione.
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 settembre 2025. Il deputato di Azione Ettore Rosato ci parla della dine del bipolarismo italiano e del destino del centrosinistra. Per lui, «il leader è Conte, non la Schlein».