«Siumpatheia». Nel freddissimo cortile di Montecitorio, normalmente deserto d'inverno ma reso dalla chiusura del Transatlantico l'unica zona d'incontro tra cronisti e politici, il parolone greco risuona tra i presenti divertiti e diventa immediatamente un tormentone.
L'intervento di Giuseppe Conte è terminato da qualche minuto, e proprio alle ultime battute il presidente del Consiglio sfodera uno dei suoi colpi a effetto, preferendo attingere alla lingua dei bizantini e delle loro fumose manovre politiche, piuttosto che al latino dei Romani. Nel colpo di reni retorico di Conte, la «siumpatheia» è quella partecipazione emotiva alle sorti della nazione che la classe politica ha smarrito e che deve ritrovare in fretta per ripristinare una connessione con il Paese reale, pena la frattura definitiva tra governanti e popolo. Nei fatti, però, la parola chiave dei 54 minuti impiegati per rivolgersi ai parlamentari e invocare un rinnovato sostegno al suo governo in crisi è stata un'altra, decisamente più prosaica: «Aiutateci». Un'invocazione che ha trasformato il premier, al culmine della sua eloquenza, in una figura più simile a un piazzista che a un emulo di Platone. Perché non c'è stato bisogno di leggerlo in filigrana, il suo discorso, per comprendere immediatamente che si è trattato di un appello diretto, accorato, e a tratti sfacciato ai «volenterosi» per un pronto soccorso all'esecutivo in sostituzione dei renziani, in cambio di certi e cospicui vantaggi politici. Un'impostazione dettata dalla scelta di chiudere per sempre la porta in faccia al leader di Italia viva Matteo Renzi (mai nominato), comunicata duramente nel momento in cui Conte ha affermato che «non si può cancellare quanto accaduto», una crisi cioè «senza fondamento» che ha provocato in lui e nei partiti a lui leali della maggioranza «un certo disagio». La conclusione che ne deriva, dunque è la necessità di «voltare pagina», escludendo ogni ipotesi di ricucitura con l'ex sindaco di Firenze.
Ed è a questo punto che il presidente del Consiglio ha messo sul piatto della bilancia, rivolgendosi praticamente a ogni settore dell'emiciclo, una serie di provvedimenti, posizioni e cariche rese vacanti dall'abbandono della pattuglia renziana, Lo ha fatto con quello che, assieme al Mes, è stato il casus belli con Renzi, e cioè con la delega ai servizi segreti che, in aula, Conte ha annunciato, «per porsi nelle condizioni di rafforzare la squadra di governo», di voler assegnare «a una persona di mia fiducia», e lo ha fatto con il ministero dell'Agricoltura, lasciato vacante dalla pasionaria renziana Teresa Bellanova, quando ha affermato di non volere tenere l'interim. Un'escalation di profferte che ha toccato il suo culmine nel momento in cui Conte ha completato il lotto aprendo a una legge elettorale «di impronta proporzionale, ovviamente quanto più condivisa, che possa coniugare l'esigenza di rappresentanza con quella pur ineludibile di garantire governabilità». Un amo lanciato alle forze centriste in ansia per la propria sopravvivenza parlamentare, in modo disinvolto, data la delicatezza di una materia la cui competenza è chiaramente in mano al Parlamento e non all'esecutivo. Ma lo scouting parlamentare di Conte non si è limitato ai settori centristi dell'emiciclo e si è rivolto a tutti, se si eccettuano ovviamente i sovranisti, mentre dai banchi di Fratelli d'Italia e della Lega il ritmo delle interruzioni si intensificava e prorompeva nel grido «Mastella! Mastella!», con i deputati del Carroccio che sfoderavano più di uno striscione con annessa richiesta di dimissioni. Più compassati gli esponenti di Forza Italia, anche se Mariastella Gelmini ha rispedito le offerte al mittente, affermando che la formula politica che sostiene questo governo «è fallita» e ribadendo che il suo partito è «europeista, liberale e socialista ma alternativo alle forze che lo compongono». Non è un caso, però, che il premier abbia insistito molto sulla vocazione europeista del suo governo, facendo balenare, magari nella testa di qualche berlusconiano inquieto, la suggestione di una maggioranza Ursula, sulla falsariga di quanto accaduto a Bruxelles: «Sarebbe un arricchimento di questa alleanza», ha affermato Conte, «poter acquistare un contributo politico di formazioni che si collocano nella più alta tradizione europeista: liberale, popolare, socialista». Un ragionamento che ha fatto breccia nell'ex governatore del Lazio, Renata Polverini, che ha detto sì alla fiducia a sorpresa, suscitando l'applauso dei deputati di maggioranza e, a dispetto delle dichiarazioni iniziali, ha instillato qualche dubbio nella palude centrista, se è vero che Maurizio Lupi non ha preso parte al voto.
Affermazioni europeiste, quelle di Conte, che fanno il paio con il richiamo ai «tradizionali pilastri della propria politica estera, a partire dall'appartenenza all'Unione europea e all'Alleanza atlantica», ma che poi si contraddicono nel tentativo di tenerci assieme anche il rapporto con la Cina, tanto cara al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Sugli Usa, in particolare, non ha mancato di suscitare brusii il tardivo endorsement di Conte per Joe Biden, dopo le polemiche a sinistra per la tiepida condanna dell'assalto a Capitol Hill degli ultrà trumpiani. E mentre dagli scranni di Pd, M5s e Leu ogni passaggio saliente del discorso di Conte era sottolineato da un applauso (alle fine se ne conteranno 14), Forza Italia si è unita alla stizza degli altri due partiti del centrodestra quando, più o meno a metà discorso, il premier ha rispolverato, dopo un anno e mezzo di oblìo, lo spauracchio dello spread e della speculazione dei mercati. A completare il quadro, il rituale richiamo, da parte di Conte, all'unità e alla responsabilità nazionale nel contesto dell'emergenza coronavirus, all'importanza del lavoro fatto sul Recovery plan, del ruolo svolto dai sindacati e dalle parti sociali. Da parte sua, la leader di Fdi, Giorgia Meloni, dopo aver attaccato a testa bassa il premier per «il vergognoso mercimonio» messo in campo in Aula, ha sollevato la questione, non banale, dell'atteggiamento che il Quirinale potrebbe avere nel caso il suo esecutivo non ottenesse una maggioranza autosufficiente: «Siete sicuri che il presidente della Repubblica vi consentirà di governare in assenza di una maggioranza assoluta, dopo che nel 2018 si è rifiutato di dare l'incarico al centrodestra perché non c'era la certezza sui numeri. Pensate che le regole della democrazia valgono solo per il centrodestra?». Le ha fatto eco il capogruppo leghista Riccardi Molinari, che dopo aver polemizzato duramente per l'invasione di campo sulla legge elettorale, ha utilizzato la metafora calcistica, parlando di «calciomercato dei parlamentari con improbabili talent scout come Clemente Mastella».
Alla fine, come previsto, i numeri della Camera hanno sorriso ai giallorossi, con 321 voti a favore , 259 contro e 27 astenuti ma per capire se il calciomercato contiano sarà stato veramente in grado di innestare forze fresche e puntellare la squadra di governo, occorrerà vedere cosa succederà oggi, nel suk di Palazzo Madama. Il pallottoliere viene aggiornato di minuto in minuto, a seconda di come vengano interpretati i segnali dei papabili volenterosi e al momento, al lordo dell'eventuale soccorso dei senatori a vita, la maggioranza sembra lontana dalla fatidica soglia di 161 voti, arrivando al massimo a 154. Ma il problema è che, anche in caso di esito positivo del voto di fiducia, oltre alla mancanza della maggioranza assoluta, a differenza che a Montecitorio, sarebbe impossibile al Senato andare avanti con uno scarto così risicato sull'opposizione.






