2019-12-06
Conte fa il duro sul piano dell’ex Ilva. Il M5s: «Mittal se ne va? Meno male»
Respinta la proposta di 4.700 esuberi. Ma poi che si fa?. Barbara Lezzi: «Poter ai commissari». Il governatore pd Michele Emiliano: «Non si esce gratis». Il ministro Patuanelli: «Siamo cocciuti, speriamo in una soluzione condivisa».Respinto al mittente. E ora? Se guardi il viso di Giuseppe Conte mentre risponde ai giornalisti sulla vicenda Ilva, puoi leggere facilmente una increspatura, una piega, un moto di palpabile disappunto rispetto agli standard del suo abituale aplomb: «Il progetto che è stato anticipato in un incontro», dice il presidente del Consiglio, «non va assolutamente bene, mi sembra sia molto simile a quello originario». Il suo è lo sguardo interdetto di chi si sente turlupinato. Ma ora? «Noi», aggiunge Conte «questo progetto lo respingiamo e lavoreremo come durante questo negoziato agli obiettivi che ci siamo prefissati col signor Mittal...». Il «signor» Mittal, definizione algida. È la staffilata finale, lo schiaffo in faccia: «Obiettivi che il signor Mittal si è impegnato personalmente con me a raggiungere, e ci riusciremo». Sì, ma come? Ieri Conte, nel pieno di una giornata drammatica, sceglie di rispondere al grande macigno della giornata con una dichiarazione dal vivo, a margine di una iniziativa a Roma, in riferimento al piano annunciato dalla cordata franco indiana, che prevede fino a 4.700 esuberi entro il 2023. Ma anche dopo la stoccata al «signor» Mittal il problema rimane, anzi, diventa per certi versi ineludibile. Sicuramente non differibile. Che fare ora? Non è un mistero che dentro le diverse anime che convivono nel governo (e su altri tavoli, come sappiamo spesso in maniera burrascosa) ci siano in queste ore opinioni molto diverse. Non sul presente ma sul futuro, su come procedere da domani. Per molti parlamentari del M5s che in questa battaglia si riconoscono nelle posizioni di Barbara Lezzi la soluzione è semplice, e può essere una sola: «La gestione», spiega l'ex ministra, «ora deve tornare ai commissari. D'altra parte non c'è nulla di traumatico: sono loro che hanno gestito l'impianto dall'abbandono dei Riva fino a un anno fa», ha ripetuto la Lezzi, «e lo hanno fatto anche con numeri migliori di quelli raggiunti da Mittal. L'opera di risanamento ambientale è andata avanti principalmente per merito loro». Gioca a favore di questa ipotesi, che non entusiasma Palazzo Chigi, il ruolo decisivo che i commissari (due pentastellati, una di area dem, riconfermata dal governo gialloverde) hanno svolto nell'opporsi al piano di chiusura annunciato da Mittal, quello che prevedeva la colata della Salamandra per tombare l'altoforno. «Mittal dice che non può continuare? Meno male! - dice la Lezzi alla Verità: «Questo è il momento di mostrare la schiena dritta, rilanciare la produzione, completare le opere ambientali, riavviare la produzione è la decarbonizzazione». A spiegare che l'umore della Lezzi è condiviso bastano le parole della deputata pentastellata Jessica Costanzo: «La società deve capire che non è nella posizione (né ora, né mai) di ricattare una città e uno Stato intero». Insomma, il Movimento quasi esulta e si augura una fuoriuscita di Arcelor dall'impianto dando per scontata l'inadempienza contrattuale e la rottura. E un altro che non nasconde la sua soddisfazione è il governatore della Puglia, Michele Emiliano: «Suggerirei ad Arcelor Mittal», spiega il presidente della Regione Puglia, «di ricordare che hanno un contratto firmato e che da un contratto firmato che è diventato non più gradito da chi ha preso questo impegno. Non si esce gratis o pretendendo dagli altri il sacrificio. È esattamente il contrario: è Mittal che se non ci sta più deve evidentemente risarcire lo Stato, Taranto e la Puglia per i danni che ha arrecato sbagliando, almeno dal suo punto di vista, a firmare quel contratto».Una linea che a tarda serata ribadisce anche il ministro Francesco Boccia, uno di quelli che più si è speso nella battaglia, e che non ha mai nascosto i suoi dubbi sul piano dei franco-indiani: «Un gruppo che ha una posizione dominante nel mondo non può fare un piano per venti anni, e poi dire non riesco a sostenerlo dopo dodici mesi». Alla Verità Boccia dice anche di più: «Io sono uno che, malgrado tutto, adesso avrei voluto che Mittal restasse. Ma c'è un confine che noi non possiamo superare: se Mittal ha delle perdite, ha le spalle abbastanza larghe per caricarsele sulle spalle e andare avanti. Se invece non lo fa, c'è una sola strada: avanti con i commissari e via alle richieste dei risarcimenti». Ovvero: rottura totale e guerra. Un altro ministro, Stefano Patuanelli, non nasconde l'amarezza: «Molto deluso, da azienda passi indietro. Siamo cocciuti, speriamo in una soluzione condivisa. Se non ci sarà andremo avanti». E qui, al «che fare», c'è il bivio. Chi sogna uno come Francesco Caio, super manager del governo che ha gestito questa drammatica trattativa. Chi invece - soprattutto fra i 5 stelle - esprime insoddisfazione per come è andata la negoziazione, e vorrebbe una linea più dura. Ma c'è pure chi, come Carlo Calenda, vorrebbe andare in direzione opposta e dare nuovi incentivi a Mittal per restare. Che fare, dunque, dopo la guerra agli indiani, diventa nella maggioranza il problema di domani. Che è già diventato oggi.