La verità su chi finisce in corsia e a che età: l'ente di viale Regina Elena non trasmette i dati e vieta all'Infn, che li ha elaborati, di diffonderli. Così, li abbiamo estrapolati noi.
La verità su chi finisce in corsia e a che età: l'ente di viale Regina Elena non trasmette i dati e vieta all'Infn, che li ha elaborati, di diffonderli. Così, li abbiamo estrapolati noi.C'è un dato sulla pandemia che non trovate nei bollettini quotidiani, ma nemmeno nei più estesi rapporti della sorveglianza integrata redatti dall'autorità sanitaria. Eppure, l'andamento dei ricoveri ospedalieri - nei reparti ordinari e di terapia intensiva - divisi per fascia d'età rappresenta un'informazione dal chiaro valore epidemiologico, utile a comprendere le dinamiche della diffusione del virus, oltre che dal forte significato politico, dal momento che intorno a essa si potrebbe, o per meglio dire si dovrebbe, modulare l'attività sanitaria e di prevenzione. E invece, da mesi si preferisce dare la caccia all'untore, criminalizzare la movida, ostracizzare chi solleva qualche dubbio. Certo, dal punto di vista mediatico torna più funzionale alla narrazione abusare dei toni allarmistici nella speranza che la paura della malattia e della morte si sostituiscano alla responsabilità personale. Ma bisogna essere ciechi per negare che questa sciagurata strategia comunicativa ha contribuito a polarizzare il dibattito fino alle estreme conseguenze cui ci tocca assistere in questi giorni.Come dicevamo, il dato delle ospedalizzazioni per fascia d'età risulta tutt'altro che semplice da rintracciare, ma prima di addentrarci nei numeri che il nostro quotidiano è riuscito faticosamente a recuperare, vale la pena chiedersi quali informazioni siano effettivamente alla portata di chiunque. Il documento esteso, pubblicato con cadenza settimanale dall'Istituto superiore di sanità, sulla sorveglianza integrata Covid-19, riporta una tabella con i casi di positività e i decessi per fascia d'età, con un ulteriore spaccato dei casi per classi di età inferiori ai 19 anni. Da qualche tempo, poi, l'Iss pubblica, all'interno dello stesso documento, un'altra tabella, contenente i casi di Covid diagnosticati, ospedalizzati, ricoverati in terapia intensiva e deceduti, divisi tra vaccinati e non vaccinati per quattro fasce d'età (12-39, 40-59, 60-79 e over 80 anni), ma l'informazione è relativa solo agli ultimi 30 giorni e, naturalmente, riguarda solo i soggetti maggiori di 12 anni (età sotto la quale non è possibile vaccinarsi). Stesso discorso vale per il dato sull'efficacia dei vaccini, diviso per fascia d'età ma disponibile solo dal 4 aprile all'ultima data utile e sempre per gli over 12. C'è poi un dato effettivamente interessante, spesso citato ma pur sempre parziale, ovvero quello relativo all'età mediana di casi, ospedalizzazioni, ricoveri in terapia intensiva e decessi, dai quali si evince, in effetti, la diminuzione nel tempo dell'età dei soggetti colpiti. Infine, nella dashboard della sorveglianza integrata dell'Iss si può consultare la percentuale dei casi di Covid per stato clinico attuale (critico, severo, lieve, paucisintomatico e asintomatico), disponibile però solo per una frazione di casi e senza alcun riferimento alla situazione ospedaliera. Né sul sito del ministero della Salute, né su quello dell'Iss, né tantomeno su quello della Protezione civile sembra esserci traccia del dato puntuale dei ricoveri per fascia d'età. Un'informazione che, non senza fatica, può essere scovata sulla pagina «CovidStat», realizzata dai ricercatori dell'Istituto nazionale di fisica nucleare in virtù di un accordo siglato il 31 marzo scorso tra l'Iss e, appunto, l'Infn. Un'intesa che, udite udite, «non prevede la possibilità, da parte dell'Infn, di rendere pubblici questi dati», se non sotto forma di dashboard, dal momento che «queste informazioni sono di proprietà dell'Infn». Contatto dalla Verità, l'Istituto di fisica nucleare spalanca le braccia. «Questa scelta purtroppo non dipende da noi», ci scrive un referente. «Se avessimo la possibilità, non avremmo problemi a pubblicare i dati». Per scrupolo, lunedì abbiamo provato a contattare l'ufficio stampa dell'Iss, il quale in un primo momento ci ha rimbalzato alla pagina della sorveglianza integrata - nella quale però il dato sui ricoveri per fascia d'età non è presente - per poi successivamente rendersi disponibile a fornirci le informazioni, a seguito di nostra richiesta via email. Mentre scriviamo, la struttura presieduta da Silvio Brusaferro non ha fornito ancora alcun riscontro alle nostre istanze. Risultato? Ci siamo armati di santa pazienza e abbiamo trascritto su un foglio di calcolo, uno a uno, circa 10.000 dati ricavati dall'infografica interattiva realizzata dall'Infn. Un atteggiamento, quello dell'Iss, che ci sorprende fino a un certo punto. Non è la prima volta, infatti, che ci rivolgiamo agli uffici di viale Regina Elena per ottenere informazioni senza poi ottenere alcun seguito. Risale a novembre del 2020 la richiesta di accesso civico generalizzato volta a conoscere il numero di decessi per Covid divisi per luogo (reparto ospedaliero, terapia intensiva, Rsa e domicilio dell'ammalato), caduta nel vuoto con la motivazione che l'ente non detiene questi dati. Senza riscontro anche la richiesta inviata a marzo scorso, nella quale chiedevamo il numero di casi per luogo di contagio (scuola, luoghi di lavoro, strutture ospedaliere, ristoranti e hotel, eccetera). Fino alla vicenda dei ricoveri per fascia d'età, che dimostra ancora una volta come all'Iss la trasparenza rimanga solo un miraggio.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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