2020-09-01
Consumiamo risorse per 1,6 pianeti? È solo un’altra frottola ambientalista
(Fabian Sommer/picture alliance via Getty Images)
Lo scorso 22 agosto è stato l'Earth overshoot day: secondo l'ecopropaganda è il giorno in cui esauriamo tutte le riserve annue della Terra. Dietro c'è la solita Ong, mentre scienziati e filosofi contestano i dati.Siamo tutti degli scrocconi, dei vampiri, dei parassiti. Viviamo sulle spalle del più grande creditore esistente: Madre Terra. A leggere i media di tutto il mondo, pare che, da poco più di una settimana, l'umanità viva al di là delle proprie possibilità. Lo scorso 22 agosto, infatti, è stato l'Earth overshoot day, cioè la giornata del sovrasfruttamento terrestre, detta anche del «debito ecologico», ovvero il giorno nel quale l'umanità consuma interamente le risorse prodotte dal pianeta nell'intero anno. E non possiamo neanche lamentarci più di tanto: il lockdown avrebbe posticipato la data di quasi un mese rispetto all'anno precedente. Nel 2019 l'Earth overshoot day era stato infatti il 29 luglio, ed era dal 2005, quando la giornata si celebrò il 25 agosto, che non cadeva così tardi. Tuttavia, continua la litania catastrofista, anche quest'anno l'umanità utilizzerà il 60% in più di quanto possa permettersi: in pratica è come se al nostro stile di vita occorressero le risorse di 1,6 pianeti Terra. Tutto questo, ovviamente, viene presentato come un dato pacifico, incontestato. In realtà, la data in cui cominciamo a diventare sanguisughe della Terra non è scritta negli astri, ma viene calcolata ogni anno da una Ong, il Global footprint network. Il calcolo è molto semplice, si tratta di fare il rapporto tra due valori: la biocapacità del pianeta, cioè la somma di tutte le risorse che la Terra è in grado di generare annualmente, e l'impronta ecologica dell'umanità, ossia la richiesta totale di risorse per l'intero anno. Il concetto di «impronta ecologica» nasce con il libro del 1996 Our Ecological Footprint, scritto da William Rees, ecologo presso l'Università della British Columbia, e da un suo studente, lo svizzero Mathis Wackernagel. È stato proprio quest'ultimo a fondare il Global footprint network. Per avere un'idea del modo di comunicare di Wackernagel basta leggere l'inizio di un'intervista del 2017 con un giornale spagnolo. Domanda: «Quanto tempo ci vorrà per distruggere il pianeta?». Risposta: «Sai chi è Justin Bieber?». L'intervistatore, interdetto, replica: «Certo». Ed ecco il colpo di genio: «Ebbene, ha 23 anni e durante la sua breve vita l'umanità ha bruciato il 41% di tutti i combustibili fossili che ha consumato nella sua storia». Tutto è basato su questi colpi a effetto. Impronta ecologica e sovrasfruttamento terrestre sono i due concetti su cui Wackernagel e il suo network battono in maniera monomaniacale. Si fa giusto un'eccezione per l'antirazzismo. L'account Twitter del Footprint network ha recentemente dato il suo appoggio al movimento di Black lives matter, mentre Wackernagel ha scritto che la sua Ong cerca «di riconoscere il dolore causato dagli approcci razzisti, sessisti e paternalistici». Laurel Hanscom, Ceo di Global footprint network, ha recentemente pubblicato una sorta di mea culpa per il fatto di non aver immediatamente dato solidarietà all'ondata antirazzista che ha attraversato gli Usa: «I movimenti per la sostenibilità e per la giustizia razziale sono inestricabilmente legati», ha chiarito. Nei vari siti di questa galassia decrescentista esiste anche un calcolatore personalizzato in cui ciascuno, rispondendo a delle semplici domande come «Quanto spesso mangi carne, pesce e altri derivati animali?», o «Hai energia elettrica in casa?», può calcolare il proprio personale overshoot day. Il sottoscritto l'ha testato, ottenendo questo raggelante risultato: «Il tuo personale Giorno del sovrasfruttamento della terra è: 19 aprile. Se tutti avessimo il tuo stile di vita, l'umanità avrebbe bisogno di 3,3 pianeti terra». Praticamente un serial killer ecologico. Non sfuggirà la familiarità della retorica: catastrofismo ansiogeno, fateprestismo, colpevolizzazione individuale. È l'ideologia dell'austerity applicata all'ecologia. Seppur coperte dal rumore di fondo dell'unanimismo globale, tuttavia, delle perplessità si fanno largo qua e là. Qualche giorno fa, per esempio, il filosofo ed ex ministro francese, Luc Ferry, scriveva su Le Figaro un articolo lapidariamente intitolato: «Il giorno del sovrasfruttamento delle risorse naturali non ha mai avuto luogo». Per l'intellettuale transalpino «questo concetto polemico ha poco senso» e per una ragione molto semplice: «Trattandosi della capacità della superficie terrestre o marittima di produrre le risorse che noi consumiamo ogni anno, tutto dipende ovviamente dallo stato delle scienze e delle tecniche utilizzate. Un ettaro di terra non produce la stessa quantità di beni se lo si coltiva con gli strumenti agricoli del Medio Evo o con le biotecnologie moderne». Per Ferry, dietro al concetto di «debito ecologico» si cela un «odio patologico e irrazionale per il progresso e il mondo moderno». Sylvie Brunel, docente alla Sorbona, ha criticato il concetto di impronta ecologica nel suo Développement durable. Il calcolo che ne è alla base, scrive, «misconosce tutte le acquisizioni del progresso tecnico, riposa su delle basi altamente discutibili, la cui caratteristica è di penalizzare sistematicamente tutte le attività legate alla modernità». Inoltre, «quando un dato non entra nel suo sistema di calcolo, l'impronta ecologica non ne tiene conto, molto semplicemente. Pensiamo all'energia nucleare: impossibile calcolare il numero di ettari bioriproduttivi necessari per «compensare» l'energia nucleare. Dunque non se ne tiene conto!». Non solo: i calcoli sul debito ecologico sono anche del tutto inadatti a dare indicazioni pratiche su come raddrizzare il corso del pianeta. Nell'articolo «Does the Shoe Fit? Real versus Imagined Ecological Footprints», uscito nel 2013 sulla rivista scientifica Plos Biology, un gruppo di studiosi dimostrava che, stando ai criteri del Global footprint network, coltivando meno della metà dell'area degli Stati Uniti a eucalipti, la nostra impronta ecologica andrebbe in pareggio. Una soluzione ecologicamente insensata, ma sufficiente ad azzerare l'indice dell'Ong. Ma ci serve davvero, un concetto del genere?
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