
L’Europa deve decidere con chi stare e prendere misure economiche conseguenti: serve un nuovo trattato atlantico.È il momento di chiarire in quale guerra siamo. Iniziò nel febbraio 2013 quando Barack Obama, dopo aver tentato una fallimentare convergenza sinoamericana G2 in ambito G20 dal 2009, annunciò la creazione di due aree economiche americocentriche, nel Pacifico (Tpp) e nell’Atlantico (Ttip), che escludevano Cina e Russia. Pechino reagì nel 2014 generando il progetto di Via della seta con lo scopo di creare un’area di influenza economica e politica sinocentrica più grande di quella americocentrica. La Russia cercò di sabotare il Ttip con minacce riservate alla Germania e iniziò a fare pressione bellica verso l’Ue stimolando la secessione di parte del Donbass. Mosca non voleva il mercato euroamericano integrato previsto nel Ttip né essere parte minore del progetto cinese né tantomeno un’Ucraina come avamposto democratizzante. Nel 2016 Angela Merkel, mandando avanti la Francia con una latente postura antiamericana, fece mettere in sospensione il Ttip facendo finta di volerlo per non compromettere le relazioni con Washington. Donald Trump, agli inizi del 2017, cancellò il Tpp nel Pacifico perché a suo avviso aggravava il deficit commerciale statunitense senza una reciprocità degli alleati, Giappone in particolare, capace di bilanciarlo. Ma nello stesso anno Trump spinse per dichiarare la Cina nemico dell’America, ottenendo il consenso bipartisan da parte del Congresso. L’analisi di molteplici azioni, per lo più spionaggio, a danno del sistema industriale statunitense, tra cui quello militare, diede un significato di minaccia incombente all’espansione del potere cinese. La nemicizzazione fu totale. Tuttavia, Trump la utilizzò per cercare di bilanciare le relazioni commerciali con Pechino prima di scatenare una guerra economica vera. E cercò di trovare una convivenza con la Russia, anche puntando ad un accerchiamento della Cina. Per tale motivo ha ritenuto marginali Ue e Nato. Poi nel 2019-20 Mike Pompeo lo ha portato su posizioni più realistiche perché la crescente sfida della Cina combinata con la pressione russa di staccare l’Ue dall’America, considerando anche l’inalberata euro-franco-sovranista di Parigi, implicava la riconvergenza economica e strategica con l’Ue. Anche Pechino, simmetricamente, dal 2017 cambiò strategia: resasi conto che la sua speranza di un mondo multipolare dove la Cina sarebbe stata il polo più grande stava svanendo e che la tendenza era quella verso un nuovo bipolarismo, prese una postura di costruzione di un blocco sinocentrico, riorientando la Via della seta per tale scopo, corteggiando la Russia e mostrando i muscoli a Hong Kong e contro Taiwan. Ciò diede a Vladimir Putin il motivo per convergere di più con Pechino, anche rafforzato dal fatto che Joe Biden, in carica dal gennaio 2021, manteneva la postura anticinese dei predecessori, inasprendola, e riesumava quella antirussa, caricata di una pur nominale pressione democratizzante globale. Non è chiaro se fu Mosca ad offrire a Pechino, o viceversa, l’opportunità di aprire un secondo fronte bellico in Europa per alleggerire la pressione statunitense nel Pacifico e dissuadere l’Ue dall’ostracismo crescente contro la Cina, ma è certo che i due abbiano concordato la strategia, pur incerto l’accordo sulla sua intensità bellica. In sintesi, la guerra è da un decennio tra America e Cina, montante, quella in Ucraina un episodio di questa.Conseguenze per l’analisi strategica: Mosca non può soccombere vistosamente perché perderebbe rilevanza agli occhi di Pechino, come successe a Mussolini in Africa e Albania con Hitler, così come Kiev non può concedere perché sarebbe un segnale di debolezza per l’America e Biden. Per inciso, motivo del vaffa ucraino a Berlino e Parigi che vorrebbero un compromesso con la Russia per mantenere almeno qualche relazione con la Cina. Per altro, Mosca comunica con Washington quasi quotidianamente, così come Pechino, in un modello di relazioni riservate di «forte con forte» dove gli europei sono esclusi pur parzialmente aggiornati dall’America. Le richieste di Putin di lasciargli una minima vittoria trovano la difficoltà degli americani a convincere Volodymyr Zelensky perché sarebbe defenestrato dai suoi se accettasse compromessi con la Russia, pur trattandoli anch’egli su un tavolo riservato con Mosca. In tal senso la guerra in Ucraina potrebbe essere ancora lunga e finire non con una pace, ma con un cessate il fuoco che lascerebbe aperte le tensioni, proprio perché la Russia è ormai un proxy della Cina e l’Ucraina, per altro comprensibilmente, dell’America. Perché per la Cina è utile mantenere le tensioni? Teme un’estensione delle sanzioni ai suoi commerci ed è indecisa tra confronto crescente o tregua con l’America, al momento testando ambedue. L’Ue? Finora spiazzata, ora dovrebbe spingere per un trattato economico euroamericano estendibile a un G7 allargato per sostituire la perdita del mercato russo e, in prospettiva di quello cinese, per le aziende europee. Pur non potendolo fare subito, Washington dovrebbe capire che se vuole l’Ue in piena convergenza deve darle questo sbocco. Sull’altro lato, le nazioni europee dovrebbero capire che in guerra, in particolare questa del tipo Roma-Cartagine, bisogna scegliere nettamente da che parte stare: piaccia o non piaccia, il realismo (geo)economico (prospettico) rende più vantaggioso stare nettamente con l’America, anche perché alla fine la maggiore scala dell’Ue peserà a suo favore. India, Sudamerica, Africa? Si valuti la sostituzione del filocinese Imran Khan con il filoamericano Shebbaz Sharif in Pakistan dopo una posizione neutralista dell’India per intuire la dinamica globale in corso. www.carlopelanda.com
Agostino Ghiglia e Sigfrido Ranucci (Imagoeconomica)
Il premier risponde a Schlein e Conte che chiedono l’azzeramento dell’Autorità per la privacy dopo le ingerenze in un servizio di «Report»: «Membri eletti durante il governo giallorosso». Donzelli: «Favorevoli a sciogliere i collegi nominati dalla sinistra».
Il no della Rai alla richiesta del Garante della privacy di fermare il servizio di Report sull’istruttoria portata avanti dall’Autorità nei confronti di Meta, relativa agli smart glass, nel quale la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio del Garante Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni di euro, ha scatenato una tempesta politica con le opposizioni che chiedono l’azzeramento dell’intero collegio.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala (Imagoeconomica)
La direttiva Ue consente di sforare 18 volte i limiti: le misure di Sala non servono.
Quarantaquattro giorni di aria tossica dall’inizio dell’anno. È il nuovo bilancio dell’emergenza smog nel capoluogo lombardo: un numero che mostra come la città sia quasi arrivata, già a novembre, ai livelli di tutto il 2024, quando i giorni di superamento del limite di legge per le polveri sottili erano stati 68 in totale. Se il trend dovesse proseguire, Milano chiuderebbe l’anno con un bilancio peggiore rispetto al precedente. La media delle concentrazioni di Pm10 - le particelle più pericolose per la salute - è passata da 29 a 30 microgrammi per metro cubo d’aria, confermando un’inversione di tendenza dopo anni di lento calo.
Bill Gates (Ansa)
Solo pochi fanatici si ostinano a sostenere le strategie che ci hanno impoverito senza risultati sull’ambiente. Però le politiche green restano. E gli 838 milioni versati dall’Italia nel 2023 sono diventati 3,5 miliardi nel 2024.
A segnare il cambiamento di rotta, qualche giorno fa, è stato Bill Gates, niente meno. In vista della Cop30, il grande meeting internazionale sul clima, ha presentato un memorandum che suggerisce - se non un ridimensionamento di tutto il discorso green - almeno un cambio di strategia. «Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà», ha detto Gates. «L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una svolta strategica nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie». L’uscita ha prodotto una serie di reazioni irritate soprattutto fra i sostenitori dell’Apocalisse verde, però ha anche in qualche modo liberato tutti coloro che mal sopportavano i fanatismi sul riscaldamento globale ma non avevano il fegato di ammetterlo. Uscito allo scoperto Gates, ora tutti possono finalmente ammettere che il modo in cui si è discusso e soprattutto si è agito riguardo alla «crisi climatica» è sbagliato e dannoso.
Elly Schlein (Ansa)
Avete presente Massimo D’Alema quando confessò di voler vedere Silvio Berlusconi chiedere l’elemosina in via del Corso? Non era solo desiderare che fosse ridotto sul lastrico un avversario politico, ma c’era anche l’avversione nei confronti di chi aveva fatto i soldi.
Beh, in un trentennio sono cambia ti i protagonisti, ma la sinistra non è cambiata e continua a odiare la ricchezza che non sia la propria. Così adesso, sepolto il Cavaliere, se la prende con il ceto medio, i nuovi ricchi, a cui sogna di togliere gli sgravi decisi dal governo Meloni. Da anni si parla dell’appiattimento reddituale di quella che un tempo era la classe intermedia, ma è bastato che l’esecutivo parlasse di concedere aiuti a chi guadagna 50.000 euro lordi l’anno perché dal Pd alla Cgil alzassero le barricate. E dire che poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi delle denunce dei redditi aveva portato a conclusioni a dir poco sor prendenti. Dei 42,6 milioni di dichiaranti, 31 milioni si fanno carico del 23,13 dell’Irpef, mentre gli altri 11,6 milioni pagano il resto, ovvero il 76,87 per cento.
In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa.
Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
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