2025-04-22
Verso un conclave all’insegna del compromesso. Decisivi i voti dei moderati
Gli esponenti della corrente conservatrice sembrano tagliati fuori, ma il gruppo del cardinale Tagle avrà un peso determinante. I riformisti puntano su Zuppi.«Per non sbagliare segui la regola del tre». Sulla strada che porta al conclave il consiglio del vecchio cardinale potrebbe risultare misterioso. E invece è illuminante perché quel numero è magico anche per il cristianesimo: tre come la santissima Trinità, tre come la triplice lode biblica che sale a Dio («Santo, Santo, Santo»). E tre come le regole di papa Francesco affisse sul portale d’ingresso del Santuario della Vergine del silenzio ad Avezzano: «Non comandare, non lamentarti, non sparlare degli altri». Indicazioni storicamente impossibili da applicare dentro le Mura Leonine, che il pontefice venuto dalla fine del mondo ha portato con sé nell’ultimo viaggio.La regola del tre dominerà anche le operazioni di voto, a cominciare dall’interim retto dalle tre figure che garantiranno la transizione: il decano del collegio cardinalizio Giovanni Battista Re, il suo vice Leonardo Sandri e il camerlengo Kevin Farrell. Saranno loro a organizzare il conclave nella Cappella Sistina, ma i due italiani non potranno parteciparvi perché hanno superato gli 80 anni d’età. Le elezioni avverranno in tre fasi: antescrutinium, scrutinium vere proprieque, post-scrutinium. Nell’antescrutinium saranno sorteggiati tre scrutatori, tre revisori e tre infirmarii (che raccolgono i voti dei cardinali infermi). I cerimonieri consegneranno a ogni elettore tre schede bianche con la scritta «Eligo in summum Pontificem» sotto cui verrà indicato il nome del prescelto. La maggioranza sarà dei due terzi, almeno - manco a dirlo - per i primi 33 scrutini. Poi maggioranza semplice.Sotto la storia dell’umanità raffigurata da Michelangelo si prevede una lunga e felpata battaglia; una partita a scacchi con le regole del poker. Anche qui il tre domina. Tre correnti: i progressisti forgiati da 12 anni di pontificato bergogliano, i moderati da sempre maggioranza silenziosa, i numerosi conservatori «travestiti da moderati per non rischiare vendette nella stagione dei gesuiti al governo», come sostiene il cardinal Gerhard Müller. Tre blocchi: statunitense, africano, latino-europeo. Infine tre candidati italiani. Guardando i numeri la sfida dovrebbe essere chiusa in partenza: dei 140 elettori in porpora, 112 li ha nominati papa Francesco scegliendoli tra i più fedeli, 23 Benedetto XVI, 5 Giovanni Paolo II. «Ma contare le cifre non equivale mai a stabilire quanto le cifre contano», fa sapere il cardinale che ama i calembours e preferisce non esporsi. Il nucleo centrale del potere progressista è rappresentato da coloro che in questi anni hanno inneggiato alla svolta green e alla fratellanza multireligiosa, hanno modellato una Chiesa più in sintonia con il radicalismo sociale, pronta a dialogare anche con chi (nel voler imporre eutanasia, utero in affitto, istanze transgender) ha mostrato apertamente di sfidarne i dogmi immortali. Capisaldi del progressismo sono il teologo portoghese José Tolentino de Mendonça, lo statunitense agostiniano Robert Francis Prevost, l’arcivescovo di Marsiglia Jean Marc Aveline, teorico del dialogo con il mondo musulmano, e l’argentino Victor Manuel Fernandez detto Tucho, fedelissimo di papa Francesco, che ha creato i mal di pancia più intensi con la famosa lettera sulla benedizione alle coppie gay.Davanti a loro c’è il primo candidato italiano, capofila dei riformisti: Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, interprete del progressismo radicale, in questi anni protagonista della svolta a sinistra dell’episcopato. Tutti ricordano il suo impegno per trasformare la causa dei migranti in una bandiera politica con il finanziamento della Ong Mediterranea saving humans e la sfilata dell’ex leonka Luca Casarini in Conferenza episcopale. Un progetto portato avanti con la collaborazione di un’altra bandiera del progressismo: il cardinale lussemburghese Jean Claude Hollerich. Zuppi ha anche avuto un ruolo di prim’ordine nella diplomazia vaticana con le missioni a Kiev, Mosca e Washington durante la guerra in Ucraina. Un altro turboprogressista è l’arcivescovo di Barcellona Juan Josè Omella; dalla sua comunità è arrivata la richiesta dell’abolizione del celibato e dell’ordinazione delle donne.Il fronte moderato è rappresentato soprattutto dal filippino Luis Antonio Gokim Tagle, nominato cardinale da papa Benedetto XVI, che nell’ultimo Conclave avrebbe avuto un ruolo chiave nell’elezione di papa Francesco. Tagle è giovane (67 anni), molto attento alle istanze dei migranti e alla giustizia sociale, perfetto per assolvere a due compiti strategici: favorire l’apertura al mondo asiatico (difficile la replica di un altro pontefice sudamericano) e ricomporre la frattura con i tradizionalisti della curia. Pur partendo da sinistra viene considerato un moderato naturale il segretario di Stato, Pietro Parolin, secondo italiano in lizza per salire al soglio di Pietro. Sulla stessa lunghezza d’onda e outsider naturale di area sarebbe l’apprezzato cardinal Pierbattista Pizzaballa, bergamasco, patriarca di Gerusalemme, profondo conoscitore di una delle aree più strategiche del pianeta.I due leader dei conservatori non hanno chance ma sono in grado di spostare parecchi voti. Si tratta del teologo tedesco Gerhard Müller, prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della Fede, uno dei primi prelati elevati al rango di cardinale da Francesco (a smentita dell’iniziale graniticità delle nomine), oggi definito un «trumpista vaticano». Con lui il battagliero americano Raymond Burke, ostracizzato dal Papa con la frase: «È mio nemico, gli tolgo casa e stipendio». Il loro campione è lo spagnolo Angel Fernandez Artime, rettore dei Salesiani, profondo conoscitore del mondo giovanile cattolico, considerato «il più moderato dei conservatori». Nel pool è portato in palmo di mano, ma in seconda linea, anche Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli.Mai come questa volta il conclave sarà dominato dal gioco politico del compromesso, nel segno di una frase ricorrente nei sacri corridoi: «Il Papa dovrà andar bene a tutti. E se non va bene, che almeno non vada di traverso». Di conseguenza, più dei nomi, potrebbero essere decisivi i tre blocchi più grandi, capaci di aiutare la Chiesa ad attraversare il mare in tempesta senza dismettere le modernità estetiche e comunicative di Bergoglio, ma mantenendo la barra dritta sulla dottrina, che rischia di essere travolta da un modernismo disgregante. Il blocco europeo è in mezzo al guado: da una parte gli europeisti ultradem che si rifanno a Mendonça, Avelin, Zuppi, dall’altra i più sobri rappresentanti della Chiesa dell’Europa dell’Est, come il cardinale Péter Erdo, arcivescovo di Budapest, e Svjatoslav Sevcuck, arcivescovo di Kiev che in questi anni non ha risparmiato rimproveri per le uscite papali più ardite. Durante le numerose strambate mediatiche di papa Francesco, il ruolo di custode della tradizione è stato sostenuto dalla Chiesa americana, molto critica nei confronti delle derive gesuitiche, e da quella africana. Quest’ultima popolosa, affluente, giovane ma poco incline a concessioni arcobaleno. Lo si è chiaramente capito quando, compatta, ha detto no alla fuga in avanti di «Tucho» sulle benedizioni gay. Anche questa volta si parla di Papa nero e il favorito dovrebbe essere il cardinale guineano Robert Sarah, discepolo di papa Joseph Ratzinger. In grande ascesa pure il cardinale congolese Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, in prima linea contro le persecuzioni dei cristiani. Nessuno di loro è progressista, ma uno di loro potrebbe essere protagonista di una rivoluzione.
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
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