2025-05-10
Patto Americhe-Curia e regia yankee. Così è nata l’elezione lampo di Leone
I cardinali Timothy Dolan e Blase Cupich (Ansa)
Prevost è entrato forte in Sistina, rimanendo coperto. A differenza del favorito Parolin, che non è decollato. Il Segretario si è scansato, ma decisivo è stato l’asse trasversale dei porporati Usa e il sostegno dei latinos.Il nuovo pontefice lascia provvisoriamente al loro posto tutti i vertici delle istituzioni vaticane. E indica uno stile. In primo piano ci sono «riflessione, preghiera e dialogo».Lo speciale contiene due articoli.«Chi entra da Papa esce cardinale». L’antico adagio, che non sempre ha funzionato, nel conclave che ha eletto papa Leone XIV, cardinale Robert Francis Prevost, ha, invece, fatto il suo dovere. Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, infatti, era entrato nella Cappella Sistina con i favori del pronostico, con anche l’endorsement di sen sfuggito al cardinale decano Giovanni Battista Re, che gli aveva fatto gli auguri «doppi» consegnati al segno della pace della Missa pro eligendo pontifice. Ma appunto è uscito cardinale.All’opposto il porporato Robert Francis Prevost, prefetto al Dicastero dei vescovi dal 2023, era entrato in conclave come candidato di seconda fila, non troppo considerato nel borsino dei papabili, sovrastato da altri candidati come il cardinale marsigliese Jean Marc Aveline, il patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, gli asiatici filippini Antonio Tagle, un po’ decaduto, e Pablo Virgilio David, entrato, invece, in forte ascesa dalle congregazioni generali. L’elezione a sorpresa alla quarta votazione propone una riflessione. Evidentemente il cardinale di seconda fila Robert Prevost non era proprio così indietro, ma deve aver già avuto un blocco di voti considerevole alla prima votazione. E d’altra parte il favorito Parolin deve avere avuto un blocco di voti che non cresceva nella seconda e nella terza votazione. Così il pranzo di giovedì 8 maggio a Casa Santa Marta deve aver portato consiglio, perché subito, con la prima votazione del pomeriggio, la quarta in totale, c’è stata la fumata bianca.Secondo le ricostruzioni che avevano preceduto l’ingresso nella Sistina ci sarebbe stato un blocco di 40-50 voti, diplomatici e parte dei curiali, qualche italiano, che era attribuito al cardinale Parolin, poi un blocco minoritario attribuibile ai cosiddetti conservatori, che sarebbero dovuti confluire sul cardinale ungherese Peter Erdo, infine, le candidature della parte più liberal del collegio, vale a dire il francese Aveline, il filippino David e altri candidati, come anche il cardinale Pizzaballa, che raccoglievano consensi trasversali e minori. In realtà alcune voci affermano che il cardinale Prevost, che avrebbe colpito molto con il suo discorso alle congregazioni, è entrato forte di un considerevole pacchetto di voti, che gli sarebbero provenuti dai cardinali sudamericani e dalle porpore americane. Non solo i cardinali liberal Blase Cupich e Joseph William Tobin, ma anche dal cardinale di New York, Timothy Dolan, dal cardinale Daniel DiNardo e anche, da notare, dal cardinale Raymond Burke. I cardinali americani e sudamericani insieme fanno un blocco potenziale di 37 voti. Cioè circa quelli con cui si sarebbe presentato lo stesso Parolin. Con un dettaglio: non è affatto escluso che il gruppo di cardinali conservatori, che in tutto poteva valere intorno ai 20-25 voti, abbia virato quasi subito sullo stesso Prevost, lasciando decadere la candidatura Erdo. In questo modo nessun candidato dell’ala più liberal, che sosteneva potenzialmente i cardinali Aveline e David, avrebbe mai potuto pensare di raccogliere voti sufficienti.Anche per Parolin la situazione era in stallo e lo stesso cardinale avrebbe quindi fatto confluire i suoi voti verso il cardinale Prevost. Alla quarta votazione i giochi erano già fatti, superando il quorum di 89 voti. La novità forte quindi sarebbe stata l’alleanza degli americani verso il loro connazionale, che aveva il favore dei sudamericani per la sua lunghissima esperienza in Perù. La regia a stelle e strisce supera così ogni tentativo di incasellare la Chiesa dentro le categorie politiche se, come si vocifera, la regia di questa candidatura sarebbe avvenuta con la collaborazione di due cardinali come Dolan e Cupich, considerati all’opposto rispetto all’attuale amministrazione Trump. Ma avere un candidato americano, peraltro con un profilo culturale e religioso altissimo come quello di Prevost, uomo di grande equilibrio, un «centrista» compassionevole e di fede provata, ha dato la spinta decisiva. Peraltro il cardinale Dolan ieri pomeriggio ha fatto un post su X estremamente significativo circa la sua benedizione al conclave che ha eletto Leone XIV: «Sono onorato, come discepolo di Gesù Cristo, come sacerdote, vescovo e cardinale, di averne fatto parte in modo significativo. È un grande momento di euforia, speranza e promessa per la Chiesa!». Inoltre, anche alla Santa Sede avere come amica una chiesa generosa come quella americana male non fa, visti i conti in rosso. I post su X di Prevost contro l’interpretazione dell’ordo amoris agostiniano del vicepresidente JD Vance nel contesto delle politiche migratorie dell’amministrazione Trump sono quasi scontati e non devono essere assolutizzati, peraltro il cardinale Prevost risulta ancora oggi iscritto ai fini del voto nelle liste elettorali del partito repubblicano. E nel 2016 non risparmiava nemmeno di ritwittare un articolo della Catholic news agency che attribuiva la sconfitta di Hillary Clinton alla «posizione estremista del partito (dem, ndr) sull’aborto». Insomma, incasellare troppo facilmente papa Leone XIV è un’operazione rischiosa, anche perché lo stile e la forma di Prevost diventano sostanza e confermano quello che più volte abbiamo rilevato, ossia che il collegio cardinalizio fosse alla ricerca di un profilo «moderato», capace di garantire unità nella Chiesa e un governo equilibrato. Se i cardinali statunitensi abbiano, come sembra, fatto da regia per questa candidatura non dovrebbe dispiacere nemmeno all’amministrazione Trump, che sulla pace sa che potrà contare ancora su un alleato importante. Inoltre avere un Papa americano, sebbene non certo prono, significa per il presidente avere un’espansione dell’influenza Usa in ambiti prima abbastanza impervi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conclave-cardinali-prevost-2671925496.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="prima-mossa-incarichi-confermati" data-post-id="2671925496" data-published-at="1746821899" data-use-pagination="False"> Prima mossa: incarichi confermati Benché la talare bianca di Leone XIV venga già tirata a destra e a manca, e va detto, soprattutto a manca, la sua linea di «equilibrio» e pacatezza agostiniana sembra confermarsi ogni giorno di più. Infatti un comunicato ufficiale pubblicato ieri dal Vaticano afferma che «Sua Santità Leone XIV» ha espresso la volontà «che i capi e i membri delle istituzioni della Curia romana», come pure i «segretari» e lo stesso «presidente della pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano», restino «al loro posto». Ovvero «proseguano», provvisoriamente, «nei rispettivi incarichi donec aliter provideatur». Fino a quando cioè, non sarà disposto diversamente. La locuzione latina è certo rituale e consolidata, ma mostra che la pacatezza del pontefice novello e del suo ricercato «equilibrio» non è una mera interpretazione dei giornalisti più attenti, ma forse la «cifra» stessa del pontificato. Del resto, continua nella stessa logica il comunicato vaticano, il «Santo Padre» desidera «riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo», prima di «qualunque nomina o conferma definitiva». A questo punto si potrebbe, volendo, contrapporre questa modalità di «giurisdizione orante» di Leone, a un certo decisionismo rude di Francesco, il quale più di una volta ha fatto parlare i critici - in questo caso presenti sia tra i conservatori che tra i progressisti - di «arbitrio» e perfino di «mancato rispetto del diritto canonico». In ogni caso, gli osservatori più scrupolosi e meno ideologicamente orientatati hanno già notato questa cifra in una serie di elementi sparsi che ormai iniziano a essere vari e convergenti. Ne citiamo alcuni, tutti occorsi nelle prime 24 ore di un papato che sembra fare della «moderazione» - che non è moderatismo - la sua «forza» e la sua «profezia». Se il pontefice non si è chiamato con il nome del predecessore, scelta da moltissimi data per scontata e auspicata con tutte le forze, è anche vero che Francesco è stato l’unico predecessore che Leone ha citato durante il primo discorso da Papa. Come a dire: discontinuità sì, ma tenue e indolore. Nella stessa occasione se Leone ha citato, en passant, la bergogliana «sinodalità», è anche vero che ha tenuto un discorso che sarebbe potuto uscire sia dalla bocca di Benedetto XVI che da quella di Giovanni Paolo II. E questo per il riferimento «devoto» e piuttosto avversato dalla «teologia adulta» alla Madonna di Pompei, ma anche per la recita dell’Ave Maria. Che non è l’evangelico Padre nostro, comune ai cristiani non cattolici, ma la preghiera identitaria del cattolico romano. Idem per la cristallina fede «cristocentrica» su cui Leone intende fondare la «pace nel mondo». Stesso bilanciamento nella prima omelia di Leone XIV tenuta ieri mattina alla presenza dei cardinali. Il tono era colloquiale, benevolo, fraterno e diciamo pure «alla papa Francesco». Ma il contenuto è parso simile ai discorsi di Joseph Ratzinger sulla «dittatura del relativismo» e l’«autosecolarizzazione della Chiesa». Alla luce di queste parole, l’aver rinviato la nomina dei capi dicastero, in primis di quelli che presiedono la Segreteria di Stato, nelle mani del cardinal Pietro Parolin e dirigono la Dottrina della fede, tenuta dal discusso cardinal Víctor Manuel Fernández, sembra confermare la linea che stiamo tratteggiando. Ovvero quella di un equilibrio che si fa realismo e tiene conto della situazione concreta della Chiesa e del mondo e dei rapporti di forze. Ma non per questo tende alla sottomissione della Chiesa al mondo, come sarebbe stato nei sogni di molti «profeti» del progressismo, i cui nomi sono noti e celebrati dai media. Costoro, immaginando un Francesco 3.0 (a esclusione cioè dell’asse morale che invece è stato tutelato da Bergoglio) avevano in mente un Papa che togliesse, e da subito, ogni frizione tra il Vangelo e il pensiero dominante.
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