2019-02-26
Con Marella finisce la dinastia Fiat che saldò il mondo snob alla sinistra
Nella sua figura si sintetizzò l'incontro tra l'impero dei motori e la family editoriale dei Caracciolo, proprietari di Repubblica ed Espresso. Un potere intoccabile tra aiuti di Stato, inchieste sepolte e «rottamazioni».Fiat fuit. Con la morte dell'ultima imperatrice, Marella Caracciolo-Agnelli, finisce la dinastia Fiat, tragicamente decimata dal destino. Nella sua figura regale si sintetizzava l'incontro della dinastia imperiale delle auto e del capitalismo nostrano con la dinastia principesca-editoriale dei Caracciolo, già proprietari della Repubblica-L'Espresso. Per il mondo radical che l'ha salutata, la signora era la sintesi perfetta dell'impero Fiat e del mondo progressista-liberal. Così l'hanno ricordata Gianni Riotta, Nicola Caracciolo, Ezio Mauro e altri. Marella Agnelli simboleggiava, con classe e sensibilità, va detto, l'incontro tra la saga padronale e il mondo della sinistra venuto dal comunismo, dalle lotte operaie contro i «padroni». Fiat e Martello, auto, aiuti di Stato e stampa progressista. Poi, magari la signora aveva altre sensibilità, amava l'Oriente, Carl Gustav Jung e James Hillman, pativa con ammirevole self control alcune intemperanze di suo marito, il Re Gianni. Ma viene celebrata nel suo ruolo di cerniera tra il mondo dei ricchi e la sinistra, tra il piccolo mondo snob e la sinistra a mezzo stampa.Con Sergio Marchionne era già finito l'ultimo residuo di mezza italianità della Fiat. Manca l'Italia nella nuova Fiat. Resta il marchio della Ferrari, del Cavallino rosso, ma non più l'azienda-regime. La Fiat manca come sede, manca come leadership, manca come orizzonte di riferimento, manca l'Italia nel nuovo nome, Fca, anche per evitare sigle oscene, almeno da noi. Come è noto, l'ex Fiat è ora un'azienda italo-statunitense con domicilio fiscale legale in Olanda e sede centrale a Londra, guidata da un inglese e presieduta da John Elkann che avremmo difficoltà a definire italiano, per nome, origine e visione. Resta come sottomarca la Fiat, piccolo gadget per il vintage e per gli acquirenti nostalgici; quel marchietto antico che sa tanto di miracolo economico, anni Cinquanta, famiglie italiane, film in bianco e nero.Una dopo l'altra le aziende italiane se ne vanno all'estero. Il paradigma resta la Fiat che lasciò l'Italia cinque anni fa. Ricordo cosa dissero i nostri media quando la Fiat s'imparentò a Crysler. Gran Torino, caput mundi; che trionfo, la Fiat si è pappata la Crysler, Barack Obama assunto come maggiordomo di colore da Marchionne, gli Stati Uniti aspettano trepidanti che l'azienda torinese porti la modernità nel loro Paesone e risolva la crisi economica mondiale. È il giorno dell'orgoglio italiano, titolavano perturbati e commossi i grandi giornali italiani, tutti o quasi partecipati Fiat, in un modo o nell'altro. Gli Usa andranno in 500, profetizzavano euforici gli editoriali e le tv, l'Italia ricolonizza l'America, come ai tempi di Cristoforo Colombo e di Amerigo Vespucci. Momento storico, ripetevano solenni i tg, gli italiani della Fiat portano l'auto ecologica in America. Ma la Fiat non era in un mare di guai, non l'aiutava lo Stato, incluso il governo Berlusconi? Ma non si erano dimezzate le vendite delle auto? E che fine avevano fatto i giudizi sulla qualità delle auto Fiat? Poi, come è noto, andò diversamente. Oggi a malapena la Fiat è la nonnina di paese della Fca global.Ma guardiamo il diritto e il rovescio. A 120 anni dalla nascita nel 1899, il diritto dice che la Fiat è parte notevole della storia d'Italia del Novecento e la sua famiglia reale è stata l'altra dinastia torinese che ha dominato l'Italia dopo i Savoia. La Fiat è stata il simbolo, la metafora e il veicolo italiano dell'industrializzazione e della modernizzazione, dell'immigrazione da Sud a Nord e dell'immaginario collettivo e privato, fino a colonizzare lo sport, tramite l'egemonia della Juve, ancora perdurante, arrivando a disegnare l'assetto dei trasporti su gomma del nostro Paese. La Fiat non è mai stata solo una grande azienda privata, ma ha sempre agito all'ombra della pubblica protezione: anche ai tempi del fascismo godette del sostegno del regime e del duce in persona; poi in guerra le tresche bilaterali con nazisti e partigiani, ad esempio, per boicottare la socializzazione delle aziende promossa dalla Rsi che non piaceva né ai comunisti, né ai «padroni»- Poi, l'aiuto governativo ai tempi della cassa integrazione, dalle agevolazioni in ogni campo ai grandi ammortizzatori delle sue perdite. È proverbiale il detto che la Fiat socializzava le perdite e privatizzava i profitti. Quando imperavano gli Agnelli era impossibile sui giornali accennare solo a una critica alla Fiat e alla qualità delle sue auto, era un potere intoccabile e non solo per via del ricatto pubblicitario. Attacca tutti, pure la mafia, ma lascia stare la Fiat, fu il viatico di un esperto giornalista economico a chi si accingeva a fondare nei primi anni Novanta un settimanale controcorrente. E la benedizione Fiat al «patto dei produttori» con i comunisti e Confindustria. E poi Gheddafi nel suo azionariato, le inchieste sepolte, le storie rimosse, i tesori all'estero, le armi vendute e le rottamazioni per agevolare l'azienda. Per tutti valeva il principio che il capo non poteva non sapere, ma in Fiat l'Altissimo poteva non sapere. La Fiat ha molto succhiato dall'Italia, patriota quando serviva, esterofila per il resto, poi l'abbandonò per la pressione fiscale insostenibile e perché tutto quello che c'era da spremere era già stato spremuto. È la globalizzazione, bellezza, quella fede fondata sul fatalismo dell'espatrio. Amor fiat, amor fati.
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)
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