2018-08-21
«Con le mie Ferrari del mare ho stregato Karajan e Maradona»
Il principe della nautica italiana: «Provando uno dei primi motoscafi rischiai di schiantarmi contro il natante del grande direttore. Ma il rombo del motore del Cavallino gli parve una soave sinfonia: la velocità è musica».«La velocità è musica, il resto è conversazione». L'onda si era fermata e il sole stava calando sulla baia di Saint Tropez: mare perfetto per provare un bolide rivoluzionario, il motoscafo con il primo motore Ferrari della storia. Tullio Abbate aveva armeggiato per giorni e finalmente era riuscito a «marinizzare» (parolaccia ma si dice così) il gioiello, un 512 boxer. «Uscii in mare per verificare la stabilità, presi velocità e nella foga tagliai la strada a uno sloop pazzesco a vela, con i marinai che facevano segnali feroci e sulla tolda un signore anziano, alto, con i capelli candidi, una dolcevita bianca e il doppiopetto con i bottoni d'oro. Pareva un re, non mosse un muscolo». Rientrato in porto, Abbate, che negli anni Settanta era già un fuoriclasse della motonautica da corsa, chiese di chi fosse quel natante: Herbert von Karajan, il grande direttore d'orchestra. «Ero terrorizzato, temevo una denuncia. Poi mi dimenticai della vicenda fino al giorno in cui non venni convocato da Enzo Ferrari in persona. Eravamo a pranzo al Cavallino, sapeva che avrei voluto acquistare quei propulsori, avevo mandato avanti Gilles Villeneuve e Didier Pironi, due amici. Il Drake era incerto se concederli. Si levò di tasca una lettera e mi chiese se fossi stato a Saint Tropez l'estate precedente. Poi me la fece leggere: “Caro Enzo, ci sono rumori celestiali, quello dei tuoi motori rimane il più celestiale di tutti. Firmato, tuo Herbert". Ferrari sorrise e mi vendette i motori. La velocità è musica».A 74 anni, seduto a un tavolino dell'Hosteria della Magnolia di Mezzegra (lago di Como), Tullio Abbate ha deciso che è arrivato il momento dei ricordi, dei racconti, del tributo a un mondo perduto come quello della nautica italiana. Spazia lo sguardo sull'orizzonte di Lariowood e scuote il capo: «Qui eravamo abituati ai Vip 30 anni prima di George Clooney». Poi snocciola: Ayrton Senna, Alain Prost, Emerson Fittipaldi, Michael Schumacher, Diego Armando Maradona, Lothar Matthäus, Gianluca Vialli, Roberto Mancini, Björn Borg, Carolina di Monaco, il principe Alberto, Jacky Ickx, Gilles Villeneuve, Ronaldo, Giacomo Agostini, Sylvester Stallone, Madonna. Tutti innamorati dei suoi bolidi, tutti qui a provarli, tutti con l'orecchio teso per sentire la musica della velocità sull'onda. Di fianco al cantiere c'è una chiesetta dove don Luigi Barindelli da mezzo secolo dice messa in 25 minuti e spiega: «Non sarò certo io il più lento del paese».Signor Abbate, come comincia l'epopea del motoscafo da corsa?«Con mio padre Guido, il vero genio di famiglia. Costruiva barche in mogano, dal suo cantiere erano partiti i Riva. Aveva affinato manualità e tecnologia alle officine aeronautiche Caproni durante la guerra, tecnico specializzato. Negli anni Sessanta produceva 15 motoscafi all'anno, anzi 15 Stradivari dell'acqua. Prima aveva inventato i Trepunti con i quali aveva vinto ovunque. Su una sua barca, il Laura, Mario Verga battè il record mondiale di velocità: 226 km/h nel 1953. Il mio mondo era quello lì».Elettrizzante, futurismo puro. Il punto di svolta?«Per me furono due. Il primo quando conobbi i grandi della Formula 1 come Jim Clark, Jackie Stewart e Gianbattista Guidotti, il fenomeno che vinse la Mille miglia a fari spenti con Tazio Nuvolari. Il secondo quando, durante una Sei ore di Parigi, vidi una piccola barca americana dare la paga a quelle europee. Ma c'era un problema: era di vetroresina».E dove stava il problema?«Mio padre non ne voleva sapere, aborriva quelle bagnarole, le definiva cassette di garofani. Io invece ne ero affascinato, intuivo che sarebbero state il futuro. In casa stavamo bene, eravamo fra i pochi ad avere televisore e telefono. Il suo orizzonte era quello e a me stava stretto».Glielo allargò non senza conflitti.«Lavoravo da lui con i miei fratelli Bruno e Chicco. Ero un irrequieto, a 14 anni giravo con un Motom 48 che avevo truccato io: non aveva più niente di originale ma andava da dio. Nel 1964 vinsi la prima gara con una barca di compensato marino costruita da me e pitturata di rosso. Un'onta. Papà non avrebbe mai accettato la rivoluzione della vetroresina. Eppure in due giorni facevi il lavoro di 15; non si poteva ignorare il progresso. E neppure il business».Quando il mondo conobbe Tullio Abbate?«Accadde a Cannes, quando diventai campione d'Europa assoluto. E rischiai di finire in manette perché in quel periodo ero militare a Piacenza, secondo reggimento Genio pontieri. Prendo una licenza, vado a Ventimiglia e poi in Costa Azzurra passando la frontiera nascosto nel bagagliaio della Cadillac Eldorado spider del colonnello della marina americana che mi aveva sponsorizzato la barca. Il lunedì dopo sulla Gazzetta dello Sport c'era la notizia del trionfo; ho rischiato l'arresto per diserzione».Nasce il suo cantiere, nasce il marchio.«Non avrei mai potuto continuare a lavorare con papà, lui era contrario ai nuovi materiali. Nel 1969 ho costruito la barca che mi ha fatto fare il salto di qualità, il Sea star. Era giallo con motore Wankel e al salone di Genova ebbi un'intuizione: lo presentai in verticale, come un missile sulla rampa di lancio. Tutti affascinati, anche il marketing vuole la sua parte. In pochi anni diventò la barca sportiva europea per eccellenza: da 6 metri a 50, tutto era Sea star, ne produssi migliaia di esemplari. Poi arrivò l'icona dei piloti».Quella che tutti i Vip facevano la fila per comprare?«Era l'Offshore 36 con due motori Maserati 4500 e un'elica sola. Una belva. L'accoppiamento era riuscito a farlo Giulio Alfieri, fenomenale ingegnere e manager della casa automobilistica. Era il 1978. Lo vollero Pironi, Prost, altri. Ne ho costruiti 530».Arrivano gli anni Ottanta, quelli del secondo boom economico.«È stato l'apice del nostro lavoro. A Montecarlo conosco Stefano Casiraghi e con lui, Jacky Ickx e Matteo De Nora - che sarebbe diventato team manager di New Zealand in Coppa America - decidiamo di fondare una società chiamata Champions marine per l'assistenza alle mie barche in Costa Azzurra. Allora realizzo un catamarano di 24 metri, allestisco quattro camere da letto negli scarponi per la mia famiglia e i meccanici, in poppa creo l'officina e anche un ufficio: lo ormeggio nella marina di Montecarlo e in pochi giorni diventa un ritrovo del jet set».Tutti con le barche da riparare?«Ma va, prosciutto di Parma, parmigiano e bollicine: l'aperitivo italiano. Alle sei di sera erano tutti lì, da Carolina di Monaco ai Caltagirone, dai Contini ai Trabelsi».Stefano Casiraghi com'era?«Un ragazzo meraviglioso con la capacità di precorrere i tempi. Ogni volta che penso a lui scende un'ombra di malinconia. Quando corri, il destino è seduto di fianco a te».Accadde anche ad Ayrton Senna.«Un uomo semplice, raffinato, un po' freddo. Ma io ero abituato alla gigioneria di Gilles Villeneuve. Senna era intelligente ed esigente, voleva l'Offshore più performante del mondo e, poiché era un grande collaudatore, voleva che lo realizzassimo insieme. Così è nato il Senna 42, anche qui con un triste scherzo del destino: Ayrton doveva provarlo il giorno dopo quel maledetto Gran premio a Imola».C'è un'altra barca che vede passare nelle notti d'afa, guardando il lago?«Il Malambo 2, il padre di tutti gli yacht Ferretti e Azimut, 30 metri di natante con quattro motori da 1.400 cavalli l'uno. Me lo aveva commissionato Guillermo Tena, un imprenditore farmaceutico, per battere a Palma di Maiorca un rivale speciale: re Juan Carlos di Borbone. Ci riuscì».Gli anni d'oro sono finiti, oggi sulla nautica impera la calma piatta.«A ferire a morte il settore sono stati i leasing facili. La gente comprava le barche a maggio, pagava tre rate e poi si dileguava. Col risultato che distese di motoscafi sequestrati galleggiavano nei porti ad aspettare nuovi acquirenti. Una tristezza infinita. Ci siamo dovuti ridimensionare tutti. Noi siamo passati da quattro cantieri a due, da 130 dipendenti a 30. Un'epoca è finita, ma mi resta un motivo di grande orgoglio: il marchio ha un valore altissimo, le mie barche usate sono fra le più valutate d'Europa».In tutto questo, il rapporto con papà Guido?«Io capii il suo orgoglio, lui capì la mia irrequietezza. E quando per stizza non mi parlava, faceva un gesto che ancora mi commuove nel ricordarlo: stava sulla terrazza a guardare le mie barche sfilare nei test sull'acqua del golfo di Venere, poi prendeva un foglietto e lo passava a mia mamma Paola, che me lo portava come una staffetta con i pizzini. C'erano scritte le modifiche. Nessuno ha capito il nostro rapporto meglio di Davide Van De Sfroos; c'è tutto nella canzone Il costruttore di motoscafi».Signor Abbate, compio un sacrilegio: la barca più bella ancorata davanti al cantiere è di legno.«È il Villa d'Este Special, un tributo a papà Guido, ancora una volta. Nel 2007, nel bel mezzo della crisi, mi è venuta la nostalgia della classicità. Allora ho sentito il bisogno di imitare e se possibile migliorare un gioiello come l'Aquarama special dell'ingegner Carlo Riva. Sovrastruttura in mogano, ma carena super performante in carbonio e kevlar in puro stile Abbate. Perché la velocità è il marchio di fabbrica».Ha successo?«Sta con prestigio fra le ammiraglie. A Montecarlo, alla festa per i 50 anni dell'Aquarama, lo stesso ingegner Riva mi fece i complimenti. E l'anno scorso, quando il re dei pianoforti Paolo Fazioli è venuto sul lago di Como per una rassegna pianistica, ha avuto piacere che un concerto si tenesse nel mio cantiere. Con il Villa d'Este Special appaiato a un suo gioiello. È il segnale che alla fine si torna sempre a casa».Tullio Abbate ha ancora un sogno?«Voglio entrare nel futuro dalla porta principale, battere il record del mondo su barca elettrica. Il prototipo è pronto, siamo arrivati a 135 km/h con il supporto di un'azienda di Torino che ci fornisce una power unit in grado di durare i tre minuti per l'omologazione. Ci manca poco. Il grande problema è nelle batterie: peso e durata. Da sei mesi i motoristi rinviano la sfida. La cosa un po' mi irrita perché non ho voglia di aspettare a lungo».Ma un motoscafo elettrico non ha alcun rombo, sembra un kayak.«Anche la Formula 1 ibrida fu criticata per la mancanza del caratteristico ruggito. Lo hanno ricostruito al computer, lo metti e lo togli muovendo una leva». Però è un rumore finto.«Se ne accorgerebbero solo Enzo Ferrari e von Karajan».
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 12 settembre con Carlo Cambi
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?