Per diminuire le importazioni da Mosca, abbiamo quasi decuplicato quelle dalla Norvegia. Che però ha aumentato il prezzo di oltre cinque volte. E ancora più salato è il metano che ci arriva dall’Azerbaijan.«Oslo, dov’è l’amore?». Così ha titolato ieri il sito Politico.Eu, organo ufficioso delle istituzioni europee, solitamente ben informato. Il riferimento è al ruolo - assunto dalla Norvegia, in seguito alla caduta dei volumi importati dalla Russia - di principale fornitore di gas della Ue. Prima di far parlare i dati, anticipiamo al lettore la telegrafica risposta: l’amore è sepolto sotto una montagna di miliardi di euro. Ad agosto, gli euro correvano copiosi verso il mare del Nord, al ritmo di più di mezzo miliardo al giorno.E l’Italia ha fornito il suo pesante, per le nostre tasche, contributo. Osservando i dati pubblicati giovedì da Eurostat aggiornati a luglio, pur essendo diventata l’Algeria il primo fornitore di gas del nostro Paese, è la Norvegia il Paese che ha fornito il maggiore contributo in termini di volumi per sostituire i circa 8 miliardi di metri cubi che non abbiamo comprato dalla Russia. I circa 3 miliardi di metri cubi aggiuntivi arrivati da Oslo - che nei primi sette mesi del 2021 ci aveva venduto quantità e valori modesti - sono stati pagati a un prezzo aumentato di poco più di cinque volte, in quanto indicizzati al Ttf, così come i volumi provenienti da Mosca. In particolare, i volumi si sono moltiplicati per nove e la spesa è arrivata a 3,3 miliardi. Ed allora cosa ne è stato della frenetica attività del presidente Mario Draghi nei confronti di Azerbaijan e Algeria? Ricordiamo i ben due viaggi di una corposa delegazione governativa ad Algeri l’11 aprile e poi il 18 luglio, con annunci di miliardi di metri cubi in più «lungo una rampa di crescita», per stare alle parole del ministro Roberto Cingolani. Poco più che annunci. Le aride cifre di Eurostat ci dicono che dall’Algeria, confrontando i primi sette mesi del 2022 e 2021, è arrivato solo il 3% di volumi in più. A luglio 2022 abbiamo importato all’incirca gli stessi volumi di luglio 2021. A un prezzo che però non ha subito l’eccezionale incremento del gas importato da tutti gli altri tre fornitori perché, grazie all’indicizzazione a un paniere di idrocarburi con prezzi a ridotta volatilità, ha risentito relativamente meno delle fluttuazioni del prezzo fissato alla borsa olandese Ttf. Non a caso, ai primi di luglio da Algeri hanno annunciato di voler rinegoziare il prezzo nei confronti di tutti i clienti, Italia inclusa. È come se ci fosse di fatto un tetto al prezzo del gas algerino ed è ragionevole ipotizzare che dalle coste africane non avessero un grande incentivo ad aumentare i flussi verso l’Italia, considerati i prezzi bassi. Nonostante tutto il lavorio diplomatico, ha prevalso la vecchia legge «prima pagare moneta, poi vedere cammello».Diverso il discorso dell’Azerbaijan, a conferma che, quando si paga, il «cammello» arriva. Dopo il colloquio telefonico di Draghi con il presidente azero, Ilham Aliyev, del 8 marzo, i volumi importati su base mensile sono aumentati del 20% circa e sono rimasti sostanzialmente su quei livelli fino a luglio. Mese nel quale il prezzo unitario del gas azero ha addirittura superato quello del gas russo e norvegese. Ora capiamo perché noi siamo dovuti andare due volte ad Algeri e invece lo scorso primo settembre, il presidente Aliyev è stato ricevuto a Palazzo Chigi con tutti gli onori. Un cliente come quello italiano val bene un viaggio.Il ruolo di Oslo, così generosamente remunerato anche dall’Italia, è la chiave di volta per capire l’evoluzione della situazione. Sempre secondo Politico.Eu, la resa dei conti è fissata a Praga per il prossimo 6 ottobre, in un vertice dei capi di governo, allargato anche al premier norvegese Jonas Gahr Store. Nel discorso sullo stato dell’Unione, la presidente Ursula von der Leyen ha cominciato a mostrare i muscoli annunciando la costituzione di una task force con l’obiettivo di ridurre il costo del gas norvegese. Ma il premier Store viene descritto da Politico.Eu come un «bambino in un negozio di caramelle», per evidenziare l’evidente ritrosia a rinunciare alla montagna di denaro, al punto da calciare la palla in tribuna affermando che sono le società che vendono il gas, non il governo norvegese. Peccato che Equinor, il secondo più grande fornitore di gas in Europa, sia una società posseduta dal governo.Tutto questo attivismo delle istituzioni e dei media verso Oslo ha un motivo riconducibile alla solita regola non scritta: quando la Germania ha un problema, è un problema dell’Ue; quando gli altri hanno un problema, è un problema loro. Infatti, il bagno di sangue finanziario dell’Italia verso Oslo è solo una frazione di quanto accaduto nei confronti di Berlino. Nei primi sette mesi, rispetto al 2021, i volumi importati dai tedeschi sono cresciuti del 41%, la spesa si è quasi sestuplicata e il prezzo medio si è moltiplicato quasi per cinque. Noi abbiamo speso 3 miliardi in più, loro 20, anche ovviamente a causa dei maggiori volumi importati. Basta seguire la traccia del denaro e le spiegazioni di certi comportamenti diventano agevoli.Ora tutte le attese sono rivolte al prossimo Consiglio «energia» del 30 settembre, data entro la quale il ministro Cingolani anche ieri ha confermato di attendersi una «convergenza sul tetto al prezzo del gas». Per il momento, l’unico bene in eccesso di offerta sono le chiacchiere.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
Continua a leggereRiduci
Fabio Giulianelli (Getty Images)
L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».
2025-10-13
Dimmi La Verità | gen. Giuseppe Santomartino: «La pace di Gaza è ancora piena di incognite»
Ecco #DimmiLaVerità del 13 ottobre 2025. Ospite il generale Santomartino. L'argomento del giorno è: "La pace di Gaza e le sue innumerevoli incognite".
A Dimmi La Verità il generale Giuseppe Santomartino commenta la pace di Gaza e tutte le incognite che ancora nessuno ha sciolto.