
Dietro ogni giovane che si gioca la vita per una «sfida» social c'è un'emergenza esistenziale che non si può scaricare su una app, né tanto meno delegare agli psichiatri o allo Stato. Dobbiamo aiutare i nostri figli a separare il reale dal virtuale e a dargli un senso.25 gennaio, Bari. Un ragazzino di dieci anni viene trovato, dai genitori, steso per terra e cianotico. La causa è l'ennesima sfida social che qualche giorno fa aveva tolto la vita a un'altra ragazzina palermitana. Per entrambi si apre l'ipotesi di istigazione al suicidio.Ora, semmai ce ne fosse stato il bisogno, abbiamo nuovamente la drammatica conferma del potere esercitato dai social media sui millennials. Al netto delle evidenti tragedie, non ci si può esimere dall'esprimere un giudizio, da un seppur timido tentativo di interpretazione del fenomeno.Dal Blue whale a Tik Tok, passando per la tentazione di imputare al virus la responsabilità dell'acuirsi della tragedia. In realtà la pandemia non ha fatto che amplificare e sclerotizzare una addiction che da tempo scorre fra i più giovani, che era già virale e che oggi ha dato forma a una reale emergenza psicologica, ma soprattutto esistenziale.I dati sono eloquenti: dal 2010 il numero di adolescenti che si sono tolti la vita in Inghilterra e Galles è aumentato del 67%, nel 2018 ci sono stati 187 suicidi di ragazzini sotto i 19 anni (il 15% in più rispetto all'anno precedente) e a Londra il tasso dei suicidi adolescenziali è aumentato in tre anni del 107%, diventando la prima causa di morte per quella fascia d'età.Per gestire l'angoscia che queste situazioni ci procurano non possiamo come al solito ricorrere alla sempre riduttiva classificazione psichiatrica. Il disagio psicologico di cui stiamo parlando si nasconde nelle pieghe della normalità, sfugge come «un camaleonte in un mare di coriandoli» e non può essere gestito, o curato, semplicemente stigmatizzandolo né tantomeno monitorandolo con algoritmi algebrici. Eugenio Borgna, maestro straordinario di una psichiatria umana, descrive compiutamente questo malessere come «tristezza, malinconia, depressione» e ci aiuta a distinguere: «La malinconia è una condizione emozionale che non ha nulla di patologico e anzi è fonte di conoscenza di sé e di riflessione, ma fa stare male e può avere bisogno di cure. Nella sua natura fluida e camaleontica la malinconia sconfina in esperienze emozionali che le sono vicine, come la tristezza e il male di vivere, e in esperienze che le sono lontane come le depressioni». Sempre alla base di questo tipo di stati d'animo, si manifestano le emozioni. Di esse «non si può fare a meno nella conoscenza della nostra interiorità, delle emozioni normali come sono l'ansia e la malinconia, la tristezza, e delle emozioni malate come sono l'angoscia e la depressione». La domanda di cura che esplode in questo particolare periodo storico, chiede, soprattutto a noi specialisti, di «immedesimarci nella vita interiore dei pazienti».La questione non è da discutere nel ristretto ambito della psicopatologia, ma trascende e diventa una sindrome culturale e morale perché riguarda il modo con cui stiamo interpretando la vita e la nostra incertezza nel riuscire a conferirle senso. Se per fare un bambino ci vuole un villaggio è altrettanto vero, parafrasando Faber, che «dietro ad ogni scemo c'è un villaggio», dietro ad ogni dramma c'è una società che si è girata da un'altra parte e omertosamente non ha detto, non ha visto, non ha sentito.Non si vuole generare improduttivi sentimenti di colpa ma richiamare alla precisa assunzione di responsabilità di guardare, di ascoltare e soprattutto di «stare» con i nostri figli. Il fallimento a cui stiamo assistendo è tutto adulto e tutto giuridico: non possiamo proiettare sui nostri giovani la nostra titubanza educativa né tantomeno delegarla al controllo dello Stato. È preciso compito dell'adulto evocare nei propri ragazzi la capacità di distinguere il reale dal virtuale, l'importanza del corpo, il sentimento del pericolo e la resilienza nei confronti delle prove «reali» che nella vita ci vengono quotidianamente sottoposte.Si impone con prepotenza nelle nostre relazioni educative il tema della libertà che si coniuga sempre con quello della responsabilità. Nel delirio della rivendicazione, del diritto indiscriminato, si dimentica troppo spesso che la libertà non è l'espressione dell'istintualità amplificata dalla inevitabile deriva narcisistica dei social. La libertà non è libertà «da» ma è libertà «di» e che un giovane ne abbia coscienza, quasi dispiace dirlo, dipende da adulti che sappiano incarnare, testimoniare e mostrare come questo si declina.Giovanni Paolo II è spesso intervenuto in merito a questa diade dal sapore antico: libertà e responsabilità. In numerose occasioni ha tratteggiato una vera e propria dichiarazione dei diritti dell'uomo. Libertà non coincide con istintività, spontaneità, reattività; libertà è responsabilità, affermazione, impegno, con la vita e per la vita. L'adolescenza, straordinaria età di transizione, di cambiamento e di avventura, finisce quando un ragazzo incomincia a capire, non senza dolore, che la vita è sua e, in qualche modo, che può gestirne le sorti. Ma quale consapevolezza cresce e si respira nel conturbante e inafferrabile mondo digitale? Le challenges sono la fuorviante espressione che ci possa essere esibizione e manifestazione di sé senza corpo, senza conseguenza, laddove, au contraire, la vita vera è fatta di sfide, di prove, di riti senza reti e senza controfigure. In un mondo in cui il confine tra reale e virtuale si fa sempre più labile, si finisce per confondere i due piani finché non si cade nell'inganno di credere che non ci sia più differenza. Forma e contenuto, a dispetto di Croce, ormai non coincidono più. A tema oggi non c'è l'utilità dei social media, ma il disagio di una generazione male-educata di giovani che sembra non cercare un compito ma solo il proprio annullamento. Come dei novelli Narcisi i nostri figli annegano tentando disperatamente di baciarsi nella liquida fotocamera di uno smartphone.
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