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2021-07-26
Colabrodo Italia, ecco perché continuiamo a fare buchi nell’acqua
Un rubinetto che sgocciola riesce a sprecare circa 10.000 litri di acqua in un anno. Basta una guarnizione un po' vecchiotta per procurare questo danno. Figurarsi gli acquedotti che hanno oltre mezzo secolo di vita. Il 60%, più di 30 anni e il 25% oltre 50. L'Italia è ricchissima di acqua, con precipitazioni che superano annualmente i 300 miliardi di metri cubi, però per carenze infrastrutturali, riesce a trattenerne solo l'11%. La disponibilità effettiva di risorse idriche - cioè l'acqua effettivamente utilizzabile - è secondo alcune stime solo pari a 58 miliardi di metri cubi. Come mai ogni estate scoppia l'emergenza idrica? Le cause sono molteplici, tutte note e tutte con risposte chiare sulla carta, ma con scarsi risvolti concreti. Innanzitutto gli sprechi. La rete idrica è un colabrodo. Secondo il report dell'Istat riferito al 2018, il 42% dell'acqua immessa nelle nostre reti non ha raggiunto gli utenti a causa delle tubature che perdono. Quindi su 100 litri d'acqua potabile, circa 42 litri vanno sprecati. L'Istituto ha rilevato che nel 2019 l'8,6% delle famiglie ha lamentato irregolarità nel servizio. Il disservizio investe in misura diversa le regioni e interessa quasi 2 milioni 198 mila famiglie, il 61,9% delle quali vive nel Mezzogiorno. La Calabria ha la quota più elevata di famiglie (31,2%) che lamentano le inefficienze.
Il primato delle perdite spetta all'Abruzzo con il 55,6% seguito dall'Umbria (54,6%) e dal Lazio (53%). Con il cambiamento climatico, estati sempre più torride, la lotta alla dispersione idrica è diventata una priorità. Però la manutenzione delle infrastrutture è effettuata prevalentemente con finanziamenti pubblici che non solo sono insufficienti al fabbisogno (circa 40 euro per abitante l'anno, rispetto a una media europea di 100 euro) ma arrivano anche con il contagocce perché legati ai vincoli del bilancio statale.
Ci si mettono anche le lentezze amministrative e la scarsa volontà di prendere decisioni. Un esempio è fornito da Siracusa. Il gestore dell'acqua nella città siciliana è dal 2015 la Siam (Servizio integrato acque del Mediterraneo), società di cui è socia unica la spagnola Dam, che opera in regime di proroga. Siam è stata la sola impresa a presentare un'offerta per la gara d'appalto indetta dal Comune con durata triennale. In attesa della decisione dell'assemblea territoriale idrica sulla gestione pubblica dell'acqua, si è creata una situazione di incertezza che per l'azienda non è sicuramente un incentivo per a investire. Così diverse aree della città hanno lamentato disservizi.
Poi ci sono i contenziosi, come a Pachino, sempre in Sicilia, dove uno dei pozzi principali utilizzati per rifornire il comune è di proprietà privata. A causa di una denuncia di abbassamento della falda acquifera è stato sospeso il prelievo di acqua, con il risultato che gran parte della cittadina è rimasta a secco.
Molto diffuso il fenomeno degli allacci abusivi da parte di coloro che non pagano il servizio o dirottano l'acqua verso irrigazioni di orti e campi sottraendo le risorse all'uso domestico. Ma spesso, a causa di carenze del personale, mancano i controlli. Numerosi casi di illeciti in Calabria hanno fatto emergere che nel Comune di Reggio Calabria c'è un solo tecnico per intervenire su 800 chilometri di condotta, 30 serbatoi e 90 pozzi. Bisogna però andare nel Lazio per scovare il campione della dispersione idrica. Il programma Fuori dal coro di Mario Giordano ha definito Frosinone una «città groviera». Su 100 litri d'acqua ben 73 vanno persi, il 73,8%. In un comune su tre, dice l'Istat, si registrano perdite totali superiori al 45%.
Dal Sud ci spostiamo al Nord, dove troviamo altri esempi di mala gestione. A Imperia, la Procura della Repubblica ha aperto un'inchiesta per inadempimento di contratti di pubbliche forniture a seguito dei continui guasti all'acquedotto Roja. Nel settembre scorso lo scoppio di una conduttura aveva causato il blocco dell'erogazione di acqua per diversi giorni.
Lo spreco di acqua si accompagna al caro tariffe. L'Osservatorio prezzi di Cittadinanzattiva ha rilevato che il costo dell'acqua nel 2020 in Italia è salito del 2,6% rispetto al 2019. Ma a questo rincaro non è corrisposto un miglioramento del servizio. È vero che l'acqua potabile qui è meno cara che in altri Paesi europei, ma è altresì vero che si fa poco, con le risorse disponibili, per migliorare il servizio. Frosinone, oltre al primato degli sprechi, ha anche il record della bolletta più cara. La spesa media del 2020 per il servizio idrico per una famiglia di tre persone è stata di 845 euro, circa sei volte più che a Milano, la città con la bolletta più bassa d'Italia: 156 euro in media. Gli aumenti maggiori si sono registrati a Isernia (+27,5%), che nel 2019 era la città più economica, e a Vibo Valentia (+21,5%).
L'emergenza colpisce anche il Nord, nonostante sia più piovoso. L'Anbi, l'Associazione dei consorzi di bacino (enti pubblici che gestiscono i bacini di fiumi e laghi), ha proposto un piano per l'efficientamento della rete idrica nel Nord che prevede la creazione di 13 bacini, per un investimento di 477 milioni di euro. Secondo l'Anbi, il 20% del territorio italiano è a rischio desertificazione a causa del cambiamento climatico ed è necessario costruire nuovi invasi per raccogliere l'acqua piovana. La Corte dei conti europea ha stimato che dal 2008 al 2017 in Europa le aree meridionali, centrali e orientali a rischio elevato o molto elevato sono aumentate di 177.000 chilometri quadrati, pari al 10,6%, arrivando ad un totale di 645.000 chilometri quadrati.
Sono passati ormai dieci anni dal referendum popolare sull'acqua pubblica del 2011 con cui ben il 57% degli italiani bocciarono la privatizzazione. Da allora la situazione degli acquedotti è peggiorata progressivamente, ma solo due italiani su dieci, secondo un sondaggio Ipsos, sono preoccupati per le risorse idriche attuali nel nostro Paese: il 70% ritiene sia un problema solo di alcune aree e periodi dell'anno. Inoltre appena il 20% considera veritiere le previsioni del World resources institute sul rischio per l'Italia di stress idrico entro il 2040.
Probabilmente la convinzione generale è che questa risorsa sia illimitata. Tant'è che qui se ne fa un uso superiore al resto d'Europa. Il nostro Paese è in prima posizione per il consumo d'acqua per persona (tra i 150 e i 350 litri per abitante al giorno, contro una media europea di 125) e su scala mondiale è al terzo posto. Sopra di noi in questa classifica solo Stati Uniti e Canada. Ora però siamo all'ultima chiamata per combattere gli sprechi.
«Un rincaro delle tariffe sarà inevitabile»

Giordano Colarullo (Twitter)
«Gli acquedotti sono vetusti e per anni siamo andati avanti con finanziamenti pubblici a singhiozzo perché legati alle disponibilità del bilancio statale. Da quando i gestori industriali hanno preso in mano il servizio c'è stato un aumento degli investimenti. Ma molto resta da fare e i fondi del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, non bastano. Sarà inevitabile un adeguamento delle tariffe, che comunque sono le più basse d'Europa». Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, federazione che riunisce le aziende dei servizi pubblici dell'acqua, dell'ambiente, dell'energia elettrica e del gas, va dritto al punto. «La politica e le amministrazioni locali, spesso per una serie di motivazioni che vanno dalla ricerca del consenso elettorale alla incapacità di contrastare alcune forme di potere economico locale, ma anche per la scarsa conoscenza del problema, hanno trascurato per decenni la manutenzione della rete idrica».
Dove si rivelano di più questi fenomeni di scarsa attenzione delle amministrazioni pubbliche?
«Soprattutto al Sud, nei piccoli centri. Qui si annidano anche forme di abusivismo che talvolta vengono tollerate per ragioni politiche di consenso».
L'acqua strumento di acquisizione di voti?
«Non necessariamente, anche se rimangono dei casi piuttosto difficili. Faccio un esempio, senza citare le località. Se un'area di un comune è strategica politicamente o di difficile controllo, l'amministrazione può anche decidere di non fatturare il consumo di acqua in quella zona: nel calcolo delle perdite di acqua, a quel punto, figura anche quella prelevata abusivamente, oltre a quella che esce dalle tubature vecchie. Le morosità, invece, non vengono contabilizzate tra le perdite. Per arginarle servirebbe un controllo puntuale, ma chi lo fa? Se invece il servizio è effettuato da un gestore industriale, il monitoraggio è più semplice. La società, essendo esterna alla realtà locale, è lontana da certe logiche del territorio e guarda solo al servizio».
Sta dicendo che la soluzione all'efficienza della rete è nella privatizzazione?
«Non serve la privatizzazione. Basta applicare la legge che risale al 1994 sul passaggio del servizio dell'acqua dalla gestione pubblica diretta dei Comuni alla gestione industriale, nella quale è protagonista un soggetto societario».
Cosa si intende per gestione industriale?
«È la gestione effettuata da una società che può essere creata dal Comune, o attraverso un mix pubblico e privato o interamente privata. Anche se la legge ha circa trent'anni, il processo di applicazione è stato lentissimo e la gestione industriale è tutt'ora poco diffusa, soprattutto al Sud. Nel Mezzogiorno si concentra il 73% delle procedure di infrazione della direttiva europea sul trattamento delle acque reflue urbane. Soldi che potrebbero essere spesi diversamente, per migliorare la rete idrica e fognaria».
Quanti soldi servirebbero per recuperare il gap infrastrutturale?
«Sarebbero necessari almeno 5 miliardi di euro l'anno. Fra nuove risorse del Pnrr, il Piano di ripresa e quelle già previste, si parla di 2 miliardi per mettere in sicurezza l'erogazione del servizio idrico, di 900 milioni per il recupero delle perdite e 600 milioni per la depurazione. Quindi circa 3,5 miliardi che di sicuro non sono risolutivi ma aiutano».
Servono più soldi, quindi inevitabilmente le bollette dovranno aumentare?
«Le tariffe dovranno riflettere i nuovi costi. Bisogna però partire dalla constatazione che le bollette italiane sono le più basse d'Europa proprio perché finora gli investimenti nel miglioramento della rete idrica sono stati molto bassi. A Berlino l'acqua costa 6 euro al metro cubo, a Parigi 3,30 euro, a Londra circa 3 euro. A Roma invece 1,50 euro. Non dobbiamo arrivare ai livelli europei, ma indubbiamente gli investimenti e il miglioramento del servizio impongono una partecipazione dell'utenza».
Forse sarà questo un motivo per cui tanti sindaci sono contrari alla gestione industriale?
«Certo il basso costo dell'acqua può essere uno strumento di consenso politico e un modo per non perdere il controllo del servizio. Dal 1999 al 2009, quando la gestione era ancora in larga parte direttamente in mano ai Comuni, gli investimenti erano pari a circa 500 milioni l'anno, mentre nel 2019 con le società di gestione industriali sono stati superati i 3 miliardi tra ammodernamento della rete, depurazione e fognature».
Quanto influisce il cambiamento climatico sull'urgenza di rimettere a posto gli acquedotti?
«L'innalzamento delle temperature rende più complessa la gestione delle risorse idriche. Un piccolo Comune non può pensare di far fronte all'emergenza acqua continuando ad attingere al proprio fontanile. Secondo una stima delle aziende di Utilitalia, per mettere in sicurezza la rete idrica, a fronte del cambiamento climatico, servirebbero 11 miliardi di euro entro il 2026. Siccome dal piano del governo arriveranno solo 3,5 miliardi, non vuol dire che i progetti non si faranno. È evidente che andranno finanziati anche attraverso le tariffe».
«La pioggia non manca: usiamola»

Ettore Prandini (Ansa)
«Servono un migliaio di bacini di accumulo dell'acqua in più. I soldi del Pnrr non bastano. Inoltre le risorse rischiano di non essere efficaci a causa della burocrazia. Per un'autorizzazione a costruire un bacino occorrono in media 5 anni, intanto l'acqua va sprecata». Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, ha presentato al governo un progetto, condiviso con Anbi, Terna, Eni, Enel e Cdp e con il coinvolgimento di alcune università, che «prevede», spiega, «la realizzazione di una rete di piccoli invasi con un basso impatto paesaggistico e diffusi sul territorio. Saranno privilegiati il completamento e il recupero di strutture giù esistenti».
Qual è l'efficacia dei bacini nella raccolta di acqua piovana?
«Nonostante i cambiamenti climatici, l'Italia resta un Paese piovoso con circa 300 miliardi di metri cubi di acqua che cadono annualmente, ma per carenze infrastrutturali riusciamo a trattenere solo l'11%. Un lusso che non possiamo permetterci in una situazione di emergenza idrica».
I bacini potrebbero risolvere il problema della siccità?
«Potrebbero dare un contributo importante. Si può arrivare a trattenere il 40-50% delle precipitazioni, portando risorse idriche dove non ci sono, combattendo anche il dissesto idrogeologico. L'altra faccia del cambiamento climatico, oltre alle alte temperature, sono i violenti temporali con l'esondazione dei fiumi. Abbiamo calcolato oltre 380 eventi straordinari dall'inizio dell'estate come grandinate e trombe aria, 17 al giorno e danni per decine di milioni di euro. È la quarta estate più calda dal 1800, cioè da quando vengono fatti i rilevamenti. O abbiamo la lungimiranza di intervenire subito o rischiamo di avere, in un futuro vicino, molta meno acqua perché non siamo in grado di trattenerla».
Ma i progetti di nuovi bacini di accumulo ci sono?
«Sì e sono immediatamente cantierabili perché hanno superato l'iter burocratico. Il tema per le nuove opere è però sempre quello delle lungaggini amministrative. Prima di arrivare all'esecuzione dell'opera, occorre il parere favorevole di più enti e autorità ambientali. E se un'amministrazione chiede alcune modifiche, bisogna ricominciare il percorso da capo. Augurandosi che qualche micro comitato locale non faccia ricorso al Tar, perché allora i tempi diventano biblici. È estenuante. È dagli anni Sessanta che non si creano nuovi bacini di accumulo».
Eppure l'Europa distribuisce tante risorse all'agricoltura, per i piani di sviluppo rurale. Che fine fanno?
«Non vengono spese e terminati i programmi devono essere restituite. Questo accade soprattutto nelle amministrazioni del Sud. Puglia, Calabria Basilicata Campania e in parte anche l'Umbria hanno difficoltà a usare tutte le risorse».
Come si superano i veti delle autorità ambientali?
«I progetti dei bacini che abbiamo presentato non prevedono l'uso del cemento. I laghetti sono in equilibrio con il territorio, conservano l'acqua e la distribuiscono in modo razionale ai contadini e all'industria, con una ricaduta anche sull'occupazione».
L'agricoltura impiega in media il 69% dell'acqua dolce per usi umani, l'industria il 19% e le città il 12%. Quindi il mondo agricolo ha una grande responsabilità nell'uso razionale delle risorse.
«Spesso si fa un'analisi del consumo solo in uscita. Si considera quanto l'agricoltura utilizza e non quanto restituisce. Solo il 30% dell'acqua per irrigare resta nella pianta. Il resto torna alla terra, alle falde: può essere riutilizzato. Una piccola percentuale evapora, specie nelle irrigazioni a getto e con temperature alte».
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A 10 anni dal voto che la consacrò bene «di tutti», la rete idrica è un affare di nessuno. La dispersione aumenta, i costi pure. E ogni estate è emergenza.Il direttore di Utilitalia, Giordano Colarullo: «Abbiamo le bollette più economiche del continente e i Comuni hanno tutto l'interesse a non ritoccarle. A scapito però dell'efficienza. I fondi del Pnrr? Non basteranno. Avanti con la gestione industriale, come previsto dalla legge».Il leader di Coldiretti, Ettore Prandini: «Il piano per raccoglierla c'è. Unico ostacolo: la burocrazia».Lo speciale contiene tre articoli.Un rubinetto che sgocciola riesce a sprecare circa 10.000 litri di acqua in un anno. Basta una guarnizione un po' vecchiotta per procurare questo danno. Figurarsi gli acquedotti che hanno oltre mezzo secolo di vita. Il 60%, più di 30 anni e il 25% oltre 50. L'Italia è ricchissima di acqua, con precipitazioni che superano annualmente i 300 miliardi di metri cubi, però per carenze infrastrutturali, riesce a trattenerne solo l'11%. La disponibilità effettiva di risorse idriche - cioè l'acqua effettivamente utilizzabile - è secondo alcune stime solo pari a 58 miliardi di metri cubi. Come mai ogni estate scoppia l'emergenza idrica? Le cause sono molteplici, tutte note e tutte con risposte chiare sulla carta, ma con scarsi risvolti concreti. Innanzitutto gli sprechi. La rete idrica è un colabrodo. Secondo il report dell'Istat riferito al 2018, il 42% dell'acqua immessa nelle nostre reti non ha raggiunto gli utenti a causa delle tubature che perdono. Quindi su 100 litri d'acqua potabile, circa 42 litri vanno sprecati. L'Istituto ha rilevato che nel 2019 l'8,6% delle famiglie ha lamentato irregolarità nel servizio. Il disservizio investe in misura diversa le regioni e interessa quasi 2 milioni 198 mila famiglie, il 61,9% delle quali vive nel Mezzogiorno. La Calabria ha la quota più elevata di famiglie (31,2%) che lamentano le inefficienze. Il primato delle perdite spetta all'Abruzzo con il 55,6% seguito dall'Umbria (54,6%) e dal Lazio (53%). Con il cambiamento climatico, estati sempre più torride, la lotta alla dispersione idrica è diventata una priorità. Però la manutenzione delle infrastrutture è effettuata prevalentemente con finanziamenti pubblici che non solo sono insufficienti al fabbisogno (circa 40 euro per abitante l'anno, rispetto a una media europea di 100 euro) ma arrivano anche con il contagocce perché legati ai vincoli del bilancio statale. Ci si mettono anche le lentezze amministrative e la scarsa volontà di prendere decisioni. Un esempio è fornito da Siracusa. Il gestore dell'acqua nella città siciliana è dal 2015 la Siam (Servizio integrato acque del Mediterraneo), società di cui è socia unica la spagnola Dam, che opera in regime di proroga. Siam è stata la sola impresa a presentare un'offerta per la gara d'appalto indetta dal Comune con durata triennale. In attesa della decisione dell'assemblea territoriale idrica sulla gestione pubblica dell'acqua, si è creata una situazione di incertezza che per l'azienda non è sicuramente un incentivo per a investire. Così diverse aree della città hanno lamentato disservizi. Poi ci sono i contenziosi, come a Pachino, sempre in Sicilia, dove uno dei pozzi principali utilizzati per rifornire il comune è di proprietà privata. A causa di una denuncia di abbassamento della falda acquifera è stato sospeso il prelievo di acqua, con il risultato che gran parte della cittadina è rimasta a secco. Molto diffuso il fenomeno degli allacci abusivi da parte di coloro che non pagano il servizio o dirottano l'acqua verso irrigazioni di orti e campi sottraendo le risorse all'uso domestico. Ma spesso, a causa di carenze del personale, mancano i controlli. Numerosi casi di illeciti in Calabria hanno fatto emergere che nel Comune di Reggio Calabria c'è un solo tecnico per intervenire su 800 chilometri di condotta, 30 serbatoi e 90 pozzi. Bisogna però andare nel Lazio per scovare il campione della dispersione idrica. Il programma Fuori dal coro di Mario Giordano ha definito Frosinone una «città groviera». Su 100 litri d'acqua ben 73 vanno persi, il 73,8%. In un comune su tre, dice l'Istat, si registrano perdite totali superiori al 45%.Dal Sud ci spostiamo al Nord, dove troviamo altri esempi di mala gestione. A Imperia, la Procura della Repubblica ha aperto un'inchiesta per inadempimento di contratti di pubbliche forniture a seguito dei continui guasti all'acquedotto Roja. Nel settembre scorso lo scoppio di una conduttura aveva causato il blocco dell'erogazione di acqua per diversi giorni.Lo spreco di acqua si accompagna al caro tariffe. L'Osservatorio prezzi di Cittadinanzattiva ha rilevato che il costo dell'acqua nel 2020 in Italia è salito del 2,6% rispetto al 2019. Ma a questo rincaro non è corrisposto un miglioramento del servizio. È vero che l'acqua potabile qui è meno cara che in altri Paesi europei, ma è altresì vero che si fa poco, con le risorse disponibili, per migliorare il servizio. Frosinone, oltre al primato degli sprechi, ha anche il record della bolletta più cara. La spesa media del 2020 per il servizio idrico per una famiglia di tre persone è stata di 845 euro, circa sei volte più che a Milano, la città con la bolletta più bassa d'Italia: 156 euro in media. Gli aumenti maggiori si sono registrati a Isernia (+27,5%), che nel 2019 era la città più economica, e a Vibo Valentia (+21,5%).L'emergenza colpisce anche il Nord, nonostante sia più piovoso. L'Anbi, l'Associazione dei consorzi di bacino (enti pubblici che gestiscono i bacini di fiumi e laghi), ha proposto un piano per l'efficientamento della rete idrica nel Nord che prevede la creazione di 13 bacini, per un investimento di 477 milioni di euro. Secondo l'Anbi, il 20% del territorio italiano è a rischio desertificazione a causa del cambiamento climatico ed è necessario costruire nuovi invasi per raccogliere l'acqua piovana. La Corte dei conti europea ha stimato che dal 2008 al 2017 in Europa le aree meridionali, centrali e orientali a rischio elevato o molto elevato sono aumentate di 177.000 chilometri quadrati, pari al 10,6%, arrivando ad un totale di 645.000 chilometri quadrati.Sono passati ormai dieci anni dal referendum popolare sull'acqua pubblica del 2011 con cui ben il 57% degli italiani bocciarono la privatizzazione. Da allora la situazione degli acquedotti è peggiorata progressivamente, ma solo due italiani su dieci, secondo un sondaggio Ipsos, sono preoccupati per le risorse idriche attuali nel nostro Paese: il 70% ritiene sia un problema solo di alcune aree e periodi dell'anno. Inoltre appena il 20% considera veritiere le previsioni del World resources institute sul rischio per l'Italia di stress idrico entro il 2040.Probabilmente la convinzione generale è che questa risorsa sia illimitata. Tant'è che qui se ne fa un uso superiore al resto d'Europa. Il nostro Paese è in prima posizione per il consumo d'acqua per persona (tra i 150 e i 350 litri per abitante al giorno, contro una media europea di 125) e su scala mondiale è al terzo posto. Sopra di noi in questa classifica solo Stati Uniti e Canada. Ora però siamo all'ultima chiamata per combattere gli sprechi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/colabrodo-italia-continuiamo-buchi-acqua-2653955203.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-rincaro-delle-tariffe-sara-inevitabile" data-post-id="2653955203" data-published-at="1627224062" data-use-pagination="False"> «Un rincaro delle tariffe sarà inevitabile» Giordano Colarullo (Twitter) «Gli acquedotti sono vetusti e per anni siamo andati avanti con finanziamenti pubblici a singhiozzo perché legati alle disponibilità del bilancio statale. 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Qui si annidano anche forme di abusivismo che talvolta vengono tollerate per ragioni politiche di consenso». L'acqua strumento di acquisizione di voti? «Non necessariamente, anche se rimangono dei casi piuttosto difficili. Faccio un esempio, senza citare le località. Se un'area di un comune è strategica politicamente o di difficile controllo, l'amministrazione può anche decidere di non fatturare il consumo di acqua in quella zona: nel calcolo delle perdite di acqua, a quel punto, figura anche quella prelevata abusivamente, oltre a quella che esce dalle tubature vecchie. Le morosità, invece, non vengono contabilizzate tra le perdite. Per arginarle servirebbe un controllo puntuale, ma chi lo fa? Se invece il servizio è effettuato da un gestore industriale, il monitoraggio è più semplice. La società, essendo esterna alla realtà locale, è lontana da certe logiche del territorio e guarda solo al servizio». Sta dicendo che la soluzione all'efficienza della rete è nella privatizzazione? «Non serve la privatizzazione. Basta applicare la legge che risale al 1994 sul passaggio del servizio dell'acqua dalla gestione pubblica diretta dei Comuni alla gestione industriale, nella quale è protagonista un soggetto societario». Cosa si intende per gestione industriale? «È la gestione effettuata da una società che può essere creata dal Comune, o attraverso un mix pubblico e privato o interamente privata. Anche se la legge ha circa trent'anni, il processo di applicazione è stato lentissimo e la gestione industriale è tutt'ora poco diffusa, soprattutto al Sud. Nel Mezzogiorno si concentra il 73% delle procedure di infrazione della direttiva europea sul trattamento delle acque reflue urbane. Soldi che potrebbero essere spesi diversamente, per migliorare la rete idrica e fognaria». Quanti soldi servirebbero per recuperare il gap infrastrutturale? «Sarebbero necessari almeno 5 miliardi di euro l'anno. Fra nuove risorse del Pnrr, il Piano di ripresa e quelle già previste, si parla di 2 miliardi per mettere in sicurezza l'erogazione del servizio idrico, di 900 milioni per il recupero delle perdite e 600 milioni per la depurazione. Quindi circa 3,5 miliardi che di sicuro non sono risolutivi ma aiutano». Servono più soldi, quindi inevitabilmente le bollette dovranno aumentare? «Le tariffe dovranno riflettere i nuovi costi. Bisogna però partire dalla constatazione che le bollette italiane sono le più basse d'Europa proprio perché finora gli investimenti nel miglioramento della rete idrica sono stati molto bassi. A Berlino l'acqua costa 6 euro al metro cubo, a Parigi 3,30 euro, a Londra circa 3 euro. A Roma invece 1,50 euro. Non dobbiamo arrivare ai livelli europei, ma indubbiamente gli investimenti e il miglioramento del servizio impongono una partecipazione dell'utenza». Forse sarà questo un motivo per cui tanti sindaci sono contrari alla gestione industriale? «Certo il basso costo dell'acqua può essere uno strumento di consenso politico e un modo per non perdere il controllo del servizio. Dal 1999 al 2009, quando la gestione era ancora in larga parte direttamente in mano ai Comuni, gli investimenti erano pari a circa 500 milioni l'anno, mentre nel 2019 con le società di gestione industriali sono stati superati i 3 miliardi tra ammodernamento della rete, depurazione e fognature». Quanto influisce il cambiamento climatico sull'urgenza di rimettere a posto gli acquedotti? «L'innalzamento delle temperature rende più complessa la gestione delle risorse idriche. Un piccolo Comune non può pensare di far fronte all'emergenza acqua continuando ad attingere al proprio fontanile. Secondo una stima delle aziende di Utilitalia, per mettere in sicurezza la rete idrica, a fronte del cambiamento climatico, servirebbero 11 miliardi di euro entro il 2026. Siccome dal piano del governo arriveranno solo 3,5 miliardi, non vuol dire che i progetti non si faranno. È evidente che andranno finanziati anche attraverso le tariffe». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/colabrodo-italia-continuiamo-buchi-acqua-2653955203.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-pioggia-non-manca-usiamola" data-post-id="2653955203" data-published-at="1627224062" data-use-pagination="False"> «La pioggia non manca: usiamola» Ettore Prandini (Ansa) «Servono un migliaio di bacini di accumulo dell'acqua in più. I soldi del Pnrr non bastano. Inoltre le risorse rischiano di non essere efficaci a causa della burocrazia. Per un'autorizzazione a costruire un bacino occorrono in media 5 anni, intanto l'acqua va sprecata». Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, ha presentato al governo un progetto, condiviso con Anbi, Terna, Eni, Enel e Cdp e con il coinvolgimento di alcune università, che «prevede», spiega, «la realizzazione di una rete di piccoli invasi con un basso impatto paesaggistico e diffusi sul territorio. Saranno privilegiati il completamento e il recupero di strutture giù esistenti». Qual è l'efficacia dei bacini nella raccolta di acqua piovana? «Nonostante i cambiamenti climatici, l'Italia resta un Paese piovoso con circa 300 miliardi di metri cubi di acqua che cadono annualmente, ma per carenze infrastrutturali riusciamo a trattenere solo l'11%. Un lusso che non possiamo permetterci in una situazione di emergenza idrica». I bacini potrebbero risolvere il problema della siccità? «Potrebbero dare un contributo importante. Si può arrivare a trattenere il 40-50% delle precipitazioni, portando risorse idriche dove non ci sono, combattendo anche il dissesto idrogeologico. L'altra faccia del cambiamento climatico, oltre alle alte temperature, sono i violenti temporali con l'esondazione dei fiumi. Abbiamo calcolato oltre 380 eventi straordinari dall'inizio dell'estate come grandinate e trombe aria, 17 al giorno e danni per decine di milioni di euro. È la quarta estate più calda dal 1800, cioè da quando vengono fatti i rilevamenti. O abbiamo la lungimiranza di intervenire subito o rischiamo di avere, in un futuro vicino, molta meno acqua perché non siamo in grado di trattenerla». Ma i progetti di nuovi bacini di accumulo ci sono? «Sì e sono immediatamente cantierabili perché hanno superato l'iter burocratico. Il tema per le nuove opere è però sempre quello delle lungaggini amministrative. Prima di arrivare all'esecuzione dell'opera, occorre il parere favorevole di più enti e autorità ambientali. E se un'amministrazione chiede alcune modifiche, bisogna ricominciare il percorso da capo. Augurandosi che qualche micro comitato locale non faccia ricorso al Tar, perché allora i tempi diventano biblici. È estenuante. È dagli anni Sessanta che non si creano nuovi bacini di accumulo». Eppure l'Europa distribuisce tante risorse all'agricoltura, per i piani di sviluppo rurale. Che fine fanno? «Non vengono spese e terminati i programmi devono essere restituite. Questo accade soprattutto nelle amministrazioni del Sud. Puglia, Calabria Basilicata Campania e in parte anche l'Umbria hanno difficoltà a usare tutte le risorse». Come si superano i veti delle autorità ambientali? «I progetti dei bacini che abbiamo presentato non prevedono l'uso del cemento. I laghetti sono in equilibrio con il territorio, conservano l'acqua e la distribuiscono in modo razionale ai contadini e all'industria, con una ricaduta anche sull'occupazione». L'agricoltura impiega in media il 69% dell'acqua dolce per usi umani, l'industria il 19% e le città il 12%. Quindi il mondo agricolo ha una grande responsabilità nell'uso razionale delle risorse. «Spesso si fa un'analisi del consumo solo in uscita. Si considera quanto l'agricoltura utilizza e non quanto restituisce. Solo il 30% dell'acqua per irrigare resta nella pianta. Il resto torna alla terra, alle falde: può essere riutilizzato. Una piccola percentuale evapora, specie nelle irrigazioni a getto e con temperature alte».
Ansa
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
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Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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