2021-05-22
Claudio Lippi: «Cantavo cose altrui e vendevo birre. Poi il Cav si inventò “Lo Sprolippio”»
Claudio Lippi (Getty Images)
Il conduttore: «Era il programma con il quale colonizzai la notte di Telemilano, il nome teneva assieme il mio e il fatto che parlassi molto. La vera gavetta, però, l'ho fatta in Rai conducendo programmi per bimbi e ragazzi».Claudio Lippi, un pezzo della televisione italiana. Ha visto tutto, ha conosciuto tutti, ha memorizzato tutto e, saltando con nonchalance di palo in frasca con la sua inconfondibile voce, fa rivivere un'epopea di cui è stato grande protagonista. Con motivati rimpianti per i bei tempi andati in cui i dirigenti della tv pubblica conoscevano il mezzo televisivo e dall'altra parte la concorrenza delle tv private spezzava il monopolio con geniali trovate.Come ha cominciato a cantare?«L'inizio fu al liceo, il classico complessino, interpretando brani del momento. Poi diventò una professione, con buoni risultati in un'epoca in cui c'era meno concorrenza: un passaggio in televisione era sufficiente per vendere il giorno dopo 20.000 dischi». Non ha avuto difficoltà a imporsi in campo canoro?«Era più facile, non è finta modestia. Il mio sogno era cantare e l'ho realizzato per un caso fortuito della vita: mio padre subì una truffa da un amico, ci ritrovammo sottozero e c'era pronto un contratto discografico, che non mi avrebbe mai concesso di firmare, e invece a quel punto divenne essenziale per avere un anticipo. Io ero un interprete: c'erano autori di grandissima capacità in grado di scrivere canzoni, come un vestito fatto su misura da un sarto, per quelle che erano le caratteristiche vocali del cantante. L'arrivo dei grandi cantautori ha trasformato il mondo discografico. Io e tanti interpreti a quel punto ci trovammo in difficoltà perché chi aveva il talento di farlo si scriveva i testi e se li cantava».Lei non ha mai provato?«Ho avuto la grande capacità di capire che era meglio che non ci provassi!».Chi erano i suoi parolieri?«Daniele e Mario Panzeri, Edoardo Vianello, poi avevo come produttore Federico Monti Arduini...».Il Guardiano del Faro!«Sì, che ha scritto dei brani per me e poi è andato a cercare quelli che mi si adattassero. La canzone che mi diede più lustro è Everybody loves somebody, cantata da Frank Sinatra, Dean Martin, Elvis Presley, e in Italia da me e Claudio Villa, con il titolo Per ognuno c'è qualcuno. Erano tempi in cui andavano di moda le cover». Com'è avvenuto il suo passaggio alla televisione?«Nel 1972, pensai: “Se devo rimanere in un angolo a pietire una canzone e se tutto va bene mi arriva uno scarto di un cantautore, divento schiavo di me stesso e rischio di incattivirmi pensando di essere una vittima. Se nella vita pensi di essere una vittima, diventi una vittima, ed è il momento in cui perdi. Smetto!". E mi misi a fare altri mestieri».Quali?«Il venditore di birra. Mio padre la importava e io andavo in giro per proporla. Non ho venduto una bottiglia!». Non l'ha aiutata la fama acquisita come cantante?«Quando entravo in un locale, mi dicevano: “Ma tu non sei quello...?". “Sì". “Cosa bevi?". “Sono venuto a proporre un nuovo marchio, una nuova birra...". “Ma dai!". Sembravo l'antesignano di Scherzi a parte! Tornando alla televisione, avevo partecipato come cantante in un programma che metteva in gara delle voci nuove o meno nuove, c'era un applausometro e chi vinceva tornava. Si chiamava Settevoci e lanciò Pippo Baudo. Io vinsi tre puntate e dissi anche delle cose sulle canzoni, scherzai con Baudo e gli autori, Sergio Paolini e Stelio Silvestri, i quali, tempo dopo, quando decisi di smettere, mi dissero: “Ma, Claudio, tu parli!". “Beh, grazie a Dio, sì. Mi esprimo in maniera piuttosto compiuta, ho un lessico comprensibile". “Tu devi fare la televisione da conduttore". Così cominciai!».Allora si faceva la gavetta...«Feci una lunga gavetta in radio, in programmi dove canticchiavo il motivetto che diventava un quiz, facevo la domanda, una battuta. In televisione allora il percorso era come quello scolastico: si partiva dai programmi dei bambini perché c'erano i bambini... un bambino di oggi corrisponde a un trentenne di allora! Poi c'era la tv dei ragazzi, un pubblico che oggi con Internet e i social non esiste più. Io con i bambini ho imparato più che in tutto il resto dei miei anni televisivi. È una gavetta che imporrei come il servizio militare. Vuoi fare televisione? Vediamo se sai intrattenere un bambino di sei anni!».Ricorda la prima volta che ha condotto un programma in Rai?«Era Aria aperta, un programma per ragazzi che andava in onda in diretta il sabato pomeriggio: c'erano scuole che si affrontavano con giochi di abilità e nozionistici. Io ho solo invertito le esperienze: sono partito dai ragazzi, poi sono passato ai bambini, con Gira e gioca». Ha scoperto di avere una vocazione…«Faccio un mestiere che non avrei mai pensato di fare. Cerco di far vivere lo spettacolo che sono chiamato a presentare come una delle persone che lo guarda, cioè sono sempre più spettatore che attore. Ho avuto la fortuna di avere un vero maestro, Corrado, che andavo a vedere quando faceva il programma radiofonico La Corrida. Quello che mi ha reso orgoglioso è di aver colto in lui quello che avevo dentro anch'io, senza volerlo imitare perché era inimitabile. La sua grande dote era di parlare più con il silenzio che con le parole. Chi non ricorda Corrado su quello sgabello mentre si esibiva uno fuori di testa e lui con quello sguardo diceva molto di più di qualunque commento? Quando rientrava, la frase rituale nei confronti della persona che si era esibita, raccogliendo fischi e pernacchie, era: “Li perdoni! Lei è troppo avanti, loro purtroppo non capiscono", che è di una grazia pesantissima, pura ironia. Senza mai prendere in giro il concorrente».Lo stile che ha sempre contraddistinto anche le sue conduzioni.«Quando portavo in giro per l'Italia, prima della pandemia, lo spettacolo Claudio Lippi... tra la gente, salivo sul palco e dicevo: “Signori, io sono qui, ma sono dove non dovrei essere perché qui dovresti esserci voi". Facevo esibire le persone, senza voler fare La Corrida, per dare tre minuti di popolarità a chi era un fantasma nel paese in cui abitava. Il matto del paese il giorno dopo diventava il più simpatico di tutti! La gente comune vale molto di più di quanto noi a volte immaginiamo. In televisione ragionano in termini di numeri, di greggi, ma la gente è fatta di singoli». Lei è stato uno dei primi conduttori Rai a passare nelle reti berlusconiane, proprio ai primordi dell'emittenza privata, quando Canale 5 si chiamava Telemilano.«Sono stato il primo! Ho aperto gli studi a Milano 2! Mio fratello mi disse: “Ti vuole conoscere Silvio Berlusconi". “Chi è". “Un mio amico. Ha costruito Milano 2 e pensa di aprire una televisione". Allora la sede unica di Berlusconi era un palazzetto d'epoca in via Rovani. Io andai lì con mio fratello: c'era una sala che sembrava quella dove vivono i reali d'Inghilterra, sedemmo a un tavolo enorme e Berlusconi mi disse: “Io ti seguo: tu sei perfetto per iniziare un'avventura". Dopo quel colloquio chiesi a mio fratello: “Secondo te beve? Perché ha detto cose che non potranno mai succedere". E invece!».Con quale programma ha cominciato?«Lo Sprolippio, un titolo inventato da Berlusconi mettendo insieme il mio cognome e il fatto che sproloquio. Avevo sempre un argomento che sviluppavo con parentesi, giri di parole, cambi e ritorni di discorso e lui se ne accorse subito. Mi disse: “Ti metti dalle 11 di sera alle due di mattino in uno studio con il telefono aperto a chiunque". Passavano gli attori che finivano il dopocena del dopospettacolo, o le passeggiatrici, allora si chiamavano così, che raccontavano storie di una tenerezza pazzesca. Si diffuse la voce che chiunque avesse voglia di passare era un ospite».Lei non sapeva la sera chi le sarebbe capitato?«Non sapevo niente! Non c'era la possibilità di scrivere un copione. Lì ho imparato che cosa sia la capacità di improvvisazione. Per me la tv è la diretta, il registrato è un prodotto surgelato, non c'è emozione».Non ha avuto paura di lasciare la Rai?«Non l'ho lasciata! Berlusconi non mi chiese esclusive. Continuai a fare alcune cose in Rai, nel 1990 decisi, avendo più opportunità dall'altra parte, di lavorare solo per Mediaset, più di dieci anni».Ha un ricordo del Berlusconi imprenditore televisivo?«Ideò Il buon paese, che poi scrisse materialmente mio fratello Franco, che allora lavorava con me. Voleva raccontare il cuore dei paesi. “Noi dobbiamo cercare il farmacista che va a trovare la fruttivendola". “Silvio, quando scoprono che andiamo a cercare gli altarini, non viene più nessuno!" e si convinse». Sulle reti Mediaset ha vissuto da protagonista il successo di Mai dire gol.«Forse era il programma più indicato per me, nel senso che era il tripudio dell'ironia e di improvvisazione perché i ragazzi (la Gialappa's Band, ndr) sono tre geni, secondo me. Mi sono sentito perfettamente a mio agio perché loro avevano capito che il gioco era: “Ti massacriamo perché tu sei il conduttore classico che deve per forza portare avanti lo spettacolo, qualunque cosa accada, the show must go on", quindi c'era l'antitesi tra il massacro e la mia impermeabilità. Mi ha divertito da morire e mi ha sdoganato dalla conduzione classica, che era quella che normalmente mi si chiedeva». La rivedremo in televisione?«Ho la gioia di rappresentare per il pubblico uno che è entrato nelle casa per molti anni come una specie di familiare. Aspetto quindi di poter tornare alla televisione che parla alla gente, che racconta la storia di persone comuni. Mi piacerebbe coinvolgerle nuovamente in un meccanismo in cui si sentano protagonisti e non solo spettatori seduti sul divano».
Jose Mourinho (Getty Images)