2024-06-24
Claudio Bertolotti: «Putin in Corea era un monito per noi»
Claudio Bertolotti (Imagoeconomica)
L’analista: «Il trattato di reciproco sostegno con Kim è un avvertimento: se in Ucraina andate all’escalation, il conflitto può diventare globale. Cina sempre più forte in Medio Oriente, pure Israele le ha ceduto un porto».Claudio Bertolotti, ricercatore Ispi e direttore di Start Insight, l’Unione europea ha varato il quattordicesimo pacchetto di sanzioni verso la Russia, il primo che colpisce il commercio di gas naturale liquefatto.«Un provvedimento immaginabile, perché quest’anno l’Europa ha importato, rispetto all’anno scorso, più gas dalla Russia che dagli Usa. Questo è sia un problema tecnico da parte statunitense che un campanello di allarme che mostra quanto ancora l’Europa dipenda dai rifornimenti energetici».Le precedenti sanzioni non hanno tuttavia sortito gli effetti sperati dall’Ue.«Esatto, non hanno influito in maniera particolarmente negativa tanto da impattare sull’economia della Federazione russa. E non credo che questo nuovo pacchetto di sanzioni possa avere un impatto superiore. Però conferma da un lato l’unitarietà di intenti da parte dell’Ue nel voler contenere le capacità economico-finanziarie e di conseguenza anche militari della Federazione russa, dall’altro queste ultime sanzioni anticipano la nuova Commissione europea, quindi di fatto è una conferma della scelta politica precedente».Che scenario possiamo aspettarci da un eventuale cambio di maggioranza nella prossima Commissione europea?«Non dovrebbero esserci cambiamenti in termini di riduzione del sostegno all’Ucraina, semmai aumenterà il dibattito all’interno del Parlamento europeo, ma la linea politica per l’Ue rimarrà coerente. L’Europa è una realtà estremamente eterogenea, quindi il Parlamento e la Commissione rispecchieranno quelli che sono gli equilibri europei. Quello che semmai può farci riflettere è quanto accadrà alla fine di quest’anno e all’inizio dell’anno prossimo negli Stati Uniti. Un’amministrazione repubblicana potrebbe essere meno disposta dell’attuale a sostenere l’Ucraina».Intanto però nei giorni scorsi Olanda, Belgio, Danimarca e Norvegia hanno fatto sapere che entro la fine dell’estate l’Ucraina avrà i loro F-16, mentre la Casa Bianca ha confermato che l’esercito ucraino avrà il diritto di usare armi americane sul territorio russo. Come risponderà Mosca? «Io credo che la risposta Putin l’abbia data con la visita nella Corea del Nord. È una risposta che si pone sul piano delle relazioni internazionali e della comunicazione politica e mediatica. La Russia ha bisogno della Corea, in parte per la fornitura di munizionamento e equipaggiamento di tecnologie militari di medio livello. Ma il fatto che sia stato siglato un accordo di mutua collaborazione e reciproco sostegno in caso di aggressione militare non è tanto orientato a coinvolgere la Corea in un’eventuale guerra, ma vuole essere un monito per l’Occidente: “Guardate che, se colpite, l’alternativa è l’allargamento del conflitto”, un allargamento che si colloca non soltanto sui territori ucraino e russo, ma a livello globale. Lo vediamo nel Mediterraneo, nei Paesi di Nord Africa, Tunisia, Libia, Africa sub-sahariana, tutte realtà fortemente condizionate dalla politica estera russa, compresa l’Asia. Putin sta insomma giocando molto sul piano comunicativo e della minaccia preventiva».L’Occidente non sottovaluta il rafforzarsi del legami di Mosca col Sud Est Asiatico e i Brics? Tra l’altro, la dichiarazione della conferenza di pace in Svizzera non è stata firmata neanche da Arabia Saudita, Thailandia, Indonesia, Messico, ed Emirati Arabi Uniti.«Non lo sta sottovalutando perché è un elemento critico nelle agende delle varie organizzazioni o nelle varie alleanze. Ma se ne parla poco perché è un elemento che non si vuole porre in primo piano nel dibattito politico, però è evidente quanto il mondo si stia di nuovo ricollocando su un sistema, chiamiamolo “bipolare meno”, perché c’è una forma di bipolarismo dove il blocco occidentale è sempre unito, indebolito però dal suo interno da una componente di opinione pubblica minoritaria ma estremamente rumorosa. Questo lo vediamo sia nei confronti dell’Ucraina che nel conflitto tra Israele e Hamas. A fronte di un mondo che vede da un lato il grande attore che è la Cina, attorno al quale si uniscono, a seconda dei momenti, con maggiore o minore intensità, tutta una serie di altri attori importanti, tra i quali la Russia che però con la guerra in Ucraina si è particolarmente indebolita anche sul piano delle relazioni internazionali. Le dinamiche che legano i Brics, in maniera altalenante, ci dimostrano come il resto del mondo possa giocare un ruolo di competitor anche in contrapposizione agli Usa. La fine del vecchio sistema bipolare ha dato spazio a un sistema multipolare che, in un’arena che possiamo definire di quasi anarchia durata circa 20 anni, di fatto sta portando al consolidamento di questo nuovo “bipolarismo meno” con la perdita di monopolio da parte degli Usa nella gestione dei principali temi delle relazioni internazionali».Per l’intelligence russa, gli Usa sarebbero pronti a sostituire Zelensky con l’ex comandante in capo delle forze armate ucraine, Zaluzny, per avviare dei negoziati con Mosca. Mera propaganda o un retroscena plausibile?«Tutto quello che arriva dall’intelligence russa o dalle informazioni da parte della Federazione russa è propaganda, intesa come guerra cognitiva estremamente complessa e raffinata, che riesce a trasmettere una narrazione verosimile, ma che poi in realtà non trova concretezza. Va tutto preso sempre con le pinze. Ciò detto, è innegabile ci siano tutta una serie di dinamiche interne all’Ucraina, che è un Paese molto diverso dai Paesi occidentali. L’Ucraina è un Paese estremamente acerbo, con molte criticità, con forte competizione tra gruppi di potere, oligarchi. Dobbiamo immaginare l’Ucraina come una piccola Federazione russa, con le stesse dinamiche interne di competizione, anche violenta, tra i vari attori. Per cui, il retroscena diffuso dai servizi russi è verosimile, perché Zelensky sta perdendo mordente, capacità di coinvolgere e motivare la società civile ucraina».Che infatti è molto più reticente al fronte.«Si sta sviluppando un fenomeno estremamente preoccupante per la tenuta dello Stato ucraino, perché centinaia di giovani chiamati a combattere sono irreperibili, molti sono andati all’estero, altri si sono nascosti, chi in casa, chi nelle campagne. Questo è un campanello d’allarme molto forte che potrebbe indicare come l’Ucraina stia perdendo quella volontà di combattere così come l’abbiamo vista nel primo anno di guerra. È fisiologico, specialmente quando vengono a mancare elementi emotivamente forti, quale può essere una controffensiva. Chi è al fronte combatte da due anni e parliamo di persone di 30 ma anche di 50 anni».Intanto cresce la tensione tra Nato e Cina, con le accuse reciproche di Stoltenberg e Pechino. Si rischia un’ulteriore polarizzazione con ricadute pure sulla guerra in Medio Oriente, anche considerati i legami tra Russia, Cina e Iran?«Sì, non dobbiamo dimenticare che l’Alleanza atlantica è un’alleanza più politica che militare e il ruolo di Stoltenberg si è di fatto imposto all’interno di un dibattito sul sostegno all’una o all’altra parte in un conflitto ben definito, quello tra Russia e Ucraina. La Cina dal canto suo è estremamente lungimirante, ha piani programmatici che guardano al 2035-2050 come obiettivi a breve e a medio termine. Il mondo occidentale è invece estremamente più limitato in questo perché le tempistiche della democrazia impediscono di avere una visione strategica ben definita. Questo ci pone in una posizione di maggiore vulnerabilità nei confronti delle ambizioni delle grandi potenze che democratiche non sono, quindi Russia, Cina e così via».Cina che indisturbata persegue i suoi obiettivi in Medio Oriente.«Sì, è un aspetto che spesso non emerge. Chi è che ha preso in gestione il porto di Haifa in Israele? La Cina. Paradossalmente, l’alleato statunitense per eccellenza nel Medio Oriente ha aperto le porte a una gestione cinese. Quel porto la Cina lo utilizzerebbe non soltanto per un vantaggio commerciale, ma anche per un’influenza sul piano politico a livello regionale. È un elemento molto interessante, basti pensare ai droni di Hezbollah fatti sorvolare proprio sopra il porto di Haifa. La minaccia a chi era rivolta? Alla Cina o a Israele? Pechino, in ottimi rapporti con l’Iran, in rapporti progressivamente buoni con l’Arabia Saudita, era riuscita a far sedere a un tavolo Teheran per siglare un accordo negoziale con Riyad, poco prima dell’attentato del 7 ottobre. Un evento che di fatto ha contribuito a rallentare l’accordo di Abramo. Ora, in tutto questo, a senza sparare un colpo e senza combattere, chi sembra essersi avvantaggiato è proprio la Cina. Invece, gli Stati Uniti si sono progressivamente indeboliti».Quali sono quindi gli obiettivi della Cina nell’attuale contesto geopolitico?«La Cina si sta consolidando a livello globale. Certo, sta attraversando un periodo economico non florido e questo ne limita le capacità di influenza. Ciò non di meno sta perseguendo quelli che sono gli obiettivi legati alla macro-infrastruttura della nuova Via della Seta, che va a realizzare infrastrutture in tutti i Paesi che consentono il transito di merci cinesi verso l’Occidente. Ma nel far questo infastidisce l’altro competitor, che sono gli Usa. Le ambizioni di Washington e di Pechino vanno a scontrarsi in quel terreno comune che è il Pacifico. Tutte le conflittualità a cui assisteremo da qui ai prossimi anni si concentreranno prevalentemente nell’area del Pacifico e troveranno con buona probabilità il punto critico in Taiwan. Qualsiasi cosa farà la Cina vedrà una resistenza da parte statunitense in qualsiasi luogo, ad esclusione di Taiwan, dove un eventuale intervento cinese invece aprirebbe un vero e proprio conflitto aperto tra le due potenze. Questo potrebbe avvenire fra il 2035 e il 2050. La Cina sta perseguendo tutti i suoi obiettivi, magari in maniera un po’ più contenuta, più debole rispetto a quelle che erano le sue ambizioni 15 anni fa, ma lo sta comunque facendo. La Cina è l’elemento determinante dei futuri equilibri geopolitici tra grandi potenze».
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