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2024-05-10
Clandestino da 22 anni accoltella poliziotto
Ansa
Sono da poco passate le 23 di mercoledì alla stazione di Lambrate di Milano, quando un uomo completamente fuori controllo inizia a dare in escandescenza. È uno dei tanti balordi che bazzica la stazione, facendo la spola con piazza Gobetti, zona di spaccio e rifugio per molti tossici. È un marocchino irregolare, ha 37 anni e si chiama Hasan Hamis.
È totalmente fuori controllo. Tanto che, al binario 12, inizia a lanciare pietre contro i treni e contro i pendolari che stanno rientrando con le ultime corse che vanno verso la provincia. Una signora viene colpita e finisce in codice verde al Fatebenefratelli. La Polfer della stazione decide di chiamare la questura, per chiedere aiuto. Così interviene anche la polizia, con dieci pattuglie. E proprio quando arriva si scatena la furia di Hamis, che inizia a lanciare sempre più sassi della massicciata contro le forze dell’ordine. I poliziotti vengono presi più volte, ma cercano comunque di fermarlo. Sono costretti a fermare la circolazione dei treni e si mettono a inseguirlo. Provano a bloccarlo con il taser ma sul piumino spesso che porta Hamis non c’è molto da fare. La scossa che dovrebbe tramortirlo non ha effetto.
Così lui si gira e si scaglia con un coltello di 30 centimetri contro il vice ispettore Christian Di Martino, 35 anni, originario di Ischia. Lo colpisce più volte all’addome e alla schiena. Nella colluttazione prova a ferire anche gli altri agenti, mentre si trova per terra. Poi, finalmente, viene immobilizzato e fermato. Di Martino sarà portato d’urgenza all’ospedale Niguarda. Ha ferite agli organi interni. Subisce cinque arresti cardiaci, ha perso un rene e sono già servite più di 70 trasfusioni, 40 di sangue e 30 di plasma. Al suo fianco ci sono la fidanzata e il padre. Mentre scriviamo, si trova in prognosi riservata. Lotta ancora tra la vita e la morte.
È questa la cronaca di una nottata da incubo per le forze dell’ordine di Milano. Una delle tante che ormai caratterizzano da anni il capoluogo lombardo. A dirlo sono le statistiche del Viminale che lo scorso anno ha piazzato la città in cima all’indice della criminalità nelle province italiane. «Come ha recentemente ricordato il questore, nel 2023 gli agenti vittime di aggressioni sono stati 98: un dato molto preoccupante, che deve far riflettere. Importante anche sottolineare che gli episodi di violenza molto spesso si verificano nelle aree adiacenti alle stazioni, che da troppo tempo sono lasciate alla criminalità», ricorda Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia, componente della commissione d’inchiesta alla Camera sulla Sicurezza e sul degrado delle periferie in Italia ed ex vicesindaco di Milano. A gennaio, un agente della polizia Locale era stato accoltellato durante un controllo antidroga a Colico. In un’indagine del 2022 di Asaps.it, erano stati calcolati 2.678 gli episodi di violenza contro le forze dell’ordine. Con un incremento di aggressioni fisiche, soprattutto contro la polizia di Stato, pari al 47,2%, mentre L’Arma dei carabinieri arrivava al 38,6%. Il restante riguardava la polizia locale.
A farsi sentire in queste ore sono soprattutto i sindacati di polizia. «Stiamo tutti pregando affinché quanto prima arrivi la notizia che Di Martino sia dichiarato fuori pericolo di vita», spiega il segretario generale del Siulp, Felice Romano, «e posso solo augurarmi che arrivi presto questa notizia, perché non ne possiamo più. Provo imbarazzo in un momento come questo ma è la pura realtà: subiamo una aggressione ogni tre ore, noi come tutte le helping profession, e mi riferisco anche alla maestra schiaffeggiata a Ostia. Il tutto di fronte a una diffusa convinzione che tutto ciò possa rientrare in una normalità oramai quasi inevitabile. Per il Siulp, da sempre, questa non può essere la quotidianità. È urgente e indifferibile cambiare le norme. Insisto, nella mente di ogni singolo delinquente c’è la certezza di una impunità pressoché totale e se esistesse il reato di concorso morale in omissione nel non aver dato risposte a tutte le donne e gli uomini in divisa che servono il nostro Paese, oggi sarebbero in tanti a doverne rispondere».
E ancora. «Le aggressioni ai poliziotti non dovrebbero essere tollerate in un paese democratico», spiegava ieri il sindacato di polizia Consap. «Non possiamo non rimarcare che l’accoltellatore delinque in questo Paese da oltre dieci anni e ha precedenti specifici proprio per possesso di coltello, una circostanza che documenta nei fatti come sia possibile commettere reati e farla franca, fino al momento in cui si alza il tiro e un poliziotto di 35 anni si ritrova a lottare tra la vita e la morte», ha commentato il segretario generale nazionale della Consap, Patrizio Del Bon, «Ci aspettiamo che la politica possa individuare correttivi di legge che consentano di prevenire queste situazioni, con misure adeguate a contrastare la pericolosità del personaggio in questione e dei tanti che, come lui, scorrazzano in lungo e in largo in Italia, sia che essi siano legati a problemi psichici o natura violenta».
Questa mattina Hamis comparirà di fronte al giudice. Sarà valutato anche se era sotto effetto di alcol o di sostanze stupefacenti.
La paranoia fascista ci ha indebolito. Quando serve, la forza si deve usare
Se fosse un poliziotto ungherese, non sarebbe in fin di vita; un paio di manette al criminale marocchino e tutti sereni. Se fosse un gendarme francese, spagnolo, tedesco non sarebbe stato sette ore sotto i ferri e non avrebbe subito 70 trasfusioni di plasma, perché spagnoli, francesi e tedeschi sparano prima di essere aggrediti. Se fosse un bobby inglese, Christian Di Martino non sarebbe in terapia intensiva perché la regola d’ingaggio con il malvivente psicopatico avrebbe previsto il ginocchio sulla schiena (all’americana). E perché a Londra non si preoccupano di ciò che scrive il Guardian con infido pietismo.
Invece all’ospedale Niguarda di Milano c’è un giovane servitore dello Stato che lotta per sopravvivere, un vice ispettore delle Volanti, di 35 anni, ormai senza un rene e con il duodeno spappolato, aggredito con tre coltellate al fianco mentre stava tentando di rendere inoffensivo Hasan Hamis, un immigrato marocchino irregolare, pluricondannato e mai rimpatriato. Una vicenda di cronaca consueta, che potrebbe essere raccontata dall’intelligenza artificiale per l’ampia casistica in archivio. Una tragedia destinata a non insegnare niente nell’Italia con l’hobby fetido della delegittimazione delle forze dell’ordine e della doppia morale di un progressismo becero che da due anni - in nome del ritorno del fascismo marziano - fa passare il messaggio che la polizia sia il braccio armato del nemico.
Almeno fosse armato. Almeno Christian Di Martino non avesse lasciato penzolare, racchiusa nella fondina come un’inutile appendice, la pistola d’ordinanza. Chi campa nei talk show e detta regole di democrazia con il ditino alzato dovrebbe sapere che in Occidente, in tutto l’Occidente civile tranne che in Italia, un fuorilegge non può avvinghiarsi a un poliziotto con un coltello in mano e 20 centimetri di rabbia nella lama. Dieci pattuglie erano intervenute nella stazione di Lambrate per dar man forte alla Polfer nel tentativo di ridurre alla ragione il folle che stava lanciando sassi contro i treni (passatempo consueto). Dieci pattuglie per fermare chi aveva colpito alla testa una passante e ferito due agenti della polizia ferroviaria. Non avrebbero mai potuto arrestarlo con i mazzi di fiori e una copia del Piccolo principe.
In virtù del conformismo politico-mediatico dominante, quelle dieci pattuglie non avrebbero mai potuto usare la forza, se non a rischio di inchieste giudiziarie e gogna mediatica della sinistra militante di redazione. Niente sberle, niente manette, il taser solo dove non serve (e infatti sul giubbotto non è servito). Le pistole mai. Come se la criminalità straniera fosse un circolo del cucito e godesse di un lasciapassare morale. «Le armi non servono, serve la cultura». Sembra di sentirli, i Massimo Giannini, i Corrado Formigli e le Lilli Gruber, nelle loro omelie al pistacchio, mentre stigmatizzano la repressione guardando il video di Repubblica girato da qualche manina sulla «deriva autoritaria al tempo di Giorgia Meloni».
Pura ipocrisia, sulla quale si sta, purtroppo, appiattendo anche l’esecutivo, più preoccupato degli editoriali indignati di Gad Lerner e Michele Serra che di difendere i propri uomini e i propri cittadini. Eppure nello Stato diritto l’uso della forza per garantire la legalità è previsto dai codici, si chiama deterrenza. Il senso di debolezza, l’omologazione per quieto vivere alle logiche perdenti da centro sociale si pagano. Anche nelle urne. Sveglia, tornate sulla Terra. Ieri Felice Romano, numero uno del Siulp, ha messo il dito nella piaga: «In questo Paese c’è la perdita di autorevolezza delle istituzioni e la totale certezza di impunità per chi delinque».
Nel clima di smobilitazione civile è ormai passato un messaggio che certi criminali arrivati da lontano hanno interiorizzato al meglio: in Italia tutto è permesso, pure tentare di uccidere un poliziotto a coltellate per puro sfizio. E la copertura dei malviventi è mefitica. Per dire, ieri alle 18 nel titolo della homepage del Corriere della Sera non c’era neppure il nome dell’aggressore, solo «poliziotto accoltellato da un 37enne». In realtà un delinquente matricolato, già condannato per rapina e lesioni, denunciato per avere minacciato con un rasoio dei passeggeri alla stazione di Bologna, in possesso di un decreto di espulsione (carta straccia). Non certo un figlio sfortunato del Terzo mondo.
Nella notte da incubo di Milano siamo tutti vittime della narrazione. Quella abituale e perversa dei buonisti per decreto. La narrazione secondo la quale Ilaria Salis non può essere mostrata in manette in un’aula di tribunale a Budapest. La cattiva maestrina ha una fedina penale lunga un chilometro ma candidiamola all’Europarlamento, signora mia, perché è una vittima. La stessa narrazione che induce allo scandalo perché un italiano è stato arrestato a Miami per avere messo le mani addosso a un poliziotto. Perfino le serie tv insegnano che laggiù è meglio tenerle in tasca, le mani, davanti a una divisa.
La narrazione tossica imperversa. Mentre Christian Di Martino è aggrappato a tubi e macchinari per vivere, il sindaco di Gotham City, Beppe Sala (concentrato sulla biodiversità delle aiuole, sul divieto dei gelati dopo la mezzanotte e su tutto lo sciocchezzaio green), pensa solo ad allontanare da sé le responsabilità politiche. Come se il borgomastro di Milano fosse un altro, addita il governo: «Doveva espellere quell’uomo, non ha fatto il proprio dovere». Sa di essere protetto dalla demagogia sinistra di una città senza controllo. Ed è pronto a mostrare gli artigli, com’è già accaduto, solo contro la prossima retata del questore.
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L’uomo, soggetto a decreti d’espulsione, tirava sassi ai vagoni. Per l’agente 70 trasfusioni e 5 arresti cardiaci: ha perso un rene.Chi fa rispettar le leggi non può ricorrere alle armi, pena la gogna pubblica. I buonisti s’indignano sulle catene alla Salis e non per un servitore dello Stato in fin di vita. Così i criminali sanno che in Italia tutto è permesso.Lo speciale contiene due articoliSono da poco passate le 23 di mercoledì alla stazione di Lambrate di Milano, quando un uomo completamente fuori controllo inizia a dare in escandescenza. È uno dei tanti balordi che bazzica la stazione, facendo la spola con piazza Gobetti, zona di spaccio e rifugio per molti tossici. È un marocchino irregolare, ha 37 anni e si chiama Hasan Hamis. È totalmente fuori controllo. Tanto che, al binario 12, inizia a lanciare pietre contro i treni e contro i pendolari che stanno rientrando con le ultime corse che vanno verso la provincia. Una signora viene colpita e finisce in codice verde al Fatebenefratelli. La Polfer della stazione decide di chiamare la questura, per chiedere aiuto. Così interviene anche la polizia, con dieci pattuglie. E proprio quando arriva si scatena la furia di Hamis, che inizia a lanciare sempre più sassi della massicciata contro le forze dell’ordine. I poliziotti vengono presi più volte, ma cercano comunque di fermarlo. Sono costretti a fermare la circolazione dei treni e si mettono a inseguirlo. Provano a bloccarlo con il taser ma sul piumino spesso che porta Hamis non c’è molto da fare. La scossa che dovrebbe tramortirlo non ha effetto. Così lui si gira e si scaglia con un coltello di 30 centimetri contro il vice ispettore Christian Di Martino, 35 anni, originario di Ischia. Lo colpisce più volte all’addome e alla schiena. Nella colluttazione prova a ferire anche gli altri agenti, mentre si trova per terra. Poi, finalmente, viene immobilizzato e fermato. Di Martino sarà portato d’urgenza all’ospedale Niguarda. Ha ferite agli organi interni. Subisce cinque arresti cardiaci, ha perso un rene e sono già servite più di 70 trasfusioni, 40 di sangue e 30 di plasma. Al suo fianco ci sono la fidanzata e il padre. Mentre scriviamo, si trova in prognosi riservata. Lotta ancora tra la vita e la morte. È questa la cronaca di una nottata da incubo per le forze dell’ordine di Milano. Una delle tante che ormai caratterizzano da anni il capoluogo lombardo. A dirlo sono le statistiche del Viminale che lo scorso anno ha piazzato la città in cima all’indice della criminalità nelle province italiane. «Come ha recentemente ricordato il questore, nel 2023 gli agenti vittime di aggressioni sono stati 98: un dato molto preoccupante, che deve far riflettere. Importante anche sottolineare che gli episodi di violenza molto spesso si verificano nelle aree adiacenti alle stazioni, che da troppo tempo sono lasciate alla criminalità», ricorda Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia, componente della commissione d’inchiesta alla Camera sulla Sicurezza e sul degrado delle periferie in Italia ed ex vicesindaco di Milano. A gennaio, un agente della polizia Locale era stato accoltellato durante un controllo antidroga a Colico. In un’indagine del 2022 di Asaps.it, erano stati calcolati 2.678 gli episodi di violenza contro le forze dell’ordine. Con un incremento di aggressioni fisiche, soprattutto contro la polizia di Stato, pari al 47,2%, mentre L’Arma dei carabinieri arrivava al 38,6%. Il restante riguardava la polizia locale. A farsi sentire in queste ore sono soprattutto i sindacati di polizia. «Stiamo tutti pregando affinché quanto prima arrivi la notizia che Di Martino sia dichiarato fuori pericolo di vita», spiega il segretario generale del Siulp, Felice Romano, «e posso solo augurarmi che arrivi presto questa notizia, perché non ne possiamo più. Provo imbarazzo in un momento come questo ma è la pura realtà: subiamo una aggressione ogni tre ore, noi come tutte le helping profession, e mi riferisco anche alla maestra schiaffeggiata a Ostia. Il tutto di fronte a una diffusa convinzione che tutto ciò possa rientrare in una normalità oramai quasi inevitabile. Per il Siulp, da sempre, questa non può essere la quotidianità. È urgente e indifferibile cambiare le norme. Insisto, nella mente di ogni singolo delinquente c’è la certezza di una impunità pressoché totale e se esistesse il reato di concorso morale in omissione nel non aver dato risposte a tutte le donne e gli uomini in divisa che servono il nostro Paese, oggi sarebbero in tanti a doverne rispondere». E ancora. «Le aggressioni ai poliziotti non dovrebbero essere tollerate in un paese democratico», spiegava ieri il sindacato di polizia Consap. «Non possiamo non rimarcare che l’accoltellatore delinque in questo Paese da oltre dieci anni e ha precedenti specifici proprio per possesso di coltello, una circostanza che documenta nei fatti come sia possibile commettere reati e farla franca, fino al momento in cui si alza il tiro e un poliziotto di 35 anni si ritrova a lottare tra la vita e la morte», ha commentato il segretario generale nazionale della Consap, Patrizio Del Bon, «Ci aspettiamo che la politica possa individuare correttivi di legge che consentano di prevenire queste situazioni, con misure adeguate a contrastare la pericolosità del personaggio in questione e dei tanti che, come lui, scorrazzano in lungo e in largo in Italia, sia che essi siano legati a problemi psichici o natura violenta». Questa mattina Hamis comparirà di fronte al giudice. Sarà valutato anche se era sotto effetto di alcol o di sostanze stupefacenti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/clandestino-da-22-anni-accoltella-poliziotto-2668214830.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-paranoia-fascista-ci-ha-indebolito-quando-serve-la-forza-si-deve-usare" data-post-id="2668214830" data-published-at="1715296849" data-use-pagination="False"> La paranoia fascista ci ha indebolito. Quando serve, la forza si deve usare Se fosse un poliziotto ungherese, non sarebbe in fin di vita; un paio di manette al criminale marocchino e tutti sereni. Se fosse un gendarme francese, spagnolo, tedesco non sarebbe stato sette ore sotto i ferri e non avrebbe subito 70 trasfusioni di plasma, perché spagnoli, francesi e tedeschi sparano prima di essere aggrediti. Se fosse un bobby inglese, Christian Di Martino non sarebbe in terapia intensiva perché la regola d’ingaggio con il malvivente psicopatico avrebbe previsto il ginocchio sulla schiena (all’americana). E perché a Londra non si preoccupano di ciò che scrive il Guardian con infido pietismo. Invece all’ospedale Niguarda di Milano c’è un giovane servitore dello Stato che lotta per sopravvivere, un vice ispettore delle Volanti, di 35 anni, ormai senza un rene e con il duodeno spappolato, aggredito con tre coltellate al fianco mentre stava tentando di rendere inoffensivo Hasan Hamis, un immigrato marocchino irregolare, pluricondannato e mai rimpatriato. Una vicenda di cronaca consueta, che potrebbe essere raccontata dall’intelligenza artificiale per l’ampia casistica in archivio. Una tragedia destinata a non insegnare niente nell’Italia con l’hobby fetido della delegittimazione delle forze dell’ordine e della doppia morale di un progressismo becero che da due anni - in nome del ritorno del fascismo marziano - fa passare il messaggio che la polizia sia il braccio armato del nemico. Almeno fosse armato. Almeno Christian Di Martino non avesse lasciato penzolare, racchiusa nella fondina come un’inutile appendice, la pistola d’ordinanza. Chi campa nei talk show e detta regole di democrazia con il ditino alzato dovrebbe sapere che in Occidente, in tutto l’Occidente civile tranne che in Italia, un fuorilegge non può avvinghiarsi a un poliziotto con un coltello in mano e 20 centimetri di rabbia nella lama. Dieci pattuglie erano intervenute nella stazione di Lambrate per dar man forte alla Polfer nel tentativo di ridurre alla ragione il folle che stava lanciando sassi contro i treni (passatempo consueto). Dieci pattuglie per fermare chi aveva colpito alla testa una passante e ferito due agenti della polizia ferroviaria. Non avrebbero mai potuto arrestarlo con i mazzi di fiori e una copia del Piccolo principe. In virtù del conformismo politico-mediatico dominante, quelle dieci pattuglie non avrebbero mai potuto usare la forza, se non a rischio di inchieste giudiziarie e gogna mediatica della sinistra militante di redazione. Niente sberle, niente manette, il taser solo dove non serve (e infatti sul giubbotto non è servito). Le pistole mai. Come se la criminalità straniera fosse un circolo del cucito e godesse di un lasciapassare morale. «Le armi non servono, serve la cultura». Sembra di sentirli, i Massimo Giannini, i Corrado Formigli e le Lilli Gruber, nelle loro omelie al pistacchio, mentre stigmatizzano la repressione guardando il video di Repubblica girato da qualche manina sulla «deriva autoritaria al tempo di Giorgia Meloni». Pura ipocrisia, sulla quale si sta, purtroppo, appiattendo anche l’esecutivo, più preoccupato degli editoriali indignati di Gad Lerner e Michele Serra che di difendere i propri uomini e i propri cittadini. Eppure nello Stato diritto l’uso della forza per garantire la legalità è previsto dai codici, si chiama deterrenza. Il senso di debolezza, l’omologazione per quieto vivere alle logiche perdenti da centro sociale si pagano. Anche nelle urne. Sveglia, tornate sulla Terra. Ieri Felice Romano, numero uno del Siulp, ha messo il dito nella piaga: «In questo Paese c’è la perdita di autorevolezza delle istituzioni e la totale certezza di impunità per chi delinque». Nel clima di smobilitazione civile è ormai passato un messaggio che certi criminali arrivati da lontano hanno interiorizzato al meglio: in Italia tutto è permesso, pure tentare di uccidere un poliziotto a coltellate per puro sfizio. E la copertura dei malviventi è mefitica. Per dire, ieri alle 18 nel titolo della homepage del Corriere della Sera non c’era neppure il nome dell’aggressore, solo «poliziotto accoltellato da un 37enne». In realtà un delinquente matricolato, già condannato per rapina e lesioni, denunciato per avere minacciato con un rasoio dei passeggeri alla stazione di Bologna, in possesso di un decreto di espulsione (carta straccia). Non certo un figlio sfortunato del Terzo mondo. Nella notte da incubo di Milano siamo tutti vittime della narrazione. Quella abituale e perversa dei buonisti per decreto. La narrazione secondo la quale Ilaria Salis non può essere mostrata in manette in un’aula di tribunale a Budapest. La cattiva maestrina ha una fedina penale lunga un chilometro ma candidiamola all’Europarlamento, signora mia, perché è una vittima. La stessa narrazione che induce allo scandalo perché un italiano è stato arrestato a Miami per avere messo le mani addosso a un poliziotto. Perfino le serie tv insegnano che laggiù è meglio tenerle in tasca, le mani, davanti a una divisa. La narrazione tossica imperversa. Mentre Christian Di Martino è aggrappato a tubi e macchinari per vivere, il sindaco di Gotham City, Beppe Sala (concentrato sulla biodiversità delle aiuole, sul divieto dei gelati dopo la mezzanotte e su tutto lo sciocchezzaio green), pensa solo ad allontanare da sé le responsabilità politiche. Come se il borgomastro di Milano fosse un altro, addita il governo: «Doveva espellere quell’uomo, non ha fatto il proprio dovere». Sa di essere protetto dalla demagogia sinistra di una città senza controllo. Ed è pronto a mostrare gli artigli, com’è già accaduto, solo contro la prossima retata del questore.
Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 dicembre con Flaminia Camilletti
Ansa
«La polizia aveva l’incarico di essere presente durante il festival», ha spiegato Minns a Sky News Australia. «Da quanto mi risulta, c’erano due agenti nel parco all’inizio della sparatoria. Altri erano nelle vicinanze e un’auto è arrivata poco dopo». Parole che hanno alimentato ulteriormente le polemiche: come si può ritenere adeguata una simile presenza in un contesto di allerta elevata e con un pubblico così numeroso?
Con il passare delle ore, intanto, emergono nuovi elementi sul profilo degli attentatori, Sajid Akram, 50 anni, e suo figlio Naveed, 24. I due hanno aperto il fuoco durante la celebrazione di Hanukkah, colpendo indiscriminatamente i presenti prima di essere neutralizzati: Sajid è morto durante l’azione, mentre Naveed è rimasto gravemente ferito, è sopravvissuto e ieri si è svegliato dal coma. Lontani dall’immagine stereotipata del terrorista clandestino, i due conducevano una vita apparentemente ordinaria. Sajid Akram gestiva un piccolo esercizio di frutta e verdura, mentre Naveed lavorava come operaio fino a pochi mesi fa e, già nel 2019, era finito sotto osservazione delle forze dell’ordine per frequentazioni con ambienti radicalizzati legati a una moschea estremista di Sydney, gravitanti attorno alla figura di Isaak El Matari, jihadista australiano noto agli apparati di sicurezza. Una svolta delle indagini è arrivata ieri quando fonti dell’antiterrorismo hanno riferito all’Abc che Naveed Akram è un seguace di Wisam Haddad, predicatore salafita ferocemente antisemita di Sydney apertamente schierato su posizioni pro Isis, del quale vi abbiamo parlato ieri. Haddad, attraverso i suoi legali, ha immediatamente respinto ogni accusa di coinvolgimento diretto nell’attacco.
Sul fronte internazionale, Nuova Delhi ha fatto sapere che Sajid Akram era nato a Hyderabad ed era arrivato in Australia nel 1998 con un visto per motivi di studio. Pur avendo fatto ritorno in India solo poche volte, aveva mantenuto la cittadinanza indiana. Naveed, invece, nato a Sydney nel 2001, è cittadino australiano. Secondo le autorità indiane, Sajid non avrebbe più intrattenuto rapporti con il Paese d’origine. Un altro tassello chiave riguarda il recente viaggio dei due uomini nelle Filippine. Le autorità australiane hanno confermato che padre e figlio hanno trascorso l’intero mese di novembre a Mindanao, indicando come meta finale la città di Davao. Sono rientrati il 28 novembre via Manila, prima di fare ritorno a Sydney. Mindanao è da decenni teatro di insurrezioni armate e ospita gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e, in misura minore, allo Stato Islamico. «Le ragioni del viaggio e le attività svolte restano oggetto di indagine», ha precisato il commissario di polizia del New South Wales, Mal Lanyon.
La mattina dell’attacco, i due avrebbero detto ai familiari di voler andare a pescare. In realtà si sono diretti in un appartamento preso in affitto, dove avevano accumulato armi acquistate legalmente e ordigni artigianali, poi disinnescati dagli artificieri.
Il premier australiano, Antony Albanese, ha attribuito il movente all’ideologia dello Stato Islamico, citando il ritrovamento di bandiere dell’Isis. Eppure, a differenza di altri attentati, l’organizzazione jihadista non ha rivendicato l’azione. Contrariamente a quanto si tende a credere lo Stato islamico non è una sigla simbolica aperta a chiunque decida di agire in suo nome. È - e continua a essere, nonostante la perdita del controllo territoriale in Siria e Iraq - un’organizzazione strutturata, dotata di una rigida catena di comando, di regole operative precise e di una dottrina definita sulla legittimità delle azioni armate. Proprio per questo motivo l’Isis non rivendica mai attentati compiuti da singoli individui non inseriti in una rete riconosciuta.
Sempre ieri è stato diffuso un video registrato da una dashcam, trasmesso da 7News, che mostra una violenta colluttazione tra Sajid Akram e un uomo in maglietta viola nei pressi di un ponte pedonale, poco prima dell’inizio della sparatoria. L’uomo e la donna presenti nella scena sono stati identificati come Boris e Sofia Gurman, coppia ebreo-russa residente a Bondi. Boris, 69 anni, e Sofia, 61, sono stati i primi a perdere la vita. Il loro tentativo disperato di fermare gli attentatori avrebbe però rallentato l’azione, contribuendo a salvare altre vite. Un dettaglio che restituisce tutta la drammaticità di una tragedia segnata dalle incredibili falle nella sicurezza.
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Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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