2022-07-30
Cina, l’amore del Pd non si scorda mai
Xi Jinping e Sergio Mattarella (Ansa)
I democratici danno patenti di atlantismo dopo aver aperto le porte al Dragone. La Via della Seta però porta la firma del Bullo e di Paolo Gentiloni, con la benedizione di Sergio Mattarella.In un momento in cui il Partito democratico si sente in diritto di dare patentini di atlantismo, bisognerebbe ricordare che proprio questo partito è il principale responsabile dell’inquietante avvicinamento del nostro Paese a Pechino. Era il 14 ottobre 2014, quando l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, accolse a Palazzo Chigi il premier cinese, Li Keqiang: furono firmati 20 accordi da 8 miliardi di euro. Il 5 maggio 2016, fu il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, a essere ricevuto a Palazzo Chigi. Nell’occasione, una nota del governo cinese recitava: «La Cina apprezza il supporto attivo e la partecipazione della parte italiana alla costruzione dell’iniziativa Belt and Road ed è disposta, insieme all’Italia, a portare avanti lo spirito della Via della Seta». La priorità in questo momento è decidere gli investimenti comuni, ma oggi si può considerare la «One belt one road come una grande opportunità proprio in questo senso», disse Renzi a Cctv, il 4 settembre dello stesso anno, a margine del G20 di Hangzhou. La linea filocinese non mutò con l’arrivo a Palazzo Chigi di Paolo Gentiloni, che, a maggio 2017 - quasi tre mesi dopo una visita ufficiale di Sergio Mattarella nella Repubblica popolare - partecipò (unico leader del G7) al Forum One belt one road a Pechino, affermando: «L’Italia può essere protagonista in questa grande operazione a cui la Cina tiene molto: per noi è una grande occasione e la mia presenza qui significa quanto la riteniamo importante». Fu quindi il Pd ad aprire la strada al memorandum sulla nuova Via della Seta, siglato a marzo 2019 dal governo gialloblù. A sostenere l’intesa fu la componente grillina di quell’esecutivo (che era maggioritaria), mentre per la firma Xi Jinping si recò a Roma, dove fu accolto con tutti gli onori al Quirinale. Il memorandum incontrò lo scetticismo della Lega, ma non quello di Enrico Letta, che sentenziò: «Non c’è alcuna contraddizione tra quello che sta facendo il governo italiano per penetrare i mercati asiatici con la nuova Via della Seta o con la prossima missione ad Hanoi per l’incontro Asean con le regole europee e la fedeltà agli Usa». Tra l’altro, la politica filocinese del Pd si è manifestata anche a livello europeo. Federica Mogherini, che è stata Alto rappresentante per gli affari esteri Ue dal 2014 al 2019, ha rafforzato i legami tra Bruxelles e Pechino, ricevendo a tal proposito parole di elogio dallo stesso Li Keqiang nell’ottobre 2019. Gentiloni fa invece parte dell’attuale Commissione europea, che siglò a dicembre 2020 il controverso accordo sugli investimenti con la Cina, mandando gli Usa su tutte le furie. E arriviamo alla nascita, nel settembre 2019, del governo giallorosso: l’esecutivo più filocinese della nostra storia. Fortemente voluto dal Quirinale, esso sorse grazie alla regia politica di un profilo non esattamente atlantista come quello di Goffredo Bettini. È evidente che - oltre al solito spauracchio dell’avanzata delle destre - l’unico fattore coesivo tra Pd e Movimento 5 stelle (due schieramenti che se ne erano dette di tutti i colori fino ad allora) era proprio la linea soft verso Pechino. Ricordiamo le visite di Beppe Grillo all’ambasciata cinese e il fatto che, a novembre 2019, Luigi Di Maio evitò di esporsi sulle proteste di Hong Kong, invocando una «non ingerenza nelle questioni di altri Paesi». Non a caso, fu con il governo giallorosso che l’Italia toccò uno dei punti più bassi nei suoi rapporti con Washington, allarmata per la stretta vicinanza del nostro Paese (e del Vaticano) a Pechino: basti pensare all’assai tesa visita romana dell’allora segretario di Stato americano, Mike Pompeo, nel settembre 2020: una tensione confermata alla Verità da Mary Kissel, Senior policy advisor presso Stephens Inc. e all’epoca fidata consigliera di Pompeo. «Vedevamo con preoccupazione la stretta relazione dell’Italia con la Cina comunista», ha detto. D’altronde era gennaio 2021, quando Giuseppe Conte professò, da premier, una sorta di equidistanza tra Usa e Cina, innescando notevoli polemiche. Ma la linea soft del Pd non è venuta meno neppure con il governo Draghi. L’anno scorso, la deputata dem Lia Quartapelle bloccò una risoluzione del collega leghista Paolo Formentini, che condannava la repressione cinese degli uiguri, parlando esplicitamente di »genocidio»: termine che la Quartapelle definì «improprio», nonostante sia stato usato dai Parlamenti di Francia e Gran Bretagna. Non solo. A marzo, sia Letta che la Quartapelle hanno invocato rispettivamente un «negoziato» e un «dialogo» con la Cina: posizione bizzarra, visto che il Dragone non ha mai preso le distanze dall’invasione russa dell’Ucraina e che, anzi, spalleggia Mosca all’Onu su tale dossier. Per non parlare del sostegno dem a misure ecologiste come lo stop della vendita di auto a benzina entro il 2035: un assist a Pechino in piena regola.Quella Pechino che non ha mai digerito l’esecutivo Draghi, non solo per il suo atlantismo, ma anche perché il Mise - guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti - ha spesso invocato il golden power per bloccare controverse acquisizioni industriali cinesi nel nostro Paese. A proposito: vi ricordate quando, a giugno 2021, Grillo incontrò l’ambasciatore cinese a Roma, mentre Draghi si trovava al summit del G7 in Cornovaglia? D’altronde sarà una coincidenza, ma la crisi di governo è stata innescata dalla mancata fiducia dei grillini - alleati allora del Pd - al dl Aiuti. Sarebbe pertanto il caso che, prima di dare lezioni di atlantismo e lanciare accuse di infiltrazioni a destra e a manca, qualcuno si facesse un esame di coscienza. Possibilmente molto approfondito.