Il Paese degli ayatollah è rimasto isolato. Pechino resta alla finestra

La guerra che Israele sta conducendo contro l’Iran è probabilmente mirata alla destabilizzazione di Teheran, oltre che alla più apparente ragione di annientarne le capacità nucleare. La parte militare al momento è gestita al 95% dall’Idf, ma il grosso si gioca sul terreno. Infiltrazioni dei servizi nel corso degli ultimi anni e sostegno dell’intelligence americana possono fare la differenza, soprattutto se la notizia che circola è vera: eliminare Khamenei e sostenere l’ammutinamento della polizia iraniana sostenuta da un gruppo di rivoltosi. Le incognite sono tante. Gli arsenali iraniani sono stati colpiti pesantemente, ma almeno un 50% è attivo. Inoltre, cosa grave, la capacità chimica del regime è intatta. Al momento sembra che le operazioni siano state autorizzate dai Paesi sostenitori (sicuramente Stati Uniti e Arabia Saudita) per due settimane. Basteranno? Quali saranno le perdite di Israele?
Nel frattempo però si apre un tema geopolitico a Est. Se il grosso del Medio Oriente è silenziosamente al fianco di Gerusalemme, le potenze asiatiche sono in attesa di capire che posizione prendere. A partire da Pakistan, Russia e soprattutto Cina. Già all’indomani del primo attacco israeliano, Islamabad si è subito schierata al fianco di Teheran. I motivi sono culturali ed economici. Oltre alla vicinanza al mondo sciita, il Pakistan ha grande dipendenza energetica dal Paese degli ayatollah. E le due aree stanno avviando investimenti infrastrutturali reciproci. Ma a spingere il Pakistan verso l’Iran è la storica collaborazione tra India e Israele. Dal punto di vista commerciale e della Difesa. Inoltre l’asse di Teheran con Islamabad punta a penetrare l’Afghanistan, dove anche New Delhi ha interessi. È chiaro che la prima ripercussione dell’attacco israeliano può essere la recrudescenza degli screzi tra i due grandi nemici India e Pakistan. Mentre è più complicato capire la posizione della Cina.
Ieri i vertici del Partito hanno invitato le parti a deporre le armi e lavorare per deescalare la situazione. Pechino nel 2021 ha chiuso un mega accordo con Teheran per circa 400 miliardi di investimenti da spalmare in 25 anni. Molti analisti hanno visto dietro l’accordo la possibilità di sviluppo congiunto del porto di Chabahar. Le ipotesi non sono state confermate. Un po’ perché la Via della seta al momento si è concentrata di più sul Pakistan e quindi gli investimenti effettivi cinesi in territorio iraniano si sono fermati a oggi alla cifra di 600 milioni. Poca cosa rispetto ai 22 miliardi che Pechino ha già scommesso sull’Arabia Saudita, principale avversario degli sciiti. Le somme stanziate sono molto più alte.
Negli ultimi anni i legami commerciali tra Riad e Pechino si sono consolidati e irrobustiti. Al punto di diventare una partnership strategica a tutti gli effetti. Al 2023, gli investimenti diretti totali delle aziende cinesi nel mercato in Arabia hanno raggiunto la quota di 2.481 miliardi di dollari, secondo i dati diffusi delle autorità saudite. L’ambasciatore Hua in una dichiarazione pubblicata datata lo scorso marzo ha sottolineato che «il volume del commercio bilaterale tra i due Paesi ha superato negli ultimi anni i 100 miliardi di dollari». Dal 2022, per la precisione, quando la cifra ha sfiorato i 120 miliardi, come ricordato sul Financial Times. Nell’ambito del programma Vision 2030, l’Arabia Saudita sta cercando di diversificare l’economia del Paese, slegandosi dalla dipendenza della produzione di petrolio.
Per farlo ha scelto di stringere partnership diverse con attori regionali e globali. Riad, tra le altre cose, ha puntato anche sulle energie rinnovabili e la Cina si è resa subito disponibile nel supportare questo processo. Dal 2021 a ottobre 2024, gli investimenti cinesi sul green, soprattutto per l’energia eolica e solare, hanno raggiunto i 21,6 miliardi di dollari in Arabia. Questo prima dell’arrivo di Donald Trump e del lancio del nuovo Patto di Abramo. Lo scorso maggio, la visita del presidente americano in Arabia Saudita e negli Emirati ha messo sul tavolo 60 miliardi Usa e Mohammed Bin Salman ha rilanciato con 600. Visto l’andazzo alla Cina converrebbe rinsaldare i rapporti con Riad ma lì troverà sicuramente la contraerea economica americana. D’altro canto Pechino sa bene che c’è il rischio che Khamenei esca di scena e quindi preferisce lasciare ai russi il ruolo di mediatore. Mosca ha solo recentemente stretto rapporti più saldi con Teheran, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e non ha particolari interessi che non possano essere sostituiti con i Paesi sciiti. Resta infine l’incognita di Recepp Tayyip Erdogan e del suo ministro degli Esteri Hakan Fidan. L’uomo prima di svolgere incarichi diplomatici è stato per oltre un decennio capo dell’intelligence turca. Ha costruito rapporti saldi con il generale Qasem Soleimani ucciso a Baghdad nel 2020 per mano americana. Ora ha sterzato la politica concentrandosi più su Siria e Iraq. Insomma, lo scenario complessivo è difficile da decifrare, ma al momento quello che appare certo è che nemmeno la Cina rischierà di sostenere economicamente gli ayatollah. I quali non hanno tante risorse a disposizione per resistere all’attacco israeliano. Le incognite militari restano elevate e la possibilità che Teheran reagisca con bombe sporche è sul tavolo. Ma sarebbe la mossa della disperazione finale.






