2024-01-31
«L’Ia può replicare il nostro timbro ma l’emozione arriva dai doppiatori»
Nel riquadro, Chiara Colizzi (IStock)
Chiara Colizzi, la voce italiana di Kidman e Winslet: «Gli algoritmi saranno economici e usati per fare prodotti in quantità. Ma per la qualità ci saremo sempre noi, come i ristoranti stellati. La fama? Con “Titanic” ho vinto facile...».Nell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma è stato presentato il documentario sul doppiaggio La voce senza volto di Filippo Soldi, prodotto da Jacopo Capanna. Tra i doppiatori intervistati spicca, per voce, volto e idee originali, Chiara Colizzi, a cui devono parte della loro notorietà in Italia Nicole Kidman, Kate Winslet, Emily Watson, Penélope Cruz, Jessica Chastain e Uma Thurman.Nel documentario lei afferma che il doppiaggio è un mestiere di traduzione e di tradizione. «Io penso che se riesci a non tradire le emozioni e a tradurle nella nostra lingua, anche nei nostri modi di dire, hai fatto un buon lavoro. Purtroppo si doppia tanta roba senza criterio perché è tradizione che si faccia. Ci stiamo trovando alle soglie di una nuova epoca in cui forse molta parte del nostro lavoro sarà sostituita dalla tecnologia, allora è il caso di porsi la domanda: che cosa facciamo fare all’intelligenza artificiale? Si dovrebbe ragionare di più su cosa è giusto tenere per noi e cosa invece abbandonare». Lei a cosa rinuncerebbe volentieri?«Personalmente ho scelto di non fare tante cose che i miei colleghi fanno, docu-fiction, docu-reality, edizioni straniere del Grande Fratello, dove non si doppiano attori. Quei prodotti non vanno considerati doppiaggio».Quindi limiterebbe l’attività ai film e alle serie televisive?«Per chi inizia questo lavoro può essere una palestra, ma io che ho avuto la fortuna di avere dato la voce a quasi 50 film di Nicole Kidman e a 40 di Kate Winslet, non posso andare a fare questa roba! Mi chiamerebbero, non è che si pongono problema, ma non per pagarmi di più o per dare lustro al prodotto, ma solo perché sono rapida e lo farei velocemente. Se una voce legata a un attore importante, la senti fare una cosa di quart’ordine, crolla tutto».I suoi colleghi come la prendono?«Quando dico queste cose mi danno tutti ragione, però di fatto non è così. Qualcuno mi ha detto: “Ma io mi diverto a fare quelle cose!”. Va bene, però non venirmi a dire che il problema è l’intelligenza artificiale. Il punto centrale è che il cinema in generale è un mestiere in cui la tecnologia rappresenta il cinquanta per cento. Chiediamo del tempo per far bene un lavoro e poi il film va a finire su un cellulare con la possibilità di vederlo velocizzato».Come cerca di tutelarsi?«Mi sono posta il problema dell’intelligenza artificiale quando eravamo in pandemia e ho capito che strada avrei preso, completamente diversa da quella dei miei colleghi. Se esiste qualcosa che riuscirà a sostituirci, dobbiamo tutelare le cose che abbiamo fatto e impedire che sia utilizzata la nostra voce, anche alterandola, tenuto presente che abbiamo firmato delle liberatorie con le quali in passato abbiamo ceduto tutto. Non vorrei un domani entrare in farmacia e sentire la numerazione scandita con la mia voce! Mi sono fatta campionare e ho firmato un contratto con una società che ha un software con la mia voce che fa solo quello che io non ho intenzione di fare perché non è né cinema né televisione. Infatti l’unica cosa per la quale è stata utilizzata la mia voce campionata è un lavoro per la Treccani che non avrei mai fatto».E com’è venuto il risultato?«Io capisco che non sono io, anche se è fatto bene».Arriveremo al punto in cui potremmo sentire un attore straniero recitare con la sua voce in italiano grazie all’intelligenza artificiale?«A Tel Aviv stanno lavorando proprio su un software di questo tipo».È spaventata?«No, sono spaventata dalla paura che hanno gli altri. Mi sono sempre resa conto che la parte artistica del mio lavoro è in sala. Lì si crea il momento della magia. Una volta incisa la voce, non è più arte, non è più teatro, non stai più vedendo sangue, carne, sudore, è finito tutto. Le piattaforme, per un fatto economico, utilizzeranno le voci campionate, quando il meccanismo diventerà più rapido e a costi limitati, però al cinema il pubblico vorrà sentire una voce vera e a quel punto io potrò dire: “Noi siamo un ristorante stellato e costeremo come un ristorante stellato”, quindi non ho paura. Difendiamo veramente il cinema e un certo modo di lavorare, spazzando via la quantità e puntando sulla vera qualità. Solo così possiamo ambire a un discorso economico e a non perderci totalmente».Quando vede un film o una serie straniera, preferisce la versione originale o con i sottotitoli ?«Tante serie preferisco vederle in lingua originale, oltretutto imparo di più in questo modo. Forse per questo sono un’amante del cinema italiano: posso vedere un film senza pensare al lavoro!».All’inizio voleva fare l’attrice o è stata colpita subito dal doppiaggio?«Quando da ragazzina, mentre stavo per finire il liceo, ho osato pensare: “Potrei fare l’Accademia nazionale d’arte drammatica…”, mio padre, l’attore e doppiatore Pino Colizzi, non credeva più che in accademia si potesse studiare bene. Mi ha detto: “Se tu vuoi fare l’attrice, allora mi occupo io di te. Non esiste più che esci, che vai a sciare…”. Io facevo gare di sci, sono poi diventata anche maestra di sci, quindi mi ha messo talmente tanti divieti che ho detto: “Ma chi se ne importa!”. Così non ho mai fatto una scuola di recitazione. Ho iniziato a fare dei turni di doppiaggio perché era costume vedere come funzionano i figli d’arte e per fortuna funzionavo».E poi?«Ho scelto di andare a vivere da sola a 24 anni, a quel punto mi è servito di lavorare di più, ho iniziato a girare per farmi vedere nelle sale di doppiaggio ed è diventato il mio lavoro. Poi sono stata fortunata perché ho vinto provini per film importanti».Per esempio?«Fino a quando ho fatto il Titanic, quando dicevo che lavoro facessi, mi chiedevano: “Ma che cosa doppi?”. E io: “Hai visto quel film?”. Con Titanic vincevo facile!».Il film di James Cameron era entrato nel cuore di tutti...«Quello stesso anno è nato mio figlio, quindi non me la sono goduta fino in fondo. Un altro momento cruciale della mia vita è quando ho doppiato nel 1996 Emily Watson per Le onde del destino. Da quel momento lì, e soprattutto dopo aver doppiato Nicole Kidman in The Others nel 2001, ho dato una direzione diversa alla mia carriera. Ho cominciato a dire tanti no. Non volevo lavorare tutto il giorno e volevo avere tempo per mio figlio. Ho fatto delle scelte di qualità, selezionando le proposte anche da un punto di vista morale, stando tanto tempo ferma a casa pur di poter dire: “Questa cosa non la voglio fare”». Ormai queste grandi attrici si identificano con la sua voce.«Far doppiare oggi Nicole Kidman o Kate Winslet da un’altra sarebbe una bella porcata, ma potrebbe succedere. Per la serie Nine Perfect Strangers, con la Kidman, mi hanno chiesto i provini. Io non volevo perché mio padre mi ha insegnato che “quando ti chiamano a fare un provino per un’attrice che doppi da sempre, è perché vogliono fartela perdere”. Poi mi hanno detto: “Sono cambiate le cose, chi se ne occupa non sa”, però avere alle spalle 47 film della Kidman e andare a fare un provino è vergognoso, secondo me».Hai mai incontrato queste grandi star?«No, non sono neanche una che farebbe carte false per incontrarle, però mi piacerebbe essere amica di Kate Winslet, mi trovo molto in sintonia con lei». Hai doppiato anche Uma Thurman in Kill Bill…«Altra botta di fortuna, anche se pure lì ho fatto un provino: sono stata fortunata, ma anche sfacciata. I provini li facevano in piena estate, io ero in vacanza e, non essendo una che fa molte vacanze, quando mi chiamarono, dissi: “No, non torno”. “Ah, la tua collega ha preso un aereo ed è tornata”. Siccome sapevo che la Thurman era stata aspettata da Tarantino perché tornasse in forma dopo la gravidanza, feci una battuta al direttore della società che mi aveva chiamata: “Lui ha aspettato lei per mesi, tu non puoi aspettare una settimana?” e mi trattò come fossi scema. Quando tornai dopo una settimana, feci il provino e andò bene. Ho osato».Le è capitato di doppiare attrici italiane…«Adesso non lo farei più, anche perché non è più tanto di moda. Mia madre Manuela Andrei ha doppiato Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene, ma allora si usava, adesso no. Pensa che in un film di Giovanni Veronesi, Il mio West, doppiai Alessia Marcuzzi, che poi però si ridoppiò da sola. Era talmente conosciuta che stonava con un’altra voce».Nel documentario afferma che il lavoro era più bello quando eravate nell’ombra. «Era una cosa magica. Quando In cantando sotto la pioggia, cade il sipario e si vede il trucco, la reazione è: “Aaahhh!”. Poi ridi e non sei più affascinato. Aver fatto vedere come funziona il doppiaggio, ha spinto tanti a credere di poterlo fare, magari a casa, ma i risultati spesso sono imbarazzanti. Vai sulle pagine social e tutti si definiscono «attore-doppiatore». Speriamo che le prossime generazioni possano prendere una distanza da queste cose o avere la chiave per riuscire a leggerle. Un testo scritto da ChatGpt lo sapranno riconoscere, rispetto a noi che siamo cresciuti con i dizionari e senza tecnologia. Bei tempi, anche se non vorrei passare per nostalgica».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.