
«Repubblica» delira: Matteo Salvini è un barbaro perché frequenta i cittadini. Per il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ascoltare gli elettori significa «privilegiare l'ignoranza». Ma se incontrare le persone normali è populismo si fa largo una strana idea di democrazia.Barbari? Davvero? È da barbari andare in mezzo alla gente? Parlare con gli elettori? Incontrare persone comuni anziché gli uscieri in livrea di palazzo Giustiniani? Davvero si può arrivare a pensare che sia una «democrazia mutilata» quella che sente il dovere di immergersi nella folla anziché negli stucchi e negli arazzi del Senato? Davvero si può considerare uno «schiaffo alle istituzioni» mantenere fede ai propri impegni sul territorio? Davvero è «privilegiare l'ignoranza» andare a sentire i problemi dei disoccupati dell'Auchan? È populismo? «Atto di rottura»? Addirittura «propaganda della destabilizzazione»? Cioè un'operazione sovversiva? Ma davvero a questo siamo arrivati? Uscire dalle stanze del Palazzo e incontrare le persone normali è diventata un'operazione sovversiva? Un'azione da barbari? Se è così, allora noi non possiamo che gridare: «Viva i barbari», come faceva tanti anni fa Giorgio Bocca sulla prima pagina di Repubblica. Oggi invece il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e affondato da Mario Calabresi riporta un editoriale (firma Claudio Tito) assai diverso. Al «barbaro» Matteo Salvini non viene riservato nessun ringraziamento, nessun apprezzamento. Anzi egli viene impalato per aver osato disertare l'appuntamento istituzionale con il presidente incaricato Maria Elisabetta Alberti Casellati, preferendo invece mantenere fede ai suoi precedenti impegni con i cittadini della Sicilia. Tanto basta al Tito senza stagno per sparare piombo tipografico ad alzo zero contro il leader della Lega, a suo dire colpevole di aver infranto le regole e, di conseguenza, di aver attentato alla democrazia e alla vita stessa delle istituzioni. Niente di meno. A giudicare dal tono veemente, il commentatore di Repubblica non ha imputato a Salvini il ratto delle Sabine e lo stupro di Santa Maria Goretti solo perché, a un certo punto, lo spazio in pagina è finito. Ma non è esclusa la seconda puntata. Noi ovviamente la aspettiamo con ansia. Anche se, dobbiamo confessare, fra le foto delle delegazioni incravattate e imbalsamate sui divani damascati del Senato e i selfie un po' surreali di Salvini in tour siciliano continuiamo a preferire i secondi. Sappiamo che è grave, ma confessiamo la nostra colpa. E anche se siamo convinti che dietro quei selfie ci siano ascelle pezzate e aliti pesanti, anche se sentiamo da lontano l'odore acre della folla e di quelle mani sudate da stringere, pensiamo che ci sia meno puzza là in mezzo che nelle stanze eleganti del Palazzo, dove tutto è perfetto, tutto è lindo, tutto è pulito e impeccabile come la divisa dei commessi. Ma inevitabilmente sterile. Che ci volete fare? Siamo rimasti fra i pochi convinti che insulti la democrazia chi trascura i cittadini e non li ascolta. Non viceversa. Ma si capisce, si tratta di un'idea bizzarra... Perché l'idea giusta, quella politicamente corretta, quella che va forte sul giornalone che piace alla gente che piace, è esattamente l'opposta. E cioè: andare in mezzo alla gente è un insulto alla democrazia. Proprio così. Ne deriva, di conseguenza, che per rispettare la democrazia bisogna soltanto sottomettersi ai riti di palazzo, alle sfilate davanti ai microfoni, alla foto davanti al caminetto, alla discussione ambarabaciccicoccò tre civette sul comò, tiritiri trullalà trottolino amoroso dudududadada, «nella misura in cui», «bisogna verificare le condizioni per», «tenendo presente le prerogative del». Ecco tutto questo è democrazia. Invece andare a parlare con chi rischia di perdere il posto di lavoro è un terribile schiaffo alle istituzioni. Pensano così. E lo teorizzano anche. Poi si chiedono: ma come mai i cittadini non ci votano? In effetti: chissà come mai. Peraltro all'incontro con la Casellati (forma abbreviata) Salvini non ha mandato la colf o il pescivendolo: ci sono andati i capigruppo alla Camera e al Senato. E la medesima Repubblica, peraltro, nei giorni scorsi aveva spinto perché Silvio Berlusconi non si presentasse alle consultazioni al Quirinale, lasciando spazio ai suoi capogruppo. Dunque: se Berlusconi non si presenta alle consultazioni al Quirinale con il presidente della Repubblica è cosa buona e giusta, mentre se Salvini non si presenta alle consultazioni con la presidente del Senato è un'offesa tremenda alla democrazia? Nel primo caso i capigruppo sono i benvenuti, nel secondo sono insufficienti? E perché? Dove sta la logica? Si è persa assieme alle mezze stagioni? Ah, signora mia: non ci sono più i lamponi di una volta. E anche le meningi paiono un po' appassite. «Il populismo nostrano ha bisogno di stare fuori dalle istituzioni per essere credibile», sentenzia Tito. Come se l'unico modo per essere sinceramente democratici fosse rinchiudersi nelle stanze a parlarsi addosso. Come se ogni uscita dal circolo vizioso delle parole in salotto fosse un pericoloso scivolamento nella deriva populista, e dunque un tradimento della democrazia, roba da barbari, per l'appunto. Non è che Salvini rifiuti di partecipare a trattative, incontri, consultazioni. Ci è sempre andato, persino con la cravatta d'ordinanza che pure non gli sta nemmeno tanto bene e la camicia bianca (chissà se stirata dalla Isoardi). Ma forse pensa che non si possa esaurire tutto lì. Pensa che dentro quelle stanze con gli arazzi bisogna portarci non veti, tatticismi, trucchetti, infingimenti e artifizi vari, ma piuttosto un pezzo di Paese reale. Quello della gente che puzza, che ha le dentiere che perdono i pezzi (e magari neanche i soldi per cambiarle) e le mani piene di calli perché lavora da una vita e non ha mai visto una livrea, al massimo pensa che sia la crema nutriente della réclame in tv. Ascoltare costoro, anziché sedersi per una delle tante consultazioni, è un'offesa alla democrazia? Allora si capisce perché la democrazia muore. E l'unica speranza per salvarla sono proprio i barbari, come scriveva Bocca tanti anni fa.
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Tra le carte dell’inchiesta sull’eredità Agnelli emerge una bozza di atto notarile del 14 novembre 2000 con cui l’Avvocato avrebbe donato al figlio Edoardo la nuda proprietà del 25% della Dicembre, la holding di famiglia. Meno di 24 ore dopo, la tragedia.
Al link qui sotto è possibile scaricare e consultare il documento integrale. Domani in edicola il racconto completo dei misteri dell'eredità contesa della famiglia Agnelli.
1 Bozza Atto di Donazione quote Dicembre da Gianni a Edoardo.pdf
Alberto Virgolino (iStock)
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