2020-08-03
Marco Bonometti: «C’è un sentimento di invidia e odio contro la Lombardia»
Il leader confindustriale torna a parlare dopo le minacce: «Pare ci sia un disegno politico. L'epidemia è stata strumentalizzata».«Tutti sono d'accordo sulle cose da fare: ma al dunque nessuno si assume la responsabilità di farle». Torna a parlare il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti, dopo i messaggi di minacce e una busta contenente un proiettile ricevuti nelle scorse settimane: intimidazioni forse legate alla gestione dell'emergenza coronavirus. Nel merito della vicenda, su cui sta indagando la Procura di Brescia, Bonometti, oggi sotto scorta, preferisce non intervenire. Al centro dei suoi pensieri, la ripartenza economica: «Percepisco un sentimento di odio contro la Lombardia, forse c'è addirittura un disegno contro questa regione». Presidente, cominciamo dai dati: a livello nazionale il Paese ha perso il 12,4 per cento del Pil nel secondo trimestre, ai minimi dal 1995. Quanto è buia la notte nella regione più colpita dal Coronavirus?«Nel secondo trimestre 2020 si è verificato il tracollo della produzione industriale in Lombardia, con un calo del 20,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Nonostante le progressive riaperture di maggio e giugno, in termini di fatturato siamo a meno 19 per cento, in termini di ordini a meno 22 per cento. È un contraccolpo senza precedenti, che riguarda le imprese di tutte le dimensioni e di tutti i settori». Cosa dobbiamo aspettarci in autunno? «Sarà molto difficile. Non ci sono prospettive, non c'è fiducia, non ci sono progetti. La mia ricetta è: mercato e competitività. E per essere competitivi, occorre ridurre i costi del sistema».L'occupazione regge?«Quella è l'unica che tiene, grazie alla cassa integrazione. Che però non rappresenta la soluzione del problema, ma solo un rimedio transitorio. Dobbiamo generare lavoro, ma su questo versante non vedo ancora un'assunzione di responsabilità da parte del governo. Come ha dichiarato di recente Carlo Bonomi, siamo ancora fermi alla Fase Uno».Mancano le idee?«Le diagnosi ci sono, anzi forse ce ne sono fin troppe. Cosa hanno prodotto, ad esempio, gli Stati generali? Bisognerebbe cominciare a parlare con i fatti. Ci è stato chiesto di fare delle proposte, che sono state portate al tavolo del premier Giuseppe Conte e dei ministri competenti. Manca il coraggio e la determinazione di decidere cosa fare, decidere chi fa cosa, decidere quali siano le priorità. Confindustria Lombardia è pronta a dare il suo contributo al fine di lavorare per una ripresa vera. Ma finora abbiamo sentito solo parole al vento». Intanto è stato prorogato lo stato d'emergenza con esigenze «amministrative». «Un pessimo messaggio all'estero. Diamo l'idea di un governo che galleggia sull'emergenza senza essere in grado di risolvere i problemi reali. Si assiste a provvedimenti spot, che distruggono risorse anziché impostare progetti, che allontanano gli investimenti e sconcertano gli stranieri, come il blocco dei licenziamenti e la proroga dei contratti a tempo determinato».La difesa dei posti di lavoro non dovrebbe essere una priorità? «Prima creiamo il lavoro, e poi parliamo di rinnovi dei contratti, come chiedono i sindacati. Vista l'impossibilità di fare previsioni sull'andamento dei settori produttivi, auspichiamo il rinvio del rinnovo dei contratti collettivi nazionali, e il ripristino dei meccanismi di flessibilità dei contratti a termine». Quindi meglio sacrificare posti di lavoro che far chiudere intere aziende? «Non sacrificare, ma riconvertire i posti di lavoro verso i settori ancora trainanti. Bisogna far partire le politiche attive per riqualificare i lavoratori. Facendo leva ad esempio sull'assegno di ricollocazione, anziché ricorrere ai sussidi». È sempre del parere che l'Irap andrebbe abolita?«La pressione fiscale sulle imprese è altissima. Togliere l'Irap potrebbe essere un modo per dare maggiore competitività alle aziende nei confronti dei competitor europei ed extra europei». Ma come fa lo Stato a finanziarsi senza tasse?«Oggi con tutti questi sussidi assistenziali non abbiamo fatto altro che sprecare risorse. Piuttosto concentriamole sugli investimenti produttivi. Se le imprese ripartono, cresce anche il gettito statale». Teme gli aiuti a pioggia? «Il ricorso alla cassa integrazione, pur necessario nell'immediato, e poi il blocco dei licenziamenti, i bonus: sono tutti palliativi, come il reddito di cittadinanza e quota 100. Non servono a invertire la rotta della crisi, ma a procrastinare le decisioni. Finora si è preferito usare i 100 miliardi di scostamento di bilancio in misure assistenziali. Prima o poi le risorse finiranno. E se non si produce ricchezza l'alternativa è il default». Il default? «Se crollano le entrate dei privati, che si stanno sacrificando da 6 mesi, salteranno pensioni e stipendi pubblici». I sussidi alimentano il consenso della politica?«Non vorrei che anche la crisi sociale venisse cavalcata dai partiti per approfittare della confusione, con l'obiettivo di portare a casa qualche voto in più. Prendiamo l'idea della semplificazione burocratica: a parole, tutti vorrebbero realizzarla. Tra l'altro non costerebbe nulla. Ma nessuno vuole rinunciare alla sua fetta di consenso». Pietro Ichino pensa che la cassa integrazione andrebbe applicata anche ai dipendenti pubblici. Vede una disparità pubblico/privato?«Certo, ho più volte sollevato il problema: nella crisi i più penalizzati sono i lavoratori del privato. Nel pubblico non c'è nessun problema: molti non lavorano e prendono egualmente lo stipendio». Anche lei pensa che molti lavoratori del pubblico siano pagati per andare al mare? «Di per sé lo smartworking è un'opportunità per diffondere l'utilizzo del digitale e delle nuove tecnologie in attività che prima del lockdown erano impensabili. Però non deve diventare una scorciatoia per la difesa di interessi di parte, o per difendere qualcuno. E comunque non può essere la regola». Cioè?«Se la forza di un'azienda è il lavoro di squadra e l'interazione tra i dipendenti, non si può pensare di sostituire la produzione con lo smartworking. Anche su questo tema, ogni tanto avverto troppa demagogia. Temo sia uno di quei classici strumenti usati per scambi elettorali, per ottenere consenso». Come spenderebbe i soldi del Recovery fund?«Guardi, Confindustria lo ripete da tempo: dobbiamo sostenere la domanda interna con stimoli importanti. In aggiunta, serve un piano di politica industriale a sostegno dei settori strategici, tenendo presente che non possiamo intervenire su tutto. La Francia sull'automotive ha varato un grande piano di rilancio: in Italia ci siamo occupati di biciclette e monopattini». Ogni scelta andrà comunque concordata?«Le scelte sulla destinazione delle risorse del Recovery Fund dovranno certamente coinvolgere le Regioni. Solo con un confronto costante con le forze vive, a cominciare dalle imprese che rappresentano il motore dello sviluppo, potremo generare ricchezza da distribuire». Avverte in questi mesi un clima di ostilità contro la Lombardia? «La Lombardia è oggetto di invidie e di odio, nonostante venga presa ad esempio dai miei colleghi imprenditori». Oggetto di invidie in Italia o all'estero?«In Italia. Anche perché, per l'estero, l'Italia è la Lombardia». Perché parla di odio?«È come se ci fosse un disegno politico contro questa regione. Lo si è visto anche nella discussione sull'autonomia, una riforma che nella mia visione andrebbe a rafforzare anche le altre regioni. Non si tratta certo di andare contro l'unità nazionale, bensì di rafforzare le eccellenze che vanno difese: se non le fai progredire, spariscono». Il virus ha alimentato queste cosiddette «invidie»?«Se il Covid avesse colpito altre regioni, sarebbero stati dolori. Temo che anche l'epidemia sia stata strumentalizzata politicamente ai danni della Lombardia. Una cosa che ho sempre ripetuto ai vari presidenti del consiglio è questa: o affrontiamo il tema della riforma della giustizia, o l'Italia resterà sempre ferma al palo».Perché pensa proprio alla giustizia? «Ormai è la magistratura a decidere chi fa che cosa. Questo Paese non potrà essere governato se prima non si fa chiarezza, cambiando e semplificando le regole. Le lentezze della giustizia, poi, impattano sulla vita delle aziende: occorre intervenire sui tempi lunghissimi dei processi, che spesso impediscono alle imprese di cogliere le giuste occasioni per essere più competitive».