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2018-10-30
Scempio di Desirée. Ora Boldrini & C. fanno le vittime
e minacciano querele
ANSA
Ah, che sollievo. Meno male che, fra i vari, odiosi personaggi responsabili del massacro di Desirée c'è pure un italiano. Fortuna che - pare - gli inquirenti cercano anche uno spacciatore di nome Marco. I progressisti italici, di fronte a questa indiscrezione trapelata nei giorni scorsi, hanno tirato un sospiro rinfrancante. In questo caso, nei titoli di quotidiani, giornali online e telegiornali, la nazionalità è stata messa bene in evidenza. Eppure, quando si è trattato di parlare degli immigrati coinvolti, abbiamo assistito alla fiera della reticenza. I cronisti citavano un generico «branco», chiamavano in causa violenti senza nome e senza patria. Specificare nei titoli che c'erano di mezzo stranieri - per di più clandestini, tra cui alcuni già titolari di permesso umanitario - avrebbe senz'altro tirato la volata a Matteo Salvini e ai populisti, dunque bisognava andarci cauti. Solo dopo qualche giorno, con molta difficoltà, i giornalisti si sono dovuti arrendere all'evidenza, e ammettere che, sì, in effetti c'entravano degli africani.
Poi, finalmente, è saltato fuori l'italiano. La presenza di quest'uomo (ancora ricercato) si è rivelata provvidenziale. Ora, nei dibattiti televisivi, il progressista umanitario potrà teorizzare che la violenza non ha colore, che l'immigrazione non c'entra nulla con il bestiale macello della povera sedicenne. Del resto, è l'obiezione che si sente avanzare ogni volta che si snocciolano dati. Per esempio, quando si fa notare che, nel nostro Paese, gli stranieri commettono circa il 40% degli stupri, immediatamente che salta fuori l'omino con il ditino alzato a precisare: «Gli italiani commettono la maggioranza delle violenze!». Certo, ed è abbastanza ovvio, visto che ci troviamo in Italia. Il punto è che, percentualmente, gli immigrati delinquono molto di più, soprattutto se sono irregolari.
Che esistano anche belve italiane nessuno lo mette in dubbio. Ma per i delinquenti nostri connazionali - giustamente - non ci sono attenuanti, su di loro non ci sono reticenze né omissioni. Sugli altri, invece, cala sempre una cortina di silenzio omertoso. Il caso di San Lorenzo, in questo senso, risulta emblematico. Da quando questa storia orrenda è stata svelata, sembra ci sia una gara a mistificare. Pur di non chiamare in causa i danni prodotti dall'invasione senza controllo, i commentatori e i politici di sinistra hanno scaricato fango a profusione. C'è chi ha descritto Desirée come una tossica, chi ha precisato che era figlia di uno spacciatore. Danno la colpa a lei, alla sua famiglia, alle sue amiche, alla generica violenza maschile, allo spacciatore italiano, perfino a Salvini e alla Raggi, indicati come colpevoli del degrado romano.
Intendiamoci: le responsabilità sono molteplici e diffuse. Non è solo «colpa degli africani». Ma è possibile che, fra i tanti personaggi sulla scena, lo Straniero ne esca sempre assolto? Qui non si tratta di dipingere - per ideologia - gli immigrati come mostri. No, affatto. Si tratta, però, di fare chiarezza e di dire le cose come stanno. I criminali sono criminali, a prescindere dalla nazionalità. Tuttavia, nella vicenda di Desirée, l'immigrazione resta un elemento centrale. Assieme alla droga, ovviamente, e pure alla fragilità della famiglia che emerge prepotente dalla vicenda.
Tutti questi elementi sono collegati e - come abbiamo scritto nei giorni scorsi - hanno mandanti morali precisi. Cioè i progressisti che, per decenni, hanno propagandato l'accoglienza sregolata, la liberalizzazione delle droghe, la morte della famiglia. Questo, però, non si può dire, perché altrimenti si viene accusati di razzismo o di fascismo.
La cosa giusta da dire è quella che ha scritto ieri su Repubblica Eugenio Scalfari, e cioè che la «sicurezza» è, in realtà, un tema «di sinistra». Certo, come no. Infatti i vari politici e intellettuali «di sinistra» che incensano Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, come un eroe della «resistenza civile» lo fanno perché interessati alla sicurezza. Ma per favore.
Sapete quando si preoccupano del rispetto delle leggi, gli amici progressisti? Quando le leggi devono proteggere loro. Prendiamo Laura Boldrini, ad esempio. Era in prima fila, a Riace, a tifare per Lucano agli arresti domiciliari. Ha difeso le Ong (i taxi del Mediterraneo) ogni volta che qualche ministro provava a fermare il traffico in mare. In quel caso, la legge era oppressiva, fascista. Adesso, però, la signora minaccia di querelare i giornali che, scrive, «hanno associato il mio nome al delitto che si è consumato nel quartiere di San Lorenzo a Roma». Chiaro, no? Se sfiora Lucano, la legge è crudele. Se serve a zittire i cronisti sgraditi, allora va benissimo.
Lo stesso vale per gli attivisti pro migranti di Baobab, quelli che accompagnavano gli sbarcati dalla Diciotti in giro per l'Italia con il bus. Minacciano azioni legali contro il sottoscritto, colpevole di aver detto in tv che lorsignori forniscono appoggio ai migranti, anche clandestini, che circolano per Roma.
Funziona così: la legge vale quando fa comodo. Vale un po' meno quando di mezzo ci sono i migranti, anche se spacciano, stuprano o uccidono.
Francesco Borgonovo
Si allunga la lista dei macellai di Desirée Caccia a tre tunisini
In un primo momento erano stati indicati in modo generico. Ora, grazie al lavoro investigativo della Squadra mobile, i tre «arabi» presenti sulla scena del crimine non sono più soltanto ombre. Con molta probabilità si tratta di tre tunisini: Koffy, Hytem e Samir. Il primo, stando al racconto dei testimoni, avrebbe partecipato allo stupro della piccola Desirée Mariottini (i cui funerali si terranno oggi alle 15.30 a Cisterna di Latina nella chiesa di San Valentino). Il secondo ha chiamato la ragazza che ha rivestito la vittima e, insieme ad essa, ha spostato il corpo (modificando, quindi, la scena del crimine). Il terzo tunisino avrebbe ceduto droga a Desirée in cambio di sesso ma - stando alle testimonianze - non era presente quando la piccola è morta.
Il ruolo del trio sulla scena del crimine - un palazzo occupato a via dei Lucani a Roma, quartiere San Lorenzo - è ancora tutto da chiarire. Per questo motivo, gli extracomunitari sono ricercati.
Sembra non giungere mai a una fine l'elenco di sbandati che si aggiravano attorno a Desirée nella sua ultima notte di vita, quando è stata drogata e stuprata da vari individui per 12 ore. Fin qui sono stati fermati quattro clandestini africani: Chima Alinno, nigeriano, 46 anni, noto negli ambienti dello spaccio con il nome Sisko; i senegalesi Mamadou Gara detto Paco, 27 anni, e Brian Minteh, 43 anni; il ganese Yusif Salia, 32 anni, scovato dopo una fuga da Roma nella baraccopoli di Borgo Mezzanone (Foggia). Quest'ultimo ieri non si è presentato all'interrogatorio davanti al gip perché è malato di scabbia. Gli investigatori ritengono di non aver ricostruito fino in fondo ciò che è accaduto la sera della mattanza. E mentre stanno cercando di rintracciare anche un certo Marco, spacciatore italiano che frequentava il palazzo (e che con molta probabilità ha fornito il mix di droghe letali), la caccia ai tre tunisini si è arricchita di nuovi particolari. Si tratta di un lavoro certosini: i testimoni principali del fatto sono quasi tutti tossicodipendenti, perciò ogni dichiarazione viene controllata e ricontrollata più volte.
Per i quattro fermati l'accusa ipotizzata è di omicidio volontario, stupro di gruppo, produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope. Reati aggravati dall'aver agito con crudeltà e dal fatto che la vittima fosse minorenne e in condizioni di minorità psicofisica al momento dell'aggressione. Gli aguzzini hanno detto a Desirée che le stavano dando metadone. Invece le hanno iniettato un mix di medicinali per schizofrenia ed epilessia. La teeneger è caduta in stato catatonico e il branco ha abusato di lei senza pietà, per poi lasciarla morire.
Oltre all'esame tossicologico - del quale si attendono ulteriori risultati - sono in corso gli approfondimenti sulle tracce biologiche recuperate sui resti di Desirée durante l'autopsia eseguita dal medico legale Dino Tancredi, il primo a ipotizzare la violenza sessuale di gruppo. Comparando il Dna, si potrà capire quanti dei sospettati hanno avuto un ruolo attivo nello stupro di Desirée. Al momento sulla scena del crimine, stando a quanto sono riusciti a ricostruire gli investigatori della Squadra mobile e quelli del commissariato San Lorenzo, oltre ai tossicomani c'erano i quattro indagati africani, il pusher italiano e i tre tunisini ricercati. A svelare per prima la presenza dei nordafricani è stata Mauriel, 34 anni, eroinomane nata in Congo. Sentita negli uffici della questura, ha raccontato di aver conosciuto Desirée qualche giorno prima, proprio nello stabile occupato. La ragazza si era procurata un po' di eroina e - a sentire la testimone - cercava qualcuno che gliela sapesse iniettare. La volta successiva che l'ha vista, è stata l'ultima: la piccola era a terra, in fin di vita, con le gambe aperte. «Hytem mi ha invitata a seguirlo dicendomi che c'era una ragazza priva di conoscenza». È stata Mauriel a rimettere gli slip a Desirée e infilarle i pantaloni. Poi ha fatto sparire sia la siringa, sia la boccetta usata per mescolare la droga. Giovanna, napoletana senza fissa dimora di 32 anni, anche lei frequentatrice dello stabile di via dei Lucani, con la polizia cerca di alleggerire la posizione di Koffy, dicendo che non c'entra nulla e che era l'unico intenzionato a chiamare i soccorsi. Sostiene di aver saputo, però, «che anche un uomo nordafricano di nome Samir, la mattina del 17 o del 18 (Desirée è spirata nella notte tra il 18 e il 19 ottobre, ndr), ha avuto rapporti sessuali con la ragazza in cambio di droga». Poi c'è Noemi, 26 anni, giapponese disoccupata, ma con carta d'identità rilasciata dal Comune di Roma. Ha conosciuto Desirée nel palazzo occupato e, vedendola piccola e smarrita, s'è offerta di accompagnarla al Sert. Ma la ragazzina voleva restare lì. Cercava una dose «e dedicava le sue attenzioni solo a Samir». E infine tra i testimoni c'è Nasko, un bulgaro di 32 anni che vive dalle parti della stazione Termini. Anche lui parla di Koffy: «Era lui che vendeva la cocaina. Era quello che mentre Desirée si trovava all'interno con Sisko (uno dei quattro fermati, ndr) mi diceva di non entrare». In pratica, secondo questa ulteriore testimonianza, era il palo.
Ognuno dei testimoni, insieme a tanti particolari al momento non verificabili e a qualche piccola bugia, potrebbe aver fornito agli investigatori uno o più scampoli di verità. Resta da capire quali.
Fabio Amendolara
«Appena lei è morta hanno fatto i bagagli»
Spacciatori pericolosi, che potrebbero commettere altri reati simili e poi fuggire. Stando alle testimonianze di chi era presente nel palazzo occupato di via dei Lucani a Roma, quartiere San Lorenzo, è questo il quadro che emerge. Il gip del Tribunale di Roma, Maria Paola Tomaselli, mette quei racconti alla base del decreto con il quale ha convalidato il fermo per i primi tre africani ammanettati: Chima Alinno, nigeriano, 46 anni, noto negli ambienti dello spaccio con il nome Sisko, e i senegalesi Mamadou Gara detto Paco, 27 anni, e Brian Minteh, 43 anni. Secondo il giudice che li ha privati della libertà, i tre africani «possono reiterare», così come «possono fuggire dal territorio nazionale», perché non hanno un lavoro stabile e neanche famiglia. In più «sono dediti all'attività di commercio illecito di sostanze stupefacenti». Stando alle valutazioni del magistrato, «hanno dimostrato una elevatissima pericolosità, non avendo avuto alcuna remora a porre in essere condotte estremamente lesive in danno di una minorenne, giungendo al sacrificio del bene primario della vita».
La toga affibbia tre caratteristiche precise agli africani indagati per l'omicidio di Desirée Mariottini: «La pervicacia, la crudeltà e la disinvoltura» con le quali si sono mossi sulla scena del crimine. E tra i documenti a sostegno della misura cautelare ci sono soprattutto i verbali delle deposizioni dei tossicodipendenti che frequentavano gli indagati. Persone che - in quanto loro clienti - conoscevano bene i tre africani.
Il primo dei testimoni che ha fatto riferimento al pericolo di fuga è il senegalese che si è presentato in commissariato spontaneamente e ha trasformato quello che sembrava il caso di una vagabonda morta di overdose nel fascicolo su Desirée (la volante giunta sul posto inizialmente, difatti, aveva liquidato il ritrovamento senza segnalare i segni di violenza, per questo motivo le indagini hanno subìto uno stop di circa 36 ore). Il testimone ha 19 anni, risiede in provincia di Benevento ed era entrato nel palazzo trasformato in market della droga per tentare di recuperare il portafogli che gli avevano rubato poco prima. Un amico gli aveva indicato quello stabile diroccato come il posto in cui - con un po' di fortuna e tanto coraggio - avrebbe potuto recuperare almeno i documenti. Invece una volta dentro, poco dopo mezzanotte, il testimone ha sentito una ragazza urlare: «Voi l'avete uccisa, l'avete violentata». Ha visto entrare e uscire dalla stanza in cui è morta Desirée almeno otto persone (tra africani, arabi e ragazze italiane). Poco dopo - nello stesso verbale - ha specificato di aver visto alcuni di loro allontanarsi: «Uno portava una borsa in spalla, l'altro aveva con sé una valigia. Usciti da lì non li ho più visti». E infatti gli africani si erano già messi in fuga.
Una delle tossicodipendenti, frequentatrice assidua del market della droga, oltre a sottolineare la pericolosità degli spacciatori («Conosco tre cittadini africani, sono personaggi cattivi e molto pericolosi, poiché il loro stato di tossicodipendenza può influire sull'atteggiamento che hanno sulle altre persone che incontrano e con cui si relazionano»), ha dichiarato anche di aver saputo che Yusif, il ghanese stanato nella tendopoli di Borgo Mezzanone (Fg), «la notte stessa del decesso di Desirée si era recato alla stazione Termini, dove aveva preso il primo treno per Napoli». L'informazione è stata ritenuta da subito molto attendibile, perché Yousif Salia aveva vissuto a Napoli tra i richiedenti asilo. Poi - scaduto il permesso umanitario - si era trasferito a Roma ed era diventato uno dei tanti invisibili che vivevano nel tugurio di via dei Lucani.
Uno dei ragazzi stranieri dello stesso giro che frequentava Desirée, ha dichiarato di aver detto più volte all'adolescente di Cisterna di Latina «di non andare mai da sola in quel posto, perché era chiaramente pericoloso. C'erano tanti neri». Alcuni dei quali alla fine l'hanno uccisa.
Fabio Amendolara
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Oltre a tutti i sospettati stranieri, le autorità cercano anche un pusher di nome Marco: tanto è bastato ai progressisti per slegare lo scempio di San Lorenzo dalla questione immigrazione. E minacciare querele.I tre arabi avrebbero avuto vari ruoli nella mattanza: dallo spaccio al palo, allo stupro. Il ghanese già fermato ha la scabbia, niente interrogatorio. Oggi i funerali.Il testimone chiave: «C'erano 7-8 persone, poi la fuga». I frequentatori del palazzo: «Sono uomini pericolosi».Lo speciale contiene tre articoliAh, che sollievo. Meno male che, fra i vari, odiosi personaggi responsabili del massacro di Desirée c'è pure un italiano. Fortuna che - pare - gli inquirenti cercano anche uno spacciatore di nome Marco. I progressisti italici, di fronte a questa indiscrezione trapelata nei giorni scorsi, hanno tirato un sospiro rinfrancante. In questo caso, nei titoli di quotidiani, giornali online e telegiornali, la nazionalità è stata messa bene in evidenza. Eppure, quando si è trattato di parlare degli immigrati coinvolti, abbiamo assistito alla fiera della reticenza. I cronisti citavano un generico «branco», chiamavano in causa violenti senza nome e senza patria. Specificare nei titoli che c'erano di mezzo stranieri - per di più clandestini, tra cui alcuni già titolari di permesso umanitario - avrebbe senz'altro tirato la volata a Matteo Salvini e ai populisti, dunque bisognava andarci cauti. Solo dopo qualche giorno, con molta difficoltà, i giornalisti si sono dovuti arrendere all'evidenza, e ammettere che, sì, in effetti c'entravano degli africani.Poi, finalmente, è saltato fuori l'italiano. La presenza di quest'uomo (ancora ricercato) si è rivelata provvidenziale. Ora, nei dibattiti televisivi, il progressista umanitario potrà teorizzare che la violenza non ha colore, che l'immigrazione non c'entra nulla con il bestiale macello della povera sedicenne. Del resto, è l'obiezione che si sente avanzare ogni volta che si snocciolano dati. Per esempio, quando si fa notare che, nel nostro Paese, gli stranieri commettono circa il 40% degli stupri, immediatamente che salta fuori l'omino con il ditino alzato a precisare: «Gli italiani commettono la maggioranza delle violenze!». Certo, ed è abbastanza ovvio, visto che ci troviamo in Italia. Il punto è che, percentualmente, gli immigrati delinquono molto di più, soprattutto se sono irregolari.Che esistano anche belve italiane nessuno lo mette in dubbio. Ma per i delinquenti nostri connazionali - giustamente - non ci sono attenuanti, su di loro non ci sono reticenze né omissioni. Sugli altri, invece, cala sempre una cortina di silenzio omertoso. Il caso di San Lorenzo, in questo senso, risulta emblematico. Da quando questa storia orrenda è stata svelata, sembra ci sia una gara a mistificare. Pur di non chiamare in causa i danni prodotti dall'invasione senza controllo, i commentatori e i politici di sinistra hanno scaricato fango a profusione. C'è chi ha descritto Desirée come una tossica, chi ha precisato che era figlia di uno spacciatore. Danno la colpa a lei, alla sua famiglia, alle sue amiche, alla generica violenza maschile, allo spacciatore italiano, perfino a Salvini e alla Raggi, indicati come colpevoli del degrado romano. Intendiamoci: le responsabilità sono molteplici e diffuse. Non è solo «colpa degli africani». Ma è possibile che, fra i tanti personaggi sulla scena, lo Straniero ne esca sempre assolto? Qui non si tratta di dipingere - per ideologia - gli immigrati come mostri. No, affatto. Si tratta, però, di fare chiarezza e di dire le cose come stanno. I criminali sono criminali, a prescindere dalla nazionalità. Tuttavia, nella vicenda di Desirée, l'immigrazione resta un elemento centrale. Assieme alla droga, ovviamente, e pure alla fragilità della famiglia che emerge prepotente dalla vicenda. Tutti questi elementi sono collegati e - come abbiamo scritto nei giorni scorsi - hanno mandanti morali precisi. Cioè i progressisti che, per decenni, hanno propagandato l'accoglienza sregolata, la liberalizzazione delle droghe, la morte della famiglia. Questo, però, non si può dire, perché altrimenti si viene accusati di razzismo o di fascismo. La cosa giusta da dire è quella che ha scritto ieri su Repubblica Eugenio Scalfari, e cioè che la «sicurezza» è, in realtà, un tema «di sinistra». Certo, come no. Infatti i vari politici e intellettuali «di sinistra» che incensano Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, come un eroe della «resistenza civile» lo fanno perché interessati alla sicurezza. Ma per favore. Sapete quando si preoccupano del rispetto delle leggi, gli amici progressisti? Quando le leggi devono proteggere loro. Prendiamo Laura Boldrini, ad esempio. Era in prima fila, a Riace, a tifare per Lucano agli arresti domiciliari. Ha difeso le Ong (i taxi del Mediterraneo) ogni volta che qualche ministro provava a fermare il traffico in mare. In quel caso, la legge era oppressiva, fascista. Adesso, però, la signora minaccia di querelare i giornali che, scrive, «hanno associato il mio nome al delitto che si è consumato nel quartiere di San Lorenzo a Roma». Chiaro, no? Se sfiora Lucano, la legge è crudele. Se serve a zittire i cronisti sgraditi, allora va benissimo. Lo stesso vale per gli attivisti pro migranti di Baobab, quelli che accompagnavano gli sbarcati dalla Diciotti in giro per l'Italia con il bus. Minacciano azioni legali contro il sottoscritto, colpevole di aver detto in tv che lorsignori forniscono appoggio ai migranti, anche clandestini, che circolano per Roma. Funziona così: la legge vale quando fa comodo. Vale un po' meno quando di mezzo ci sono i migranti, anche se spacciano, stuprano o uccidono.Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ce-litaliano-la-sinistra-puo-sfogarsi-2616310891.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="si-allunga-la-lista-dei-macellai-di-desiree-caccia-a-tre-tunisini" data-post-id="2616310891" data-published-at="1765149973" data-use-pagination="False"> Si allunga la lista dei macellai di Desirée Caccia a tre tunisini In un primo momento erano stati indicati in modo generico. Ora, grazie al lavoro investigativo della Squadra mobile, i tre «arabi» presenti sulla scena del crimine non sono più soltanto ombre. Con molta probabilità si tratta di tre tunisini: Koffy, Hytem e Samir. Il primo, stando al racconto dei testimoni, avrebbe partecipato allo stupro della piccola Desirée Mariottini (i cui funerali si terranno oggi alle 15.30 a Cisterna di Latina nella chiesa di San Valentino). Il secondo ha chiamato la ragazza che ha rivestito la vittima e, insieme ad essa, ha spostato il corpo (modificando, quindi, la scena del crimine). Il terzo tunisino avrebbe ceduto droga a Desirée in cambio di sesso ma - stando alle testimonianze - non era presente quando la piccola è morta. Il ruolo del trio sulla scena del crimine - un palazzo occupato a via dei Lucani a Roma, quartiere San Lorenzo - è ancora tutto da chiarire. Per questo motivo, gli extracomunitari sono ricercati. Sembra non giungere mai a una fine l'elenco di sbandati che si aggiravano attorno a Desirée nella sua ultima notte di vita, quando è stata drogata e stuprata da vari individui per 12 ore. Fin qui sono stati fermati quattro clandestini africani: Chima Alinno, nigeriano, 46 anni, noto negli ambienti dello spaccio con il nome Sisko; i senegalesi Mamadou Gara detto Paco, 27 anni, e Brian Minteh, 43 anni; il ganese Yusif Salia, 32 anni, scovato dopo una fuga da Roma nella baraccopoli di Borgo Mezzanone (Foggia). Quest'ultimo ieri non si è presentato all'interrogatorio davanti al gip perché è malato di scabbia. Gli investigatori ritengono di non aver ricostruito fino in fondo ciò che è accaduto la sera della mattanza. E mentre stanno cercando di rintracciare anche un certo Marco, spacciatore italiano che frequentava il palazzo (e che con molta probabilità ha fornito il mix di droghe letali), la caccia ai tre tunisini si è arricchita di nuovi particolari. Si tratta di un lavoro certosini: i testimoni principali del fatto sono quasi tutti tossicodipendenti, perciò ogni dichiarazione viene controllata e ricontrollata più volte. Per i quattro fermati l'accusa ipotizzata è di omicidio volontario, stupro di gruppo, produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope. Reati aggravati dall'aver agito con crudeltà e dal fatto che la vittima fosse minorenne e in condizioni di minorità psicofisica al momento dell'aggressione. Gli aguzzini hanno detto a Desirée che le stavano dando metadone. Invece le hanno iniettato un mix di medicinali per schizofrenia ed epilessia. La teeneger è caduta in stato catatonico e il branco ha abusato di lei senza pietà, per poi lasciarla morire. Oltre all'esame tossicologico - del quale si attendono ulteriori risultati - sono in corso gli approfondimenti sulle tracce biologiche recuperate sui resti di Desirée durante l'autopsia eseguita dal medico legale Dino Tancredi, il primo a ipotizzare la violenza sessuale di gruppo. Comparando il Dna, si potrà capire quanti dei sospettati hanno avuto un ruolo attivo nello stupro di Desirée. Al momento sulla scena del crimine, stando a quanto sono riusciti a ricostruire gli investigatori della Squadra mobile e quelli del commissariato San Lorenzo, oltre ai tossicomani c'erano i quattro indagati africani, il pusher italiano e i tre tunisini ricercati. A svelare per prima la presenza dei nordafricani è stata Mauriel, 34 anni, eroinomane nata in Congo. Sentita negli uffici della questura, ha raccontato di aver conosciuto Desirée qualche giorno prima, proprio nello stabile occupato. La ragazza si era procurata un po' di eroina e - a sentire la testimone - cercava qualcuno che gliela sapesse iniettare. La volta successiva che l'ha vista, è stata l'ultima: la piccola era a terra, in fin di vita, con le gambe aperte. «Hytem mi ha invitata a seguirlo dicendomi che c'era una ragazza priva di conoscenza». È stata Mauriel a rimettere gli slip a Desirée e infilarle i pantaloni. Poi ha fatto sparire sia la siringa, sia la boccetta usata per mescolare la droga. Giovanna, napoletana senza fissa dimora di 32 anni, anche lei frequentatrice dello stabile di via dei Lucani, con la polizia cerca di alleggerire la posizione di Koffy, dicendo che non c'entra nulla e che era l'unico intenzionato a chiamare i soccorsi. Sostiene di aver saputo, però, «che anche un uomo nordafricano di nome Samir, la mattina del 17 o del 18 (Desirée è spirata nella notte tra il 18 e il 19 ottobre, ndr), ha avuto rapporti sessuali con la ragazza in cambio di droga». Poi c'è Noemi, 26 anni, giapponese disoccupata, ma con carta d'identità rilasciata dal Comune di Roma. Ha conosciuto Desirée nel palazzo occupato e, vedendola piccola e smarrita, s'è offerta di accompagnarla al Sert. Ma la ragazzina voleva restare lì. Cercava una dose «e dedicava le sue attenzioni solo a Samir». E infine tra i testimoni c'è Nasko, un bulgaro di 32 anni che vive dalle parti della stazione Termini. Anche lui parla di Koffy: «Era lui che vendeva la cocaina. Era quello che mentre Desirée si trovava all'interno con Sisko (uno dei quattro fermati, ndr) mi diceva di non entrare». In pratica, secondo questa ulteriore testimonianza, era il palo. Ognuno dei testimoni, insieme a tanti particolari al momento non verificabili e a qualche piccola bugia, potrebbe aver fornito agli investigatori uno o più scampoli di verità. Resta da capire quali. Fabio Amendolara <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ce-litaliano-la-sinistra-puo-sfogarsi-2616310891.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="appena-lei-e-morta-hanno-fatto-i-bagagli" data-post-id="2616310891" data-published-at="1765149973" data-use-pagination="False"> «Appena lei è morta hanno fatto i bagagli» Spacciatori pericolosi, che potrebbero commettere altri reati simili e poi fuggire. Stando alle testimonianze di chi era presente nel palazzo occupato di via dei Lucani a Roma, quartiere San Lorenzo, è questo il quadro che emerge. Il gip del Tribunale di Roma, Maria Paola Tomaselli, mette quei racconti alla base del decreto con il quale ha convalidato il fermo per i primi tre africani ammanettati: Chima Alinno, nigeriano, 46 anni, noto negli ambienti dello spaccio con il nome Sisko, e i senegalesi Mamadou Gara detto Paco, 27 anni, e Brian Minteh, 43 anni. Secondo il giudice che li ha privati della libertà, i tre africani «possono reiterare», così come «possono fuggire dal territorio nazionale», perché non hanno un lavoro stabile e neanche famiglia. In più «sono dediti all'attività di commercio illecito di sostanze stupefacenti». Stando alle valutazioni del magistrato, «hanno dimostrato una elevatissima pericolosità, non avendo avuto alcuna remora a porre in essere condotte estremamente lesive in danno di una minorenne, giungendo al sacrificio del bene primario della vita». La toga affibbia tre caratteristiche precise agli africani indagati per l'omicidio di Desirée Mariottini: «La pervicacia, la crudeltà e la disinvoltura» con le quali si sono mossi sulla scena del crimine. E tra i documenti a sostegno della misura cautelare ci sono soprattutto i verbali delle deposizioni dei tossicodipendenti che frequentavano gli indagati. Persone che - in quanto loro clienti - conoscevano bene i tre africani. Il primo dei testimoni che ha fatto riferimento al pericolo di fuga è il senegalese che si è presentato in commissariato spontaneamente e ha trasformato quello che sembrava il caso di una vagabonda morta di overdose nel fascicolo su Desirée (la volante giunta sul posto inizialmente, difatti, aveva liquidato il ritrovamento senza segnalare i segni di violenza, per questo motivo le indagini hanno subìto uno stop di circa 36 ore). Il testimone ha 19 anni, risiede in provincia di Benevento ed era entrato nel palazzo trasformato in market della droga per tentare di recuperare il portafogli che gli avevano rubato poco prima. Un amico gli aveva indicato quello stabile diroccato come il posto in cui - con un po' di fortuna e tanto coraggio - avrebbe potuto recuperare almeno i documenti. Invece una volta dentro, poco dopo mezzanotte, il testimone ha sentito una ragazza urlare: «Voi l'avete uccisa, l'avete violentata». Ha visto entrare e uscire dalla stanza in cui è morta Desirée almeno otto persone (tra africani, arabi e ragazze italiane). Poco dopo - nello stesso verbale - ha specificato di aver visto alcuni di loro allontanarsi: «Uno portava una borsa in spalla, l'altro aveva con sé una valigia. Usciti da lì non li ho più visti». E infatti gli africani si erano già messi in fuga. Una delle tossicodipendenti, frequentatrice assidua del market della droga, oltre a sottolineare la pericolosità degli spacciatori («Conosco tre cittadini africani, sono personaggi cattivi e molto pericolosi, poiché il loro stato di tossicodipendenza può influire sull'atteggiamento che hanno sulle altre persone che incontrano e con cui si relazionano»), ha dichiarato anche di aver saputo che Yusif, il ghanese stanato nella tendopoli di Borgo Mezzanone (Fg), «la notte stessa del decesso di Desirée si era recato alla stazione Termini, dove aveva preso il primo treno per Napoli». L'informazione è stata ritenuta da subito molto attendibile, perché Yousif Salia aveva vissuto a Napoli tra i richiedenti asilo. Poi - scaduto il permesso umanitario - si era trasferito a Roma ed era diventato uno dei tanti invisibili che vivevano nel tugurio di via dei Lucani. Uno dei ragazzi stranieri dello stesso giro che frequentava Desirée, ha dichiarato di aver detto più volte all'adolescente di Cisterna di Latina «di non andare mai da sola in quel posto, perché era chiaramente pericoloso. C'erano tanti neri». Alcuni dei quali alla fine l'hanno uccisa. Fabio Amendolara
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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