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2022-09-19
Dopo gli scontri tra Armenia e Azerbaigian ora si contano i morti
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Blindati azeri a Lachin (Getty Images)
A una settimana dai sanguinosi scontri al confine tra Armenia e Azerbaigian si contano i morti. L'Armenia ha dichiarato che il numero dei suoi soldati deceduti negli scontri è salito ad almeno 135. Lo ha detto il primo ministro armeno Nikol Pashinyan durante una riunione di gabinetto: «Purtroppo non è la cifra definitiva. Ci sono anche molti feriti», molti dei quali in gravissime condizioni. I due paesi si accusano reciprocamente di aver scatenato l’offensiva (la peggiore dalla tregua del 2020 imposta dai russi) ma se analizziamo i fatti è quasi certo che a muovere per primi siano stati gli azeri, visto che l’attacco su vasta scala è avvenuto in territorio armeno, ed in particolare nelle città di Goris, Sotk e Djermouk, con bombardamenti sia sulle infrastrutture militari che civili, utilizzando anche i micidiali droni di fabbricazione turca e artiglieria. La risposta armena non si è fatta attendere e sono stati colpiti i distretti azeri di Dashkesan, Kelbajar e Lachin. Non appena sono iniziati gli scontri la comunità internazionale si è attivata affinché venisse proclamata una tregua, che seppur violata con reciproche provocazioni, sembra reggere pur restando fragilissima. A tal proposito il segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato: «Accogliamo con favore la cessazione delle ostilità tra Azerbaigian e Armenia. Gli Stati Uniti restano impegnati a promuovere un futuro pacifico e prospero per la regione del Caucaso meridionale». Il Presidente russo Vladimir Putin, garante della pace del 2020, ha parlato più volte in questi giorni con Nikol Pashinyan, il premier armeno che lo ha costantemente aggiornato sulla situazione, e con il ministro della difesa armeno Suren Papikyan, che è rimasto in contatto con l’omologo russo Sergei Shoigu per poter prendere le misure necessarie per stabilizzare la situazione nel Caucaso meridionale. Aldilà della parole la Russia non può fare molto, perché l’andamento della guerra in Ucraina non gli consente certo di aprire nuovi fronti. Anzi. In ogni caso il rappresentante della missione permanente dell’Armenia presso l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) ha richiesto una sessione speciale del Consiglio permanente della Csto per informare i paesi membri (Federazione Russa, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Bielorussia) su quanto sta accadendo al confine armeno-azero sottolineando il fatto che l’aggressione dell’Azerbaigian minacci la sovranità territoriale dell’Armenia. A proposito della Csto c’è una notizia che circola da giorni: il Kazakistan avrebbe deciso di uscire dall’Organizzazione. Perché una decisone di questo tipo? Secondo il ricercatore dell’Itss Verona, Francesco Cirillo, «se la notizia venisse confermata, dopo le prime indiscrezioni che sono giunte e che sono state smentite dal governo kazako, significherebbe che Pechino sta già costruendo il post conflitto, puntando a sostituire il ruolo di Mosca come garante della sicurezza politico-militare in Asia centrale. Si pensava che dopo l’intervento della Csto a gennaio 2022 per sopprimere le rivolte nel paese centro-asiatico Mosca avesse consolidato la presa politica sul Kazakistan; ma il conflitto ucraino ha cambiato le carte. Come il Kazakistan molti paesi dell'Asia Centrale stanno osservando le sconfitte di Mosca. La guerra ha mostrato che in futuro Mosca, che uscirebbe di fatto indebolita, potrebbe non ricoprire un forte ruolo di protettore militare della regione e per questo gli stati della regione potrebbero valutare di rivolgersi a Pechino. Per Putin, visto che considera una questione di sopravvivenza la guerra contro Kiev, ciò sarebbe un piccolo prezzo da pagare, ma al lungo termine l'asse russo-cinese rischia di spostarsi in favore della Repubblica popolare cinese e sulla Sco, indebolendo la Csto e l'influenza russa sulla regione centro-asiatica».
La Russia che non c’è e il tempismo degli azeri
Nonostante Mosca sia storicamente sempre stata vicino all’Armenia, Vladimir Putin non può andare oltre al supporto politico-dipomatico quale unico strumento di risoluzione della crisi. Se i russi si schierassero con Yerevan la situazione potrebbe sfuggire di mano e trasformare l’attuale crisi in una seconda guerra dopo quella con l’Ucraina. La Russia quindi non può agire perché impantanata da ormai sette mesi in un conflitto che la vede perdere di continuo posizioni. Ma l’Azerbaigian ha agito d’impulso oppure ha pianificato l’attacco? Per l’analista di Opinio Juris Valentina Chabert: «Secondo numerosi analisti, potrebbe non aver lasciato al caso la scelta temporale entro cui sferrare l’attacco ai vicini armeni: in questa prospettiva, il presidente Aliyev avrebbe cercato di cogliere l’opportunità di una Russia distratta dal conflitto in Ucraina e, al contempo, la forza dell’onda avversiva globale contro Mosca, con cui Yerevan è formalmente alleata. Ma non solo: la guerra sul fronte dell’Est sembra favorire l’Azerbaigian anche sul piano strategico, in quanto Paese chiave per le rotte di transito della Russia ed i collegamenti con Iran e Asia, che consentono a Mosca di sfuggire dall’ormai consolidato isolamento occidentale».
Il ruolo di Ankara
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato mercoledì scorso alla Reuters che l'atteggiamento dell'Armenia nei confronti dell'Azerbaigian è inaccettabile e avrà delle conseguenze: «Troviamo che la situazione che si è verificata a causa della violazione dell'accordo da parte dell'Armenia raggiunto dopo la guerra (2020) che ha portato alla vittoria dell'Azerbaigian sia inaccettabile». Più esplicito il suo consigliere e portavoce, Ibrahim Kalin, che ha ammonito l'Armenia: «Dovete abbandonare l'approccio aggressivo e provocatorio mentre i negoziati sono in corso. Pace e stabilità possono essere raggiunte solo attraverso l'integrità territoriale dell'Azerbaigian», che secondo Ankara è il riconoscimento del Nagorno Karabakh come parte integrante dell'Azerbaigian. Muscolari invece le dichiarazioni del ministro della Difesa turco Hulusi Akar: «La Turchia continuerà a sostenere l'Azerbaigian nelle proprie giuste rivendicazioni», mentre il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha accusato l'Armenia di aver devastato e minato i territori abbandonati: «La Turchia è e sarà al fianco di Baku ed è chiaro al mondo e all'Armenia che il processo di normalizzazione non può andare avanti a prescindere dal Nagorno Karabakh». Fin qui le dichiarazioni di principio, tuttavia Erdogan, che con l’attivismo internazionale prova a nascondere la peggiore crisi economica in Turchia degli ultimi 20 anni, ha le mani legate e necessita di non creare nuove fratture con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea.
Quell’accordo tra l’Europa e l’Azerbaigian
Il 18 luglio la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è recata nella capitale azera Baku dove ha siglato un importante accordo tra l’Ue e lo stato caucasico per un aumento a dir poco importante, entro il 2027, delle forniture di gas naturale dall'Azerbaigian. In un tweet la presidente dell’Ue aveva scritto: «L’Ue si sta rivolgendo a fornitori di energia più affidabili. Oggi sono in Azerbaigian per firmare un nuovo accordo. Il nostro obiettivo è raddoppiare la fornitura di gas dall'Azerbaigian all'Ue in pochi anni. L'Azerbaigian sarà un partner fondamentale per la nostra sicurezza di approvvigionamento e per il nostro cammino verso la neutralità climatica». Durante la conferenza stampa Ursula von der Leyen ha anche dichiarato: «Con questo protocollo d'intesa ci impegniamo a espandere il Corridoio meridionale del gas: si tratta già di una via di approvvigionamento molto importante per l'Ue, che fornisce attualmente 8,1 miliardi di metri cubi di gas all'anno. Espanderemo la sua capacità a 20 miliardi di metri cubi all'anno in pochi anni. A partire dal 2023 dovremmo già raggiungere i 12 miliardi di metri cubi. L'intesa aiuterà a compensare i tagli alle forniture di gas russo. E contribuirà in modo significativo alla sicurezza degli approvvigionamenti in Europa». Con lei in un clima di festa c’era il leader dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, al potere dal 2003 dopo 10 anni di governo di suo padre Heydər. I dati ufficiali delle elezioni del 15 ottobre 2003 avevano assegnato la vittoria a Ilham Aliyev con il 76,84 dei suffragi ma il voto venne contestato dalle opposizioni che si rifiutatarono di accettare il risultato elettorale accusando il clan Aliyev di brogli elettorali. Il voto era stato criticato anche dall’Ocse che aveva rivelato evidenti irregolarità nel conteggio e nella registrazione dello scrutinio dei voti mentre durante la campagna elettorale c’erano stati numerosi episodi di intimidazioni e di pressioni sui votanti e la violazione delle leggi elettorali. Inoltre Human Rights Watch aveva denunciato il fatto che la campagna elettorale di Ilham Aliyev era stata pagata attingendo dalle casse del governo, oltre al fatto che l’intera Commissione elettorale centrale e le commissioni elettorali locali erano tutte in mano ai suoi sostenitori, mentre alle organizzazioni non governative non era stata data nessuna possibilità di verificare la regolarità delle operazioni di voto. İlham Aliyev era stato poi rieletto nel 2008 con l'87% dei voti e nel 2013 con l'85% dei consensi sempre nel medesimo clima e dubbi.Sono stati molti i giornalisti perseguitati dal regime per le loro critiche, uno su tutti Eynulla Emin oglu Fatullayev, caporedattore del settimanale indipendente in lingua russa Realny Azerbaijan e del quotidiano in lingua azera Gündəlik Azərbaycan, arrestato nel 2007 e condannato a quattro anni di carcere.
L’intesa sul gas tra Baku e Bruxelles è stata criticata da numerose organizzazioni umanitare internazionali che hanno più volte segnalato nel corso degli anni le continue violazioni dei diritti sociali, politici e umanitari nel Paese. Secondo il Democracy index dell'Economist quello di Baku «è un regime autoritario che lo piazza al 141° posto su 167 paesi analizzati per lo stato delle democrazia». Evidente quindi che con la firma dell’accordo sul gas con l’Ue, e la Turchia al suo fianco, l’Azerbaigian abbia deciso di rompere gli indugi per chiudere l’eterna partita del conflitto azero-armeno e i segnali si erano visti nell’agosto scorso quando a nemmeno un mese dalla firma degli accordi sul gas l'esercito di Baku, che utilizza i micidiali droni turchi T2, aveva ripreso il controllo della città di Lachin e dei villaggi vicini di Zabukh e Sus. Quella di tagliare il corridoio che collega l'Armenia con il Nagorno Karabakh era apparsa subito una manifesta violazione degli accordi del 2020 che sono arrivati dopo il conflitto che ha provocato oltre 6.500 vittime. Ora la tregua sembra tenere ma nessuno è in grado di dire fino a quando durerà.
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Le stime parlano di oltre 200 soldati deceduti. E Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan non possono intervenire ma solo offrire supporto politico e diplomatico.A una settimana dai sanguinosi scontri al confine tra Armenia e Azerbaigian si contano i morti. L'Armenia ha dichiarato che il numero dei suoi soldati deceduti negli scontri è salito ad almeno 135. Lo ha detto il primo ministro armeno Nikol Pashinyan durante una riunione di gabinetto: «Purtroppo non è la cifra definitiva. Ci sono anche molti feriti», molti dei quali in gravissime condizioni. I due paesi si accusano reciprocamente di aver scatenato l’offensiva (la peggiore dalla tregua del 2020 imposta dai russi) ma se analizziamo i fatti è quasi certo che a muovere per primi siano stati gli azeri, visto che l’attacco su vasta scala è avvenuto in territorio armeno, ed in particolare nelle città di Goris, Sotk e Djermouk, con bombardamenti sia sulle infrastrutture militari che civili, utilizzando anche i micidiali droni di fabbricazione turca e artiglieria. La risposta armena non si è fatta attendere e sono stati colpiti i distretti azeri di Dashkesan, Kelbajar e Lachin. Non appena sono iniziati gli scontri la comunità internazionale si è attivata affinché venisse proclamata una tregua, che seppur violata con reciproche provocazioni, sembra reggere pur restando fragilissima. A tal proposito il segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato: «Accogliamo con favore la cessazione delle ostilità tra Azerbaigian e Armenia. Gli Stati Uniti restano impegnati a promuovere un futuro pacifico e prospero per la regione del Caucaso meridionale». Il Presidente russo Vladimir Putin, garante della pace del 2020, ha parlato più volte in questi giorni con Nikol Pashinyan, il premier armeno che lo ha costantemente aggiornato sulla situazione, e con il ministro della difesa armeno Suren Papikyan, che è rimasto in contatto con l’omologo russo Sergei Shoigu per poter prendere le misure necessarie per stabilizzare la situazione nel Caucaso meridionale. Aldilà della parole la Russia non può fare molto, perché l’andamento della guerra in Ucraina non gli consente certo di aprire nuovi fronti. Anzi. In ogni caso il rappresentante della missione permanente dell’Armenia presso l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) ha richiesto una sessione speciale del Consiglio permanente della Csto per informare i paesi membri (Federazione Russa, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Bielorussia) su quanto sta accadendo al confine armeno-azero sottolineando il fatto che l’aggressione dell’Azerbaigian minacci la sovranità territoriale dell’Armenia. A proposito della Csto c’è una notizia che circola da giorni: il Kazakistan avrebbe deciso di uscire dall’Organizzazione. Perché una decisone di questo tipo? Secondo il ricercatore dell’Itss Verona, Francesco Cirillo, «se la notizia venisse confermata, dopo le prime indiscrezioni che sono giunte e che sono state smentite dal governo kazako, significherebbe che Pechino sta già costruendo il post conflitto, puntando a sostituire il ruolo di Mosca come garante della sicurezza politico-militare in Asia centrale. Si pensava che dopo l’intervento della Csto a gennaio 2022 per sopprimere le rivolte nel paese centro-asiatico Mosca avesse consolidato la presa politica sul Kazakistan; ma il conflitto ucraino ha cambiato le carte. Come il Kazakistan molti paesi dell'Asia Centrale stanno osservando le sconfitte di Mosca. La guerra ha mostrato che in futuro Mosca, che uscirebbe di fatto indebolita, potrebbe non ricoprire un forte ruolo di protettore militare della regione e per questo gli stati della regione potrebbero valutare di rivolgersi a Pechino. Per Putin, visto che considera una questione di sopravvivenza la guerra contro Kiev, ciò sarebbe un piccolo prezzo da pagare, ma al lungo termine l'asse russo-cinese rischia di spostarsi in favore della Repubblica popolare cinese e sulla Sco, indebolendo la Csto e l'influenza russa sulla regione centro-asiatica».La Russia che non c’è e il tempismo degli azeriNonostante Mosca sia storicamente sempre stata vicino all’Armenia, Vladimir Putin non può andare oltre al supporto politico-dipomatico quale unico strumento di risoluzione della crisi. Se i russi si schierassero con Yerevan la situazione potrebbe sfuggire di mano e trasformare l’attuale crisi in una seconda guerra dopo quella con l’Ucraina. La Russia quindi non può agire perché impantanata da ormai sette mesi in un conflitto che la vede perdere di continuo posizioni. Ma l’Azerbaigian ha agito d’impulso oppure ha pianificato l’attacco? Per l’analista di Opinio Juris Valentina Chabert: «Secondo numerosi analisti, potrebbe non aver lasciato al caso la scelta temporale entro cui sferrare l’attacco ai vicini armeni: in questa prospettiva, il presidente Aliyev avrebbe cercato di cogliere l’opportunità di una Russia distratta dal conflitto in Ucraina e, al contempo, la forza dell’onda avversiva globale contro Mosca, con cui Yerevan è formalmente alleata. Ma non solo: la guerra sul fronte dell’Est sembra favorire l’Azerbaigian anche sul piano strategico, in quanto Paese chiave per le rotte di transito della Russia ed i collegamenti con Iran e Asia, che consentono a Mosca di sfuggire dall’ormai consolidato isolamento occidentale».Il ruolo di Ankara Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato mercoledì scorso alla Reuters che l'atteggiamento dell'Armenia nei confronti dell'Azerbaigian è inaccettabile e avrà delle conseguenze: «Troviamo che la situazione che si è verificata a causa della violazione dell'accordo da parte dell'Armenia raggiunto dopo la guerra (2020) che ha portato alla vittoria dell'Azerbaigian sia inaccettabile». Più esplicito il suo consigliere e portavoce, Ibrahim Kalin, che ha ammonito l'Armenia: «Dovete abbandonare l'approccio aggressivo e provocatorio mentre i negoziati sono in corso. Pace e stabilità possono essere raggiunte solo attraverso l'integrità territoriale dell'Azerbaigian», che secondo Ankara è il riconoscimento del Nagorno Karabakh come parte integrante dell'Azerbaigian. Muscolari invece le dichiarazioni del ministro della Difesa turco Hulusi Akar: «La Turchia continuerà a sostenere l'Azerbaigian nelle proprie giuste rivendicazioni», mentre il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha accusato l'Armenia di aver devastato e minato i territori abbandonati: «La Turchia è e sarà al fianco di Baku ed è chiaro al mondo e all'Armenia che il processo di normalizzazione non può andare avanti a prescindere dal Nagorno Karabakh». Fin qui le dichiarazioni di principio, tuttavia Erdogan, che con l’attivismo internazionale prova a nascondere la peggiore crisi economica in Turchia degli ultimi 20 anni, ha le mani legate e necessita di non creare nuove fratture con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea. Quell’accordo tra l’Europa e l’AzerbaigianIl 18 luglio la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è recata nella capitale azera Baku dove ha siglato un importante accordo tra l’Ue e lo stato caucasico per un aumento a dir poco importante, entro il 2027, delle forniture di gas naturale dall'Azerbaigian. In un tweet la presidente dell’Ue aveva scritto: «L’Ue si sta rivolgendo a fornitori di energia più affidabili. Oggi sono in Azerbaigian per firmare un nuovo accordo. Il nostro obiettivo è raddoppiare la fornitura di gas dall'Azerbaigian all'Ue in pochi anni. L'Azerbaigian sarà un partner fondamentale per la nostra sicurezza di approvvigionamento e per il nostro cammino verso la neutralità climatica». Durante la conferenza stampa Ursula von der Leyen ha anche dichiarato: «Con questo protocollo d'intesa ci impegniamo a espandere il Corridoio meridionale del gas: si tratta già di una via di approvvigionamento molto importante per l'Ue, che fornisce attualmente 8,1 miliardi di metri cubi di gas all'anno. Espanderemo la sua capacità a 20 miliardi di metri cubi all'anno in pochi anni. A partire dal 2023 dovremmo già raggiungere i 12 miliardi di metri cubi. L'intesa aiuterà a compensare i tagli alle forniture di gas russo. E contribuirà in modo significativo alla sicurezza degli approvvigionamenti in Europa». Con lei in un clima di festa c’era il leader dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, al potere dal 2003 dopo 10 anni di governo di suo padre Heydər. I dati ufficiali delle elezioni del 15 ottobre 2003 avevano assegnato la vittoria a Ilham Aliyev con il 76,84 dei suffragi ma il voto venne contestato dalle opposizioni che si rifiutatarono di accettare il risultato elettorale accusando il clan Aliyev di brogli elettorali. Il voto era stato criticato anche dall’Ocse che aveva rivelato evidenti irregolarità nel conteggio e nella registrazione dello scrutinio dei voti mentre durante la campagna elettorale c’erano stati numerosi episodi di intimidazioni e di pressioni sui votanti e la violazione delle leggi elettorali. Inoltre Human Rights Watch aveva denunciato il fatto che la campagna elettorale di Ilham Aliyev era stata pagata attingendo dalle casse del governo, oltre al fatto che l’intera Commissione elettorale centrale e le commissioni elettorali locali erano tutte in mano ai suoi sostenitori, mentre alle organizzazioni non governative non era stata data nessuna possibilità di verificare la regolarità delle operazioni di voto. İlham Aliyev era stato poi rieletto nel 2008 con l'87% dei voti e nel 2013 con l'85% dei consensi sempre nel medesimo clima e dubbi.Sono stati molti i giornalisti perseguitati dal regime per le loro critiche, uno su tutti Eynulla Emin oglu Fatullayev, caporedattore del settimanale indipendente in lingua russa Realny Azerbaijan e del quotidiano in lingua azera Gündəlik Azərbaycan, arrestato nel 2007 e condannato a quattro anni di carcere. L’intesa sul gas tra Baku e Bruxelles è stata criticata da numerose organizzazioni umanitare internazionali che hanno più volte segnalato nel corso degli anni le continue violazioni dei diritti sociali, politici e umanitari nel Paese. Secondo il Democracy index dell'Economist quello di Baku «è un regime autoritario che lo piazza al 141° posto su 167 paesi analizzati per lo stato delle democrazia». Evidente quindi che con la firma dell’accordo sul gas con l’Ue, e la Turchia al suo fianco, l’Azerbaigian abbia deciso di rompere gli indugi per chiudere l’eterna partita del conflitto azero-armeno e i segnali si erano visti nell’agosto scorso quando a nemmeno un mese dalla firma degli accordi sul gas l'esercito di Baku, che utilizza i micidiali droni turchi T2, aveva ripreso il controllo della città di Lachin e dei villaggi vicini di Zabukh e Sus. Quella di tagliare il corridoio che collega l'Armenia con il Nagorno Karabakh era apparsa subito una manifesta violazione degli accordi del 2020 che sono arrivati dopo il conflitto che ha provocato oltre 6.500 vittime. Ora la tregua sembra tenere ma nessuno è in grado di dire fino a quando durerà.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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