2023-10-31
«Capitalismo woke quasi al picco, poi finirà»
Nel riquadro Carl Rhodes (Getty Images)
Il ricercatore e saggista Carl Rhodes che ha indagato il fenomeno in un libro: «È una moda che serve solo per fare soldi. Le grandi corporation sposano cause come quelle Lgbt quando sanno da che parte pende l’opinione pubblica, cioè i clienti. Se fanno flop le abbandonano».Carl Rhodes insegna Teorie dell’organizzazione alla University of Technology di Sydney e ha scritto uno dei saggi più rilevanti degli ultimi anni: Capitalismo woke (edito in Italia da Fazi). Un libro fondamentale che racconta il «capitalismo progressista» e ne svela contraddizioni e lati oscuri. Ho avuto occasione di intervistarlo per il talk show 1984 che questa sera su Byoblu trasmetterà la versione integrale della conversazione. Professor Rhodes, iniziamo dando una definizione del termine woke. «Penso che sia importante guardare all’origine storica: il termine woke è nato all’interno della cultura afroamericana, venne utilizzato già da Martin Luther King. Aveva una connotazione molto positiva, si riferiva al fatto di essere risvegliati nel senso di essere svegli rispetto a ciò che succedeva intorno. Negli anni Sessanta, con le lotte per i diritti civili degli afroamericani, è diventata una parola molto importante: essere svegli, essere attenti alle forme di discriminazione, repressione e oppressione che stavano soffrendo».E poi? «Poi il termine woke è diventato molto più popolare negli anni 2010, con il movimento Black lives Matter, e aveva ancora lo stesso significato. È stato utilizzato da uno dei primi social media anche con l’hashtag #StayWoke, per incoraggiare le persone che supportavano Black lives matter a essere attente a quello che stava succedendo nella società. Ma in seguito il modo in cui è stato utilizzato è cambiato».In che modo? «Dopo Black lives matter è diventato molto popolare e ha iniziato a diventare mainstream e, sfortunatamente, si è trasformato. Possiamo dire che il significato originario del termine sia stato corrotto. Da parte di persone che hanno una idea molto superficiale delle questioni politiche e che adottano questo termine soltanto perché è alla moda. In molti casi, adesso, woke è utilizzato in maniera critica, soprattutto nei riguardi delle corporation».Parliamo allora di queste corporation. Come è potuto accadere che, a un certo punto, per il grande capitale fosse profittevole fingere di occuparsi - o occuparsi davvero, lo dirà lei - di buone cause vere e presunte tali? «Anche qui c’è una lunga storia. Già negli anni Sessanta inizia la social responsibility delle corporation, ma per quanto riguarda il capitalismo woke un punto di svolta c’è stato Stati Uniti, durante la presidenza di Donald Trump. Forse vi ricordate che, all’inizio della sua presidenza alla fine del decennio del 2010, Trump ha tagliato le tasse sui profitti delle corporation, che erano molto felici di ricevere questi sgravi fiscali: c’erano più bonus per i ceo e per gli azionisti. Ma, allo stesso tempo, molte delle corporation sono state molto caute nell’allinearsi a questa posizione. Hanno sviluppato la tendenza ad associarsi a cause sociali più progressiste, quindi per esempio quelle di Black lives matter, del Me too, dei diritti Lgbtq+ e di molti altri movimenti. Quindi, da una parte accettavano i vantaggi fiscali concessi dal governo, dall’altra non volevano mostrare di aderire, potremmo dire culturalmente, a quella posizione, e hanno virato verso l’impegno».Qui entra in gioco un paradosso. Molti dei movimenti che lei ha citato si propongono di modificare in qualche modo la struttura sociale e in parte anche quella economica. Eppure ottengono sostegno dalle stesse corporation che, in teoria, dovrebbero osteggiare. Questo non rischia di pervertire le loro cause? «Penso che i movimenti siano molto consapevoli di queste connessioni e queste dinamiche. Tuttavia non dobbiamo confondere i piani. I veri attivisti sono persone che prendono posizioni talvolta molto difficili da sostenere in nome della giustizia e rischiano. Le corporation non lo fanno. Quando scelgono una particolare posizione significa che sanno che l’opinione pubblica e soprattutto i loro clienti hanno già deciso quale parte sposare. È come se scommettessero su un risultato sapendo già che uscirà: non mettono mai i loro profitti a rischio. Il capitalismo woke è sempre e comunque capitalismo, non meno di ogni altra forma di capitalismo: ha un’agenda da seguire e quindi va sempre a cercare quello che considera sicuro».Puntano su temi che, in buona sostanza, non richiedono un vero rischio. «Se guardiamo al tipo di cause che perseguono le corporation, in questi giorni sono soprattutto ambientali ma anche sociali, vediamo che poi, quando si tratta di fare realmente politica, esse evitano ogni tipo di coinvolgimento. Possono adottare delle posizioni progressiste dal punto di vista sociale, ma non si vede una presa di posizione economica e politica progressista: ad esempio, sul posto di lavoro non c’è veramente parità o ridistribuzione dei redditi. Pensiamo ai ceo e ai c-level: hanno sempre dei benefit molto maggiori rispetto alla forza lavoro, che spesso - al di là di ciò che si vorrebbe far credere - continua a subire discriminazioni».Negli ultimi tempi alcune vicende hanno mostrato quello che probabilmente è il vero volto del capitalismo woke. Il caso Bud Light è emblematico: organizza una campagna a favore dei diritti trans ma, quando le vendite crollano, la abbandona molto velocemente. «Certo. Se prendi una posizione politica e qualcuno non è d’accordo con te, se sei una persona integra non cambi posizione, resti saldo. La Bud non ha agito così e ci sono tanti altri esempi. Qualche tempo fa i membri della Nba hanno fatto dei commenti riguardo alle proteste che c’erano state a Hong Kong ma, non appena le royalties sono state messe in discussione dalla distribuzione cinese, allora hanno cancellato queste critiche, si sono azzittiti. E qui torniamo al punto: abbiamo a che fare con aziende che fanno tutto ciò che è possibile per massimizzare i profitti e i valori delle quote per gli shareholder. Da una parte, ripeto, vogliono essere progressisti, vogliono sembrare progressisti dal punto di vista politico, ma poi, se le cose non vanno bene, cambiano come cambia il vento. Bud Light ha semplicemente preso una decisione di business negativa: non era una questione politica, è stata semplicemente una questione di cattivo business. E se si fanno delle scelte di business che non vanno bene, si correggono. Tutto questo non riguarda i valori o la politica vera».L’impegno sociale delle corporation è un modo per togliere responsabilità e terreno allo Stato? «Sì, c’è un transfer diretto di poteri dallo Stato alle corporation private, e le corporation forse non si rendono conto di quali siano le loro vere responsabilità sociali, perché ne hanno varie: hanno la responsabilità di pagare le tasse, prima di tutto, ma spesso evitano di farlo, in tutti i modi; hanno la responsabilità di fornire un posto di lavoro, un’occupazione decente e ben pagata, ma vediamo che, invece, danno posti di lavoro precari e mal pagati (i lavori sono sempre più organizzati sul modello Uber). Dovrebbero avere, poi, la responsabilità sociale di fornire beni e servizi di valore e invece vediamo che continua a esistere lo sfruttamento economico. Insomma, le corporation hanno tante responsabilità sociali, ma non quelle che vogliono intestarsi e esibire come bandiere. È questo il cambiamento di cui abbiamo bisogno: che le corporation prendano veramente in considerazione le loro responsabilità sociali. In questo modo supporterebbero la società, non solo con movimenti di facciata» Secondo lei il capitalismo woke è arrivato alla fine oppure continuerà a essere la tendenza dominante in futuro? «Non penso che abbia raggiunto la fine del suo ciclo. Non penso, però, che durerà per sempre, perché in fondo è un po’ una moda. Come qualsiasi moda, passerà. È successo con Bud Light o con Disney. Ma non siamo ancora alla fine».
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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