2019-12-05
Capitana Rackete, missione compiuta Gli sbarcati in Italia ce li teniamo tutti
Per Luciana Lamorgese ora si fanno più rimpatri, ma l'Ispi la smentisce. Aveva ragione Carola: «Si voleva mettere in difficoltà Matteo Salvini».Questa o quello pari sono, canterebbe il Rigoletto di Giuseppe Verdi. I due sono Luciana Lamorgese e Matteo Salvini, il ministro dell'Interno in carica e il suo predecessore. La successione doveva segnare una discontinuità profonda, mentre l'ex prefetto si è distinta per un sostanziale immobilismo. Un paio di giorni fa un dossier del Viminale ha cercato di lucidare l'immagine del capo, con dati secondo i quali il numero delle redistribuzioni avrebbe subito un'impennata da quando il leader sovranista è stato avvicendato. Ora però è un centro studi molto attento, cioè l'Ispi presieduto dall'ambasciatore Giampiero Massolo e diretto da Paolo Magri, a smentire il maquillage di Lamorgese: tra la vecchia e la nuova gestione del Viminale non ci sono sostanziali differenze. I migranti restano in Italia. Missione compiuta per Carola Rackete, il capitano della Sea Watch 3 che in estate a una televisione tedesca rivelò: «Volevamo portare in Germania i clandestini, ma Berlino si è opposta per mettere in difficoltà Salvini».Dopo tre mesi in cui ha bordeggiato sottovento, un paio di giorni fa la ministra Lamorgese ha deciso di prendere il largo. Lo ha fatto con un dossier che dagli uffici del Viminale è finito dritto sulle pagine del Corriere della Sera con la firma di Fiorenza Sarzanini, cronista che gode di ottime entrature al ministero. Il fascicolo è stato preparato per ribattere alle critiche abbattutesi sulla Lamorgese per non avere impresso nessun vero cambiamento. Lo confermano le cronache anche di questi giorni: i decreti di Salvini non sono stati modificati, le navi cariche di migranti devono restare giorni nel Mediterraneo prima che l'Italia apra qualche porto, l'accordo di Malta sulla redistribuzione procede a rilento.Su questo punto si è concentrato il dossier del Viminale, secondo il quale sarebbe in aumento il numero di sbarcati in Italia redistribuiti tra i vari Paesi europei, anche come percentuale sugli sbarchi delle ultime settimane. Dal 5 settembre 2019 e prima dei tre approdi più recenti da altrettante navi di ong (213 sbarchi dalla Ocean Viking a Messina, 73 dalla Open Arms di cui 62 a Taranto e 11 evacuati ad Augusta per motivi sanitari, 78 dalla Aita Mari a Pozzallo), avvenuti tra il 24 e 26 novembre, sono state redistribuite 172 persone contro le 90 di quando il Viminale era leghista. Insomma, Lamorgese batte Salvini. Questo dice la velina del ministero dell'Interno. Il Corriere sottolinea che un paio di settimane fa Germania, Francia e Malta hanno indicato la disponibilità a farsi carico dell'82% dei migranti sbarcati in Italia in un porto sicuro. In realtà questo presunto accordo è una semplice dichiarazione d'intenti, cioè una raccolta di buone intenzioni, non un patto formale che prevede automatismi. Lo dimostrano i numeri elaborati da Matteo Villa, ricercatore dell'Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) esperto del fenomeno.Villa, come riporta il Fatto Quotidiano, ha calcolato che quando Salvini era al Viminale sono stati ridistribuiti il 44% dei migranti per i quali era stato trovato un ricollocamento, mentre con la Lamorgese siamo a una media del 46%. Una differenza impercettibile. Quello che è cambiato, secondo il ricercatore, è la minore permanenza in mare delle navi cariche di profughi. Con il governo Conte 1 i tempi di attesa per l'apertura di un porto erano in media di 9 giorni, mentre con il Conte 2 si è scesi a 4.Che le cose non funzionino è confermato dalla gestione delle 364 persone sbarcate a fine novembre da Ocean Viking, Open Arms, Aita Mari. In base al memorandum tra Germania, Francia e Malta, l'82% dei profughi sarebbero già dovuti essere ripartiti per quei Paesi. Il Corriere però riferisce che il ricollocamento ha riguardato appena 210 sbarcati: il 57%. La Francia si è fatta carico di 90 persone, la Germania di 69, la Spagna di 25, il Portogallo di 20 e l'Irlanda di 6. Germania, Francia e Malta, che si sarebbero dovute prendere 298 migranti, si sono fermate a 159. E Malta non è pervenuta.C'è dunque da chiedersi se patti, protocolli e dichiarazioni d'intenti non siano un modo per continuare ad aggirare il problema scaricando i profughi sempre sull'Italia. Nessuna sorpresa, in realtà. La linea che hanno seguito i Paesi europei, dagli accordi di Dublino in poi, è sempre la stessa: lasciare l'Italia sola nella gestione degli sbarchi. Lo aveva ammesso perfino la capitana Carola Rackete lo scorso luglio, nel pieno dello scontro con il ministro Salvini. Le sue parole furono messe sotto silenzio dalla grancassa mediatica pro accoglienza, ma l'intervista alla tv tedesca Zdf resta a suggellare una strategia che la Germania non ha mai rinnegato.La Rackete rivelò che durante la crisi della Sea Watch 3 si era trovata una soluzione umanitaria per i profughi in condizioni di salute peggiori: la città bavarese di Rothenburg avrebbe inviato un pullman in Sicilia per recuperare i malandati e registrarli direttamente in Germania. «A negare la via terrestre è stato il ministro dell'Interno del nostro Paese», ha ammesso la capitana. Il diniego le era stato comunicato poco prima che la Sea Watch 3 attraccasse a Lampedusa e lei fosse arrestata. «Il ministero dell'Interno tedesco ci ha chiesto di far registrare e di portare tutti i clandestini a Lampedusa», aggiunse. «Si doveva forzare l'apertura dei porti italiani e causare un incidente che mettesse in difficoltà Salvini», confermò in seguito l'ex capo dei servizi segreti tedeschi, Hans-Georg Maassen. Mettere in difficoltà l'Italia: la tattica tedesca non è cambiata.
Francesco Zambon (Getty Images)
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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