2022-07-07
Alessandro Altobelli: «Campioni del mondo trattati da evasori»
Alessandro Altobelli (Juventus FC - Archive/Juventus FC via Getty Images)
«Spillo» rievoca il Mundial del 1982: «Il nostro premio era stato di 100 milioni di lire, 50.000 euro. Ma un mattino vennero a casa accusandoci di non avere pagato le tasse. Solo con il ricorso ci diedero ragione. C’è sempre qualcuno invidioso dei successi altrui».La vita di Alessandro Altobelli, detto «Spillo» per via del fisico filiforme, ha avuto il suo momento di massima realizzazione all’81° minuto della finalissima del campionato mondiale di calcio di Spagna, disputata l’11 luglio 1982 tra Italia e Germania Ovest. Il centravanti, che indossava la casacca azzurra recante il numero 18, dopo un fulmineo contropiede, intercettò, all’altezza del dischetto del rigore, un traversone basso di Bruno Conti da destra, lo stoppò, dribblò il portiere Schumacher e spedì in rete la sfera, nonostante i tentativi di tre difensori tedeschi di ovviare all’inevitabile. Fu il goal del 3-0, dopo quelli di Rossi e Tardelli, definito da Nando Martellini, dai microfoni Rai, «un capolavoro». In quel momento, in tribuna d’onore, al Santiago Bernabeu di Madrid, l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, accanto al re Juan Carlos e alla regina Sofia di Spagna, pronunciò la storica sentenza: «Non ci prendono più». A nulla valse la rete della bandiera di Breitner. Il risultato finale del match fu Italia 3 - Germania 1 e un «Mundial» «iniziato male sui campi di Vigo», come osservò Enrico Ameri alla radio, inizialmente avvelenato da strali polemici, finì con il terzo trionfo della storia del calcio azzurro, dopo quelli del 1934 e del 1938 firmati da Vittorio Pozzo, accendendo il tripudio di un popolo, quello italiano, fiaccato da anni di sgomento per terrorismo e stragi. Spillo, nato a Sonnino (Latina) il 28 novembre 1955, oggi residente a Brescia, carriera in serie A nell’Inter e una stagione finale nella Juve, in quel mondiale era in panchina, ma in seguito divenne titolare, collezionando 61 presenze e 25 reti. Era entrato in campo per 20 minuti in Italia-Polonia e per 10 in Italia-Argentina. Tuttavia, in Italia-Germania Ovest, ci fu bisogno di lui già al settimo minuto. Ciccio Graziani era in precarie condizioni e dopo uno scontro dovette uscire…«Ciccio si era infortunato a una spalla nella partita con la Polonia. Ci allenavamo ogni giorno e vedevo i suoi progressi, ma medico e massaggiatore mi dissero: “Spillo, tieniti pronto, non sappiamo se riusciremo a recuperarlo”. Mi allenai come dovessi entrare subito in campo. Ero preparato. Sapevo che, all’80%, avrei dovuto giocare».Quando giunse quel momento, cosa le disse Enzo Bearzot?«Ah, non fece nemmeno in tempo a parlarmi che ero già scappato dalla panchina. Mentre mi trovavo ai bordi del campo, mi disse: “È la tua ora, ragazzo. O adesso o mai più”. Un grande mister».Chi la marcò? Prese botte?«Mi marcò Bernd Förster, che giocava a destra, fratello di Karlheinz, centrale. Karlheinz era più forte. Non presi botte, fu una partita corretta. E io ero in forma magica. Aspettavo il mio momento. Volevo mettere la mia firma, fare goal, e ci riuscii».Tutto s’incastrò alla perfezione in una concomitanza di fattori che, a pensarci, sembra perfino incredibile…«Sono stato fortunato perché, primo, fui convocato; secondo, la squadra giunse in finale; terzo, segnai un goal; quarto, abbiamo vinto. È la partita che ogni giocatore sogna di giocare e vincere». La sua esultanza dopo il goal fu più moderata rispetto a quella, incontenibile, di Tardelli, che segnò la seconda rete. Ciò si lega a un suo tratto caratteriale?«Beh, ognuno ha un suo modo per esprimere le proprie emozioni. Tardelli ha avuto il suo ed è stato molto bello. Io il mio. C’è da dire che, essendo attaccante, per me segnare era anche un fatto normale».Che successe negli spogliatoi azzurri dopo la consegna della Coppa?«Dopo il fischio finale dell’arbitro, gli abbracci e le strette di mano, abbiamo subito ringraziato il Vecio (Bearzot, ndr), perché grazie a lui e al suo staff vincemmo quel mondiale: 7 partite, ma all’inizio giocammo piano, furono 3 pareggi, conservammo le energie per le altre 4. Il maestro di quella vittoria fu Bearzot. Negli spogliatoi entrarono i dirigenti della Federazione, lo staff di Pertini e anche quei giornalisti che ci avevano criticato e coperto d’insulti. Qualcuno fu anche cacciato. Brindammo. Sempre, nelle finali, ci sono le bottiglie negli spogliatoi. Se si vince si stappano, se si perde no».Dormiste quella notte?«No, nessuno di noi dormì. Avevamo dormito la notte prima. Andammo al ristorante, festeggiamo e il giorno dopo ci attendeva l’aereo di Stato messo a disposizione da Pertini».Cosa le esternò Pertini?«Fumando la sua pipa mi disse: “Allora, il suo è stato uno dei più bei goal dei Mondiali”. Penso avesse ragione. Me lo confermò anche Bearzot».All’epoca c’era ancora la lira. Ricorda a quanto ammontò il premio per quella vittoria?«Non ricordo esattamente, ma, comprese tutte le partite, credo sia stato di 100 milioni di lire. A dirlo ora viene quasi da ridere: 50.000 euro. Poi, però, dovemmo affrontare un’esperienza sgradevole…».Ossia?«Un giorno ai campanelli delle abitazioni di ciascuno di noi suonarono non ricordo se carabinieri o guardia di finanza. Ci accusavano di essere evasori. Poi abbiamo fatto ricorso e ci hanno dato ragione. Gli agenti quasi si vergognarono di quella notifica, dicendoci: “Scusate, ma dobbiamo farlo”. Io credo che ciò sia accaduto per la ripicca e l’invidia di qualche personaggio importante che non aveva digerito la nostra vittoria».Cosa fece dopo i festeggiamenti al vostro ritorno in Italia?«Fummo ricevuti al Quirinale, c’era anche Spadolini (all’epoca presidente del Consiglio, ndr). A Sonnino ci fu una grande festa. Poi raggiunsi mia moglie e mio figlio Andrea ad Arma di Taggia, in Liguria, al mare. Mio figlio era piccolo, nato nel 1977, e con mia moglie avevamo deciso che non ci raggiungessero in Spagna».Quel percorso che vi portò alla vittoria fu irto di polemiche e vi chiudeste nel silenzio stampa…«Intanto, se fossimo stati eliminati, i giornali ci avrebbero massacrato. Ma la vera ragione furono le cavolate scritte su Rossi e Cabrini, una balla magistrale, perché la storia ha dimostrato che ciò non era vero. Quella scelta fu giusta perché ci rese ancora più uniti».Ma perché ogni volta che la Nazionale parte per un Mondiale è vista con scetticismo? I tedeschi non fanno così. Autolesionismo degli italiani?«Il fatto è che l’Italia parte sempre come favorita, come Brasile, Germania, Argentina… Quindi deve vincere. Ma ciò non sempre può accadere. E le delusioni portano a esagerazioni giornalistiche».Bearzot vi faceva vedere le partite registrate delle squadre vostre avversarie?«Certo. Avevamo a disposizione una saletta con le video-cassette. Ogni tanto veniva anche lui. Le conosceva a memoria. Nel calcio nulla è lasciato al caso». Poteva accadere che venisse a galla, tra voi azzurri, qualche rivalità di club?«No, in quel momento non si guardava al colore delle maglie. Ciò poteva accadere nel corso di qualche partita di qualificazione ai Mondiali, dopo una domenica di campionato. Ma se due giocatori avevano litigato, ci pensava Bearzot a rimettere a posto le cose, dicendo: “Ooh Gentile, cazzo, che calcio gli hai dato”. Bearzot era un genio. E non è che puoi tenere il muso a un tuo compagno in Nazionale se hai litigato in campionato».Altobelli, come le venne la passione per il calcio? I suoi che lavoro facevano e la incoraggiarono a seguire questa strada?«Abitavo a Sonnino. Mio papà, Antonio, che è morto nel 2009, faceva il muratore a Roma, partiva la mattina e tornava la sera. Mia madre, Giovanna Grossi, la casalinga. Ho un fratello, Patrizio, di 6 anni più giovane di me. Vicino alla scuola c’era uno spazio dove giocavo a pallone tutto il giorno. Tornavo a casa 10 minuti prima del rientro di mio padre. Poi andai a fare il macellaio a Latina, ma quando il barbiere di Sonnino, Ventre Gaspare, che c’è ancora, mise in piedi una squadra, mi coinvolse e così tornai a Sonnino a fare sempre il macellaio, ma la domenica mattina dovevo giocare. Comunque sì, i miei mi sostennero». Come cambiò la sua vita da campione del mondo?«La mia vita cambiò quando da Sonnino mi trasferii a Brescia, dove stetti 3 anni, prima di passare all’Inter. Quello fu il vero cambiamento. Ma ero diventato famoso già nel 1977 con l’Inter. Certo, quella vittoria mi dette notorietà internazionale. Mi fermavano tutti chiedendomi l’autografo e ciò accade ancora».Giocò in serie A negli anni Settanta e Ottanta. Epoca tristemente ricordata anche per la violenza negli stadi, compreso l’omicidio di Vincenzo Paparelli, 33 anni, colpito da un razzo in un occhio all’Olimpico il 28 ottobre 1979. Che atmosfera si percepiva?«Noi calciatori cercavamo di far passare l’idea che eravamo avversari, non nemici. Il calcio era vissuto come uno sfogo delle persone, magari sfruttate durante la settimana…».Che ricordo ha di Paolo Rossi, volato altrove il 9 dicembre 2020?«Una grande figura, abbiamo avuto una carriera parallela, agli inizi io a Brescia, lui a Vicenza, sognava sempre di segnare in Nazionale e, quando era in crisi, lo confortavo».Nel 1991 fu eletto consigliere comunale per la Dc a Brescia. Come valuta quell’esperienza?«Non sono mai stato un politico, ma dovevo restituire alla gente ciò che mi ha dato. Fui assessore allo Sport e penso di aver fatto buone cose».È credente?«Assolutamente sì. E nella parete di una stanza a casa mia c’è un dipinto con la Crocifissione». A Sonnino ci sarà una grande festa per il quarantesimo anniversario della vittoria al Mundial ’82.«Certo, due giorni di festeggiamenti che mi sembrava giusto fare nel mio paese natale, dove ci conosciamo tutti, come nell’82. Ci sarà anche una partita tra Nazionale magistrati e vecchie glorie, con Conti, Graziani, Nela…». Ha fatto anche il commentatore sportivo per Al Jazeera e Rai.«Con Al Jazeera per 17 anni, di cui 6 a Milano e 11 in Qatar. Seguivo il calcio italiano. Mi trasferii a Doha. Tornavo a casa ogni mese. Fino a maggio ho collaborato in Rai». Sappiamo che è diventato anche nonno.«Sì, di tre nipoti, figli del mio secondogenito, Mattia, nato nel 1983. Carolina ha 11 anni, Leonardo 9 e Benedetta 10 mesi. Un bel triplete».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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