2019-01-16
Giulia Bongiorno: «Cambieremo il sangue agli uffici pubblici»
Il ministro: «Quota 100 per 140.000 dipendenti e un grande piano di assunzioni. Ma anche impronte digitali contro gli assenteisti. La bussola che guidava i governi di sinistra era: “Lo Stato non funziona, quindi tagliamo". Noi, invece, lo riportiamo in vita».Ministro, come sta?«Bene. Ma vivo reclusa, sempre in questo spazio».Intende dire a Roma? «No». Nel ministero?«Nemmeno». E dove? (Sorride). «La Pubblica amministrazione è un mondo a parte. Ogni giorno vivo dentro un comma». [...] E adesso ci sono anche i commi di quota 100 e Tfr. «Sono i prossimi provvedimenti. Due dei più titanici che si possa immaginare. Cambierà tutto e per molte persone». Per 140.000 dicono?«Per quota 100 la platea potenziale ha più o meno queste dimensioni. Ma ovviamente non smetteranno di lavorare tutti insieme. Ci sono gli altri però». Chi? «Per le correzioni al Trattamento di fine rapporto ho voluto un provvedimento per tutti, non solo per i “quotisti"». Di chi si tratta? «Il differimento del Tfr, a causa di una legge del 2011, riguarda ovviamente tutti i dipendenti pubblici». C'è gente che aspetta da due anni!«Esatto. Partendo da quota 100 abbiamo sentito l'obbligo di affrontarlo per tutti». L'obbligo? «Non mi arrestava nessuno, ovvio. Ma per quel che mi riguarda c'è l'obbligo morale: non puoi creare dipendenti di serie A o B». In che senso? «Prevedendo l'anticipazione solo per i quotisti, avremmo favorito solo questa categoria, trascurando tutti gli altri dipendenti». Certo. «È una misura che costa, ma stiamo lavorando per stipulare convenzioni con tassi agevolati con le banche. È importante affrontare globalmente il problema». Il Tfr inciderà sulla scelta dei dipendenti? «Certo, molti decideranno se andare in pensione o no - giustamente - solo quando sapranno se prendono il Tfr subito, e in che percentuale». Se mai fosse possibile Giulia Bongiorno sembra dimagrita: «Lavoro giorno e notte. E non mi lamento, anzi. Ho la sensazione che molte cose stiano cambiando». Sul suo tavolo si affollano problemi diversissimi: ma la riforma delle pensioni è una chiave di volta: «Contribuisce insieme ad altre misure ad avviare il più grande ricambio generazionale mai programmato in Italia». Quota 100 produrrà effetti enormi nella Pubblica amministrazione? «Su questo non c'è dubbio, anche perché dal 2019 è previsto del turnover al 100 per cento e assunzioni straordinarie». Ma come realizzerete queste cose? (Sorride e mostra tre pile di fascicoli). «Li vede questi libri firma in pelle blu?». Certo. «Bene, è curioso: credevo di essere la libera professionista più libera d'Italia, e finché ho diretto il mio studio legale lo ero...». E ora che cosa è cambiato? (Altro sorriso). «Sto diventando la prima datrice di lavoro d'Italia». Da dove cominciamo? «Quota 100 è prevista per tutti i dipendenti pubblici, ma devo garantire la continuità del servizio pubblico». C'è un conflitto di interessi tra queste sue esigenze?«Si devono bilanciare, io devo garantire cittadini e imprese. Se ci sono uscite ci devono essere ingressi. Ma non può esserci interruzione di servizio». Come si aggira il blocco del turnover?«Io rivendico di essere il primo ministro, dopo dieci anni, che ha sbloccato il turnover: abbiamo preso una decisione, come governo, e io garantirò che se escono 100 dipendenti ne devono entrare altrettanti». Ma dal 2011 questo ricambio era bloccato!«Nel triennio precedente ne uscivano 100 e ne entravano, più o meno, 25». Perché? «Era passato questo assioma: “Siccome il pubblico non funziona, lo taglio"». Come mai? (Increspatura di sorriso). «È un proclama acchiappa consensi con applausi garantiti». E lei lo mette in discussione? «A partire dalla mia esperienza. Per 25 anni, avendo calpestato la polvere dei tribunali, so che la giustizia ha tempi da lumaca, non per una misteriosa paralisi, ma perché non ci sono i cancellieri». E questo come si combina con le assunzioni? «La sinistra diceva: se il pubblico non funziona non ha più senso investire. Io invece sono convinta che va cambiato il sangue nei pubblici uffici». [...]Mi racconti la cosa più folle della Pubblica amministrazione che ha visto da quando è qui.(Sospiro). «Direi gli scatoloni». Cioè? «Da quando sono qui ho istituito un rapporto bisettimanale sull'assenteismo». Bene. «Il fenomeno è dilagante. Mi sono convinta che bisognava correre sull'introduzione delle impronte digitali per attestare la presenza dei dipendenti in ufficio e ho capito che non erano sufficienti le telecamere quando ho letto in una relazione che alcuni, per non farsi identificare, andavano a timbrare il cartellino altrui con gli scatoloni in testa». Ma il Garante le ha detto che le impronte possono violare la privacy. «E così ci siamo inventati una app: tu metti il dito sul tuo telefonino, che riconosce l'impronta e la converte in un codice alfanumerico per il cartellino». Geniale. «È una soluzione che abbiamo trovato con la collaborazione del ministero dell'Economia. Perché nei ministeri ci sono tante persone geniali».
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
Continua a leggereRiduci