2020-03-05
«Cambiare abitudini è la cosa più difficile»
L'infettivologo Marcello Tavio sta combattendo in prima linea il coronavirus: «Il problema più grande davanti al contagio è calare nel quotidiano le misure che la scienza prescrive. Senza moltiplicare l'ansia. È più allarmato chi non ha contratto il morbo rispetto a chi ce l'ha».«Io però ho zero follower». È un innegabile vantaggio; senza il rumore di fondo del circo digitale tutto sembra più limpido, perfino spiegabile. E il professor Marcello Tavio, infettivologo di caratura internazionale, presidente del Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali), è nella posizione ideale per fare l'identikit al coronavirus e a noi che lo temiamo. Lo sta combattendo in prima linea, da medico, agli Ospedali Riuniti di Ancona. E al tempo stesso osserva le reazioni dei pazienti, coglie il modificarsi delle abitudini, lo stemperarsi o l'acuirsi delle paure. «L'approccio psicologico è fondamentale per vincere il nemico invisibile».Professore, ha mai vissuto prima d'ora un'epidemia così aggressiva?«Un'esperienza diretta su una patologia che fa morire persone in così poco tempo no. Però noi infettivologi abbiamo vissuto l'epidemia dell'Aids, una lunga stagione che non dimenticheremo mai, con tanti giovani che venivano a morire in ospedale. Molti colleghi, come me, sono diventati specialisti in infettivologia per combattere quel flagello. Niente a che vedere con la realtà di oggi; le ricordo che allora il tasso di mortalità era vicino al 100%».Come affrontano il coronavirus i pazienti contagiati?«L'elemento psicologico in questa patologia è importante. Parlo per esperienza diretta su una decina di pazienti: arrivano tranquilli, si sottopongono alle cure con fiducia. Con la composta consapevolezza di avere una malattia che tutti temiamo, ma di essere in grado di vincerla. Ho la sensazione che ci sia più allarme in chi non ha il coronavirus che in chi ce l'ha».Ha notato mutare l'approccio dopo le prime settimane?«All'inizio c'era maggiore distacco, sembrava una malattia che riguardava solo il popolo cinese. Ora c'è maggiore timore, maggiore prudenza, maggiore saggezza nell'affrontare la prova. Ora è come se fossimo una provincia cinese».Qual è il problema più grande davanti al contagio?«È la difficoltà per le persone di calare nella vita di tutti i giorni le misure che la scienza prescrive. E farlo senza moltiplicare l'ansia. Sembra banale, ma stare a un metro di distanza, non stringere la mano, indossare la mascherina significa cambiare modo di relazionarsi con gli altri».Lo si fa controvoglia, serpeggia lo scetticismo.«Eppure è fondamentale. Eppure vale la pena modificare i comportamenti perché ridurre i contatti significa fiaccare il virus, creargli difficoltà di espansione. È il motivo per il quale d'estate i virus si indeboliscono».Perché accade questo?«Semplice, perché si allargano le maglie della vita sociale, ci si prende qualche metro di distanza in più, ci sono meno assembramenti in luoghi chiusi. Proprio quelli vietati in queste settimane».Anche il caldo dovrebbe essere un nemico del virus. Il tempo gioca a nostro favore?«In assoluto sì, ma non farei troppo affidamento sulla calura. In un corpo con temperatura di 37 gradi il virus vive senza problemi, quindi gli stress termici non gli fanno male. A meno che non si tratti di temperature incompatibili con il nostro comfort vitale. Piuttosto, a creare una risposta saranno gli anticorpi. E si realizzerà la cosiddetta immunità di gregge». Per quanto tempo dovremo sospendere la nostra esistenza normale?«Quella del tempo è una variabile che mette paura perché mina la certezza più grande. Fino a quando devo prendere quella medicina? Risposta: fino a quando hai la febbre. Con il coronavirus non lo sappiamo. La domanda è: siamo vicini al picco? La risposta può essere, con una metafora cara a Vujadin Boskov: picco c'è quando discesa comincia. Speriamo presto».La professoressa Ilaria Capua in un'intervista ha detto che i contagiati potrebbero essere molti di più dei 2500 dichiarati. Anche dieci, cento volte di più.«Ci si può dividere sulle interpretazioni ma non sui numeri. Mi devo affidare alle autorità sanitarie cinesi che hanno detto che il tasso di mortalità è attorno al 2%. Ecco, quel dato si sta riproducendo da noi, anche con qualche decimale in più. Questo conta. Poi l'interpretazione della professoressa Capua è sostenibile».Dobbiamo scongiurare un contagio diffuso in altre regioni dove la Sanità non è come quella di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna?«Dobbiamo scongiurare un contagio diffuso, punto. Poi non so fino a che punto gli italiani siano consapevoli di avere a disposizione una struttura specialistica di prim'ordine per le malattie infettive. Il livello è alto ovunque, più che in altri Paesi avanzati».La globalizzazione, gli spostamenti di popoli influiscono sulla diffusione di un virus?«Qualche giorno fa un tassista mi diceva: “Bisogna che i cinesi capiscano che non è più come una volta; siamo tutti sulla stessa barca". Sarà anche banale, ma è una grande verità. Le patologie nascono in un luogo e si trasmettono nel mondo. E allora bisogna contrastarle in un modo nuovo».Quale, professor Tavio?«Uso un termine che apre a un tema enorme: One health, una sanità comune. Si è capito che la Terra ha bisogno di cure globali per vincere virus globali. È un impegno enorme e indifferibile per limitare i danni. Il coronavirus ha semplicemente preso l'aereo, nient'altro».
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)
Il valico di Rafah (Getty Images)