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2023-10-05
Strage bus, malore o manovra errata. Sigilli a guardrail e motore elettrico
(Ansa/Vigili del Fuoco)
A più di ventiquattrore di distanza dall’incidente di Mestre, con la morte di 21 persone che viaggiavano a bordo di un autobus elettrico, sul tavolo del procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, iniziano già a esserci alcuni punti fermi. Certo, l’inchiesta per omicidio stradale plurimo colposo è stata appena aperta (non ci sono ancora indagati), ma i rilievi della polizia giudiziaria possono già assicurare che «non ci sono stati segni di frenata», che «non c’è stato alcun contatto con altri mezzi» e che «l’autobus ha sbandato sulla destra, ha strisciato il guardrail per circa cinquanta metri prima di sfondarlo e cadere».
Del resto, il video che circola da ieri su internet indica in maniera abbastanza esaustiva la dinamica dell’incidente. È un filmato registrato dalla Smart control room che coordina i servizi di sicurezza del Comune lagunare e che è stato acquisito dalla Polizia locale. È su questi elementi che ha iniziato a prendere forma l’indagine della Procura veneziana che dovrà, soprattutto, stabilire come sia stato possibile che un pullman elettrico di 13 tonnellate abbia spezzato con così grande facilità una barriera di protezione, quasi come un coltello caldo in un panetto di burro.
Rispetto all’autista, Alberto Rizzotto, il quarantenne che ha perso la vita nell’incidente, dovranno essere ancora effettuati tutti gli accertamenti.
Le ipotesi restano sempre le stesse, al momento: la manovra azzardata o il malore. Ma tutto sarà più chiaro dopo che sarà effettuata l’autopsia. Di sicuro, secondo quanto riferisce il direttore della compagnia, Tiziano Idra, Rizzotto stava «guidando da tre ore e mezzo, peraltro non continuative» prima dell’incidente. «Non lavorava dal giorno prima», ha spiegato, «quindi aveva goduto abbondantemente delle ore di riposo previste. Non era certo stanco». A Massimo Fiorese, amministratore delegato della società La Linea, proprietaria di Martini bus di cui era dipendente l’autista, è toccato il riconoscimento della salma. Rizzotto, stando alle sue parole, aveva una vita tranquilla, viveva insieme ai genitori e veniva sottoposto regolarmente a visite mediche aziendali. «Era un autista esperto, era con noi da tanti anni, non ha mai dato problemi, era serio, appassionatissimo del suo lavoro», ha spiegato Fiorese. Aggiungendo, però, un dettaglio importante: «Quello è un guardrail vecchio, degli anni Cinquanta, forse è una concausa dell’incidente». «Guardando le immagini si nota quasi l’autobus fermo, poi l’attimo in cui precipita, fotogrammi che fanno ipotizzare che possa essersi trattato di un malore».
Non a caso ieri si è scoperto che il Comune di Venezia aveva avviato i lavori di rifacimento del cavalcavia da qualche settimana per un investimento di 6 milioni di euro. La struttura è ormai totalmente corrosa dalla ruggine e, secondo alcuni, mai ristrutturata dagli anni Settanta. Per di più, secondo l’associazione Asaps (il portale della sicurezza stradale), quel guardrail era troppo basso e inadeguato per contenere un veicolo del peso molto elevato, anche perché elettrico, dell’autobus precipitato. Un aspetto che ricorda l’incidente di Acqualonga in provincia di Avellino, avvenuto sull’autostrada A16 il 28 luglio 2013, quando un autobus da turismo cadde da un viadotto a causa di una rottura dei freni: morirono 40 persone. A settembre si è concluso il processo di appello. L’ex ad di Aspi Giovanni Castellucci è stato condannato a 6 anni di reclusione, insieme al dg dell’epoca, Riccardo Mollo, e ai dipendenti di Aspi Massimo Giulio Fornaci e Marco Perna.
Il tema della manutenzione dei guardrail è di stretta attualità nel settore dei trasporti, anche perché da tempo, in Europa e nel mondo, si sta lavorando per cambiare le vecchie strutture in acciaio con new jersey in calcestruzzo, di sicuro più capaci di contenere veicoli pesanti. Ora bisognerà capire se la Procura veneziana inserirà la manutenzione del cavalcavia come una delle concause dell’incidente. Non solo. Andrà anche spiegato il ruolo che hanno avuto le batterie al litio nell’incendio che si è sprigionato successivamente.
Non a caso, lo stesso procuratore ha sottolineato, che dovranno essere disposti gli accertamenti, oltre che sulla salma dell’autista, anche sulla batteria al litio e sulle scatole nere presenti sul mezzo elettrico. Stando alle prime testimonianze, il primo a dare i soccorsi sarebbe stato l’autista di un altro bus che era stato affiancato dall’autobus precipitato: sarebbe stato proprio lui a lanciare per primo l’estintore verso il veicolo in fiamme. Di sicuro è servito a poco. Come noto, una volta che le batterie di un mezzo di questo tipo sono in fiamme, è necessario un intervento qualificato dei vigili del fuoco, con schiuma o estintori speciali. Le celle agli ioni di litio non si spengono con la semplice acqua, anzi è vietato usarla per non peggiorare la situazione.
Il pullman è stato posto sotto sequestro e potrebbe volerci qualche giorno prima di poterlo esaminare, data appunto anche la complessità degli impianti elettrici andati in fumo.
Tra le vittime un neonato e una giovane sposina. Alcuni minori gravissimi
Fuori dall’ospedale di Mestre, ieri mattina, c’era un gran viavai di gente. La polizia, piazzata davanti l’entrata, non lasciava entrare nessuno. Nemmeno per andare in bagno. Fuori c’erano giornalisti, cameraman, vigilanti. Qui è stata allestita una stanza per i parenti delle vittime dell’incidente dell’autobus, che continuano a rivedere quel pullman che sfonda il parapetto e i guardrail, ormai vetusti e che «sembrano di cartapesta», per precipitare giù dal cavalcavia e schiantarsi al suolo. Del resto basta guardarli questi parapetti, così arrugginiti, così rancidi, così sbilenchi. A occhio, non riuscirebbero nemmeno a sorreggere una bici, figuriamoci un bus di 13 tonnellate. Il bilancio finale è di 21 morti.
L’aria, sulla zona della tragedia e attorno all’ospedale, è pesante. Fuori dalla stanza adibita per i parenti, le persone si sorreggono l’un l’altra. Controllano i documenti, parlano con gli psicologi. Fuori dall’obitorio è uno strazio continuo. Le vittime sono tutte giovani. Tra i morti c’è anche un neonato. C’erano due neo sposini in viaggio di nozze: lei è morta, si chiamava Antonela Perkovic, lui è rimasto ferito. Anche l’autista, veneto di Tezze, Alberto Rizzotto, è morto. Aveva 40 anni. Sul suo pullman erano tutti turisti stranieri e stavano tornando al camping Hu a Marghera, dopo una gita a Venezia.
Il prefetto di Venezia, Michele di Bari, ha comunicato ieri sera che sono state identificate tutte le vittime dell’incidente del bus. Sono nove ucraini, quattro rumeni, tre tedeschi, un italiano (l’autista), un croato, due portoghesi, un sudafricano. Sono stati identificati quasi tutti i feriti: cinque sono ucraini, un tedesco, un francese, un croato, due spagnoli e tre austriaci. Due devono essere ancora identificati. Tre sono minorenni, di cui una ucraina ricoverata a Padova e due tedeschi a Treviso. Qui hanno svuotato il pronto soccorso per far spazio alle vittime dell’autobus e, per la prima volta, si è attivato il protocollo del livello 3, il più alto, del Peimaf (il Piano emergenza interno massiccio afflusso feriti).
Una bambina gravemente ustionata è stata trasportata in elisoccorso a Padova. Versa, purtroppo, in condizioni disperate. Un dodicenne e una ragazza minorenne sono rimasti intrappolati tra i rottami del bus che, nella caduta, si è completamente capovolto, schiantandosi al suolo dopo un volo di quasi 15 metri.
Dieci sono in terapia intensiva. Gli adulti sono 12, i ragazzi sono tre. In totale sono cinque gli ospedali veneti che hanno aperto le porte ai feriti: Mirano (Venezia), Dolo (Venezia), Padova, Treviso e Mestre. In tutta questa orrenda tragedia un miracolo c’è: è il neonato che è sopravvissuto alla strage. È rimasto anche lui incastrato tra i rottami dell’autobus accartocciato ma si è salvato forse perché rannicchiato tra i corpi del padre e della madre che evidentemente, prima dello schianto, hanno tentato il tutto e per tutto per salvarlo. Una reazione istintiva in questo immenso miracolo della vita che fa i conti con la morte.
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La Procura di Venezia indaga per il reato di omicidio stradale plurimo: «Nessuna frenata o contatto con altri mezzi. Autopsia sull’autista determinante». Acquisita la scatola nera del pullman. I morti sono 21, i feriti 15.Un bebè si è salvato perché i genitori hanno fatto da scudo con il loro corpo. Passeggeri ricoverati in cinque ospedali.Lo speciale contiene due articoli.A più di ventiquattrore di distanza dall’incidente di Mestre, con la morte di 21 persone che viaggiavano a bordo di un autobus elettrico, sul tavolo del procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi, iniziano già a esserci alcuni punti fermi. Certo, l’inchiesta per omicidio stradale plurimo colposo è stata appena aperta (non ci sono ancora indagati), ma i rilievi della polizia giudiziaria possono già assicurare che «non ci sono stati segni di frenata», che «non c’è stato alcun contatto con altri mezzi» e che «l’autobus ha sbandato sulla destra, ha strisciato il guardrail per circa cinquanta metri prima di sfondarlo e cadere».Del resto, il video che circola da ieri su internet indica in maniera abbastanza esaustiva la dinamica dell’incidente. È un filmato registrato dalla Smart control room che coordina i servizi di sicurezza del Comune lagunare e che è stato acquisito dalla Polizia locale. È su questi elementi che ha iniziato a prendere forma l’indagine della Procura veneziana che dovrà, soprattutto, stabilire come sia stato possibile che un pullman elettrico di 13 tonnellate abbia spezzato con così grande facilità una barriera di protezione, quasi come un coltello caldo in un panetto di burro.Rispetto all’autista, Alberto Rizzotto, il quarantenne che ha perso la vita nell’incidente, dovranno essere ancora effettuati tutti gli accertamenti.Le ipotesi restano sempre le stesse, al momento: la manovra azzardata o il malore. Ma tutto sarà più chiaro dopo che sarà effettuata l’autopsia. Di sicuro, secondo quanto riferisce il direttore della compagnia, Tiziano Idra, Rizzotto stava «guidando da tre ore e mezzo, peraltro non continuative» prima dell’incidente. «Non lavorava dal giorno prima», ha spiegato, «quindi aveva goduto abbondantemente delle ore di riposo previste. Non era certo stanco». A Massimo Fiorese, amministratore delegato della società La Linea, proprietaria di Martini bus di cui era dipendente l’autista, è toccato il riconoscimento della salma. Rizzotto, stando alle sue parole, aveva una vita tranquilla, viveva insieme ai genitori e veniva sottoposto regolarmente a visite mediche aziendali. «Era un autista esperto, era con noi da tanti anni, non ha mai dato problemi, era serio, appassionatissimo del suo lavoro», ha spiegato Fiorese. Aggiungendo, però, un dettaglio importante: «Quello è un guardrail vecchio, degli anni Cinquanta, forse è una concausa dell’incidente». «Guardando le immagini si nota quasi l’autobus fermo, poi l’attimo in cui precipita, fotogrammi che fanno ipotizzare che possa essersi trattato di un malore».Non a caso ieri si è scoperto che il Comune di Venezia aveva avviato i lavori di rifacimento del cavalcavia da qualche settimana per un investimento di 6 milioni di euro. La struttura è ormai totalmente corrosa dalla ruggine e, secondo alcuni, mai ristrutturata dagli anni Settanta. Per di più, secondo l’associazione Asaps (il portale della sicurezza stradale), quel guardrail era troppo basso e inadeguato per contenere un veicolo del peso molto elevato, anche perché elettrico, dell’autobus precipitato. Un aspetto che ricorda l’incidente di Acqualonga in provincia di Avellino, avvenuto sull’autostrada A16 il 28 luglio 2013, quando un autobus da turismo cadde da un viadotto a causa di una rottura dei freni: morirono 40 persone. A settembre si è concluso il processo di appello. L’ex ad di Aspi Giovanni Castellucci è stato condannato a 6 anni di reclusione, insieme al dg dell’epoca, Riccardo Mollo, e ai dipendenti di Aspi Massimo Giulio Fornaci e Marco Perna.Il tema della manutenzione dei guardrail è di stretta attualità nel settore dei trasporti, anche perché da tempo, in Europa e nel mondo, si sta lavorando per cambiare le vecchie strutture in acciaio con new jersey in calcestruzzo, di sicuro più capaci di contenere veicoli pesanti. Ora bisognerà capire se la Procura veneziana inserirà la manutenzione del cavalcavia come una delle concause dell’incidente. Non solo. Andrà anche spiegato il ruolo che hanno avuto le batterie al litio nell’incendio che si è sprigionato successivamente.Non a caso, lo stesso procuratore ha sottolineato, che dovranno essere disposti gli accertamenti, oltre che sulla salma dell’autista, anche sulla batteria al litio e sulle scatole nere presenti sul mezzo elettrico. Stando alle prime testimonianze, il primo a dare i soccorsi sarebbe stato l’autista di un altro bus che era stato affiancato dall’autobus precipitato: sarebbe stato proprio lui a lanciare per primo l’estintore verso il veicolo in fiamme. Di sicuro è servito a poco. Come noto, una volta che le batterie di un mezzo di questo tipo sono in fiamme, è necessario un intervento qualificato dei vigili del fuoco, con schiuma o estintori speciali. Le celle agli ioni di litio non si spengono con la semplice acqua, anzi è vietato usarla per non peggiorare la situazione.Il pullman è stato posto sotto sequestro e potrebbe volerci qualche giorno prima di poterlo esaminare, data appunto anche la complessità degli impianti elettrici andati in fumo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bus-mestre-incidente-2665797727.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tra-le-vittime-un-neonato-e-una-giovane-sposina-alcuni-minori-gravissimi" data-post-id="2665797727" data-published-at="1696455529" data-use-pagination="False"> Tra le vittime un neonato e una giovane sposina. Alcuni minori gravissimi Fuori dall’ospedale di Mestre, ieri mattina, c’era un gran viavai di gente. La polizia, piazzata davanti l’entrata, non lasciava entrare nessuno. Nemmeno per andare in bagno. Fuori c’erano giornalisti, cameraman, vigilanti. Qui è stata allestita una stanza per i parenti delle vittime dell’incidente dell’autobus, che continuano a rivedere quel pullman che sfonda il parapetto e i guardrail, ormai vetusti e che «sembrano di cartapesta», per precipitare giù dal cavalcavia e schiantarsi al suolo. Del resto basta guardarli questi parapetti, così arrugginiti, così rancidi, così sbilenchi. A occhio, non riuscirebbero nemmeno a sorreggere una bici, figuriamoci un bus di 13 tonnellate. Il bilancio finale è di 21 morti. L’aria, sulla zona della tragedia e attorno all’ospedale, è pesante. Fuori dalla stanza adibita per i parenti, le persone si sorreggono l’un l’altra. Controllano i documenti, parlano con gli psicologi. Fuori dall’obitorio è uno strazio continuo. Le vittime sono tutte giovani. Tra i morti c’è anche un neonato. C’erano due neo sposini in viaggio di nozze: lei è morta, si chiamava Antonela Perkovic, lui è rimasto ferito. Anche l’autista, veneto di Tezze, Alberto Rizzotto, è morto. Aveva 40 anni. Sul suo pullman erano tutti turisti stranieri e stavano tornando al camping Hu a Marghera, dopo una gita a Venezia. Il prefetto di Venezia, Michele di Bari, ha comunicato ieri sera che sono state identificate tutte le vittime dell’incidente del bus. Sono nove ucraini, quattro rumeni, tre tedeschi, un italiano (l’autista), un croato, due portoghesi, un sudafricano. Sono stati identificati quasi tutti i feriti: cinque sono ucraini, un tedesco, un francese, un croato, due spagnoli e tre austriaci. Due devono essere ancora identificati. Tre sono minorenni, di cui una ucraina ricoverata a Padova e due tedeschi a Treviso. Qui hanno svuotato il pronto soccorso per far spazio alle vittime dell’autobus e, per la prima volta, si è attivato il protocollo del livello 3, il più alto, del Peimaf (il Piano emergenza interno massiccio afflusso feriti). Una bambina gravemente ustionata è stata trasportata in elisoccorso a Padova. Versa, purtroppo, in condizioni disperate. Un dodicenne e una ragazza minorenne sono rimasti intrappolati tra i rottami del bus che, nella caduta, si è completamente capovolto, schiantandosi al suolo dopo un volo di quasi 15 metri. Dieci sono in terapia intensiva. Gli adulti sono 12, i ragazzi sono tre. In totale sono cinque gli ospedali veneti che hanno aperto le porte ai feriti: Mirano (Venezia), Dolo (Venezia), Padova, Treviso e Mestre. In tutta questa orrenda tragedia un miracolo c’è: è il neonato che è sopravvissuto alla strage. È rimasto anche lui incastrato tra i rottami dell’autobus accartocciato ma si è salvato forse perché rannicchiato tra i corpi del padre e della madre che evidentemente, prima dello schianto, hanno tentato il tutto e per tutto per salvarlo. Una reazione istintiva in questo immenso miracolo della vita che fa i conti con la morte.
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.
A Bruxelles c’è nervosismo: l’Italia ha smesso di dire sempre sì. Su Ucraina, fondi russi e accordo Mercosur, Roma alza la voce e rimette al centro interessi nazionali, imprese e agricoltori. Mentre l’UE spinge, l’Italia frena e negozia. Risultato? L’Italia è tornata a contare. E in Europa se ne sono accorti.