- A partire dal prossimo gennaio, la normativa Esg impone alle grandi società e a tutte le quotate assieme al bilancio di redarre il rendiconto di sostenibilità: aumenteranno spese e adempimenti inutili. Assonime: «Complessità e difficoltà operative importanti».
- Uno studio della Cgia di Mestre mostra i danni provocati dall’inefficienza della Pa.
A partire dal prossimo gennaio, la normativa Esg impone alle grandi società e a tutte le quotate assieme al bilancio di redarre il rendiconto di sostenibilità: aumenteranno spese e adempimenti inutili. Assonime: «Complessità e difficoltà operative importanti».Uno studio della Cgia di Mestre mostra i danni provocati dall’inefficienza della Pa.Lo speciale contiene due articoli.Si sta per abbattere sulle imprese italiane l’ennesimo mostro burocratico concepito da Bruxelles. Si tratta della rendicontazione societarie di sostenibilità, che circa 4.000 grandi imprese italiane (insieme con altre 36.000 nella Ue) dovranno redigere per l’anno 2025, facendo riferimento ai recenti standard di rendicontazione uniformi a livello europeo.In questi giorni l’agitazione è grande perché i vertici aziendali stanno maturando piena consapevolezza dello tsunami di burocrazia in arrivo, dei conseguenti costi e dell’impatto sull’organizzazione aziendale. Infatti, fino alla pubblicazione del decreto legislativo 125 del 6 settembre scorso, il bubbone era ancora sottotraccia, riservato agli addetti ai lavori, pronti a cogliere al volo una lucrosa opportunità di consulenza. Ora invece bisogna passare alla fase esecutiva e approntare un adeguato sistema di rilevazione, attivo già a gennaio, per consentire di redigere il rendiconto dell’anno e gli amministratori delegati si sono visti sottoporre piani di azione costosi e da realizzare in tutta fretta in poche settimane. Obiettivo impossibile da conseguire per cui il rinvio al 2026 appare doveroso.E non si tratta più di qualche informazione raccolta qua e là negli anni passati in forma volontaria per raccontare quanto la propria azienda fosse attenta all’ambiente, ai lavoratori e al buon governo societario. Ora abbiamo 12 principi di rendicontazione che in modo granulare richiedono informazioni e dati rispetto ai cambiamenti climatici, all’inquinamento, alle risorse idriche e marine, all’uso delle risorse e all’economia circolare, alla biodiversità e ecosistemi, alla forza lavoro, alle comunità interessate, ai consumatori finali, e alla condotta delle imprese. Perfino Assonime, in una recente circolare, ha parlato di «complessità e di difficoltà operative importanti che rappresentano una difficile sfida per tutte le imprese». Per non parlare della necessità di estendere l’indagine alla catena di fornitura a monte e a valle.Il tutto da fornire sia a livello individuale che di gruppo, all’interno della relazione sulla gestione che è parte dell’informativa del bilancio economico-patrimoniale-finanziario normalmente pubblicato dalle società di capitali e attestato da un apposito revisore della sostenibilità. Con riferimento a quelle questioni di sostenibilità, serve, ad esempio, produrre piani per conseguire la neutralità climatica dell’impresa entro il 2050, obiettivi quantitativi di riduzione delle emissioni di gas serra almeno per il 2030 e il 2050, identificare le strategie aziendali e il ruolo degli amministratori, predisporre un sistema di indicatori, eccetera… Ma nel decreto delegato catapultato da Bruxelles per recepire la direttiva che è all’origine della vicenda, non manca il passaggio tragicomico della necessità di descrivere e attuare «le procedure di dovuta diligenza», che in italiano non significa nulla ma è purtroppo solo la maccheronica traduzione (avranno usato Google translator?) dell’inglese «due diligence». In italiano avrebbero dovuto scrivere «processo organizzato di raccolta e di analisi di informazioni dettagliate di varia natura» (Treccani). Uno strafalcione madornale che potrebbe invalidare la stessa norma.Ai tempi impossibili da rispettare, si aggiunge proprio l’illogicità di questo report che perciò va contestato in radice. Infatti le imprese italiane (soprattutto le grandi) sono, fino a prova contraria accertata in giudizio, «sostenibili» senza necessità di alcun rendiconto. In quanto, su tutte le questioni Esg, sono già da tempo soggette a una pletora di leggi, il cui mancato rispetto determina spessa una sanzione penale. Ad esempio, rispettano i limiti di legge per l’inquinamento, risparmiano energia e riciclano, rispettano il diritto del lavoro, adottano regole di governo aziendale per impedire corruzione e frodi. Ma non lo fanno perché qualcuno richiede patenti di sostenibilità, peraltro difficilmente misurabili, ma perché lo impone la necessaria economicità della gestione.Per tale essenziale motivo, il rendiconto costituisce soltanto un aggravio di costi e burocrazia e un’intromissione nelle scelte aziendali e nella libertà d’impresa, i cui limiti e modalità di esercizio (di cui all’articolo 41 della Costituzione) sono già presenti nelle leggi oggi vigenti.C’è da dubitare che tali informazioni servano ai consumatori o agli investitori. Questi ultimi - come negli Usa hanno detto forte e chiaro a Larry Fink di Blackrock - sono interessati al profitto, ovviamente conseguito in modo lecito, il resto non interessa.Sono le banche che stanno spingendo su questo tema, e lo fanno perché sono sotto pressione da parte della Bce. Che, a sua volta, si è intestata la missione di braccio armato del Green deal della Commissione uscente di Ursula von der Leyen. Una incredibile esondazione dal ruolo di gestore della politica monetaria. Il presidente Christine Lagarde pretende che le banche indirizzino il loro credito alle imprese discriminando in relazione alla sostenibilità, ancor più e prima dei criteri economico-finanziari. Le banche però finora hanno trovato solo inerzia o rifiuti da parte delle imprese e sono sotto la pesante pressione regolamentare dell’Eurotower. Negli Usa, lo stesso perverso andazzo è stato subito corretto dal presidente della Fed Jerome Powell con un discorso a Stanford nell’aprile scorso, quando ha spazzato via tutto con il memorabile «non siamo, né cerchiamo di essere, policymaker sul clima».Oltreoceano il vento è già cambiato, mentre qui respiriamo ancora i tossici sottoprodotti del Green deal, seguendo i quali fare impresa è ormai diventata un’Impresa.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/burocrazia-green-europa-2669941736.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="alle-aziende-i-cavilli-pubblici-costano-gia-80-miliardi-di-euro-allanno" data-post-id="2669941736" data-published-at="1732016159" data-use-pagination="False"> Alle aziende i cavilli pubblici costano già 80 miliardi di euro all’anno Un’altra mazzata sta per arrivare sulla testa degli imprenditori italiani con l’entrata in vigore del decreto legislativo 125/2024 che obbliga le aziende a inserire nei loro bilanci anche gli obiettivi di sostenibilità raggiunti. Di certo, un bel regalo alle società di consulenza che devono approvarne i bilanci aziendali e una bella gatta da pelare per gli imprenditori che vedranno salire ancora i costi legati alla burocrazia. Su quanto l’aumento della burocrazia possa pesare sulle tasche degli imprenditori non ci sono dati certi, quello che è chiaro, però, è che si tratti di un altro ostacolo nella già difficile corsa che i datori di lavoro italiani devono affrontare ogni anno. A testimoniare le difficoltà di una burocrazia italiana lenta e costosa ci pensa uno studio della Cgia di Mestre il cui centro studi è guidato da Paolo Zabeo. Come spiega l’associazione, «la cattiva abitudine della nostra Pubblica amministrazione di richiedere, in particolare alle imprese, dati e documenti che le amministrazioni già possiedono è diventata una prassi consolidata». Questi disservizi, purtroppo, hanno una ricaduta economica spaventosamente elevata. «Elaborando alcuni dati pubblicati dall’Ocse, per le nostre Pmi il costo annuo ascrivibile all’espletamento delle procedure amministrative è di 80 miliardi di euro. Praticamente una tassa nascosta da far tremare i polsi. La complessità nell’adempiere alle procedure imposte dalla nostra Pa è un problema che in Italia è sentito da ben 73 imprenditori su 100», spiega l’indagine. Tra i 20 Paesi dell’area dell’euro solo in Slovacchia (78), in Grecia (80) e in Francia (84) la percentuale degli intervistati che ha denunciato questo problema è superiore al tasso riferito al nostro Paese. La media dell’Eurozona è pari a 57. Qualsiasi osservatore farebbe fatica a immaginare che in un Paese la Pubblica amministrazione possa rappresentare un ostacolo, anziché un elemento di sostegno e di crescita economica. Ma in Italia, purtroppo, le cose stanno diversamente. Si pensi che, in virtù del Regional competitiveness index, con riferimento al sub indice relativo al contesto internazionale, tra tutte le realtà italiane, la prima, la Provincia autonoma di Trento, si posiziona al 158° posto, su 234 territori Ue monitorati in questa indagine. D’altronde, secondo uno studio dell’Ocse, l’inefficienza della nostra Pubblica amministrazione ha delle ricadute negative sul livello di produttività delle imprese private. In buona sostanza, dai calcoli dell’Organizzazione ottenuti attraverso l’incrocio della banca dati Orbis del Bureau van Dijk e dei dati di Open civitas, emerge che la produttività media del lavoro delle imprese è più elevata nelle zone dove l’amministrazione pubblica è più efficiente (sempre il Nord Italia). Diversamente, dove la giustizia funziona peggio, la Sanità è malconcia e le infrastrutture sono insufficienti (prevalentemente al Sud), anche le imprese private di quelperdono competitività. L’Institutional quality index è un indice che misura la qualità delle istituzioni pubbliche presenti in tutte le realtà territoriali italiane concepito nel 2014 dall’Università degli studi di Napoli Federico II. Questo misuratore assume un valore che va da 0 a 1. La realtà territoriale più virtuosa d’Italia è Trento, con indice Iqi 2019 pari a 1; rispetto a dieci anni prima la Provincia trentina ha recuperato due posizioni a livello nazionale. Seguono al secondo posto Trieste e al terzo Treviso. Appena fuori dal podio troviamo Gorizia, Firenze, Venezia, Pordenone, Mantova, Vicenza e Parma. In coda, infine, notiamo Catania, Trapani, Caltanissetta, Crotone e Vibo Valentia che, purtroppo, occupa l’ultima posizione. Saranno proprio le imprese del Mezzogiorno a soffrire maggiormente se i costi per redigere il bilancio saranno ancora più salati.
Giulio Tremonti (Ansa)
L’ex ministro Giulio Tremonti: «Trump ha trovato la tregua coinvolgendo i Paesi arabi. Altro che esportare la democrazia come fosse un panino...».