
La pianta medicinale conta una sessantina di nomi diversi in tutto lo Stivale. Quello ufficiale trae origine dal monarca Borbone che, da ugonotto, divenne cattolico per poter governare a Parigi. Si raccoglie in estate: può essere usato nei ripieni o nelle insalate.Ha più nomi di un hidalgo spagnolo. Avendo messo radici in tutte le montagne d’Italia - cresce tra i 500 e i 2.000 metri d’altezza - il Chenopodium bonus-enricus, pianta medicinale dalle spiccate virtù salutari e gastronomiche, è conosciuto con un nome diverso, a volte anche due o tre o più, in ogni Regione italiana. Qualche appassionato di botanica è arrivato a contare una sessantina di nomi, tra italiano e dialetto. I più gettonati sono spinacio di montagna e spinacio selvatico, per il gusto che ricorda l’ortaggio preferito da Braccio di Ferro; farinello (farinel in Veneto) per la polverina farinosa che ricopre la pagina inferiore della foglia; cùgolo; olaci; olero e olapri in Abruzzo; pàruch nel bergamasco; pèruch nel bresciano, vanga in Valchiavenna; erba sana in Emilia; bono enrico e colubrina in Toscana.L’Accademia della crusca segnala le voci crisolocano, lapato untuoso e mercorella. A Livigno sono richiestissimi nei ristoranti i pizzocher da cugol, gli gnocchetti di buon Enrico, piatto tradizionale della Valtellina preparato con farina di grano saraceno. È un ingrediente molto ricercato nella cucina dell’entroterra ligure ponentino, dove è chiamato éngaru, per fare i ripieni dei ravioli, preparare torte salate, panzerotti, frittate.Fu Linneo, padre della classificazione scientifica degli esseri viventi, a battezzare la piantina col nome di un re. Il bonus Henricus è riferito a Enrico di Navarra, che divenne sovrano di Francia con il titolo di Enrico IV. Era un re amato dal popolo che lo soprannominò le bon Henry, il buon Enrico. Il monarca guadagnò il benevolo appellativo quando aprì gli orti reali, ricchi di piante commestibili, al popolo stremato dalla fame per la carestia. Linneo e gli studiosi della flora consideravano Enrico IV un re «green». Per la passione verso i vegetali e il colore degli abiti che amava indossare, lo promossero difensore e mecenate dei botanici. Il Borbone passò alla storia per uno dei più spudorati salti della quaglia, da una confessione religiosa ad un’altra. Per poter sedere sul trono di Francia, da ugonotto che era, si convertì al cattolicesimo pronunciando la famosa frase: «Parigi val bene una messa». In un amen divenne il primo re della dinastia dei Borboni.C’è da dire che l’appetito del popolo gli stava veramente a cuore. Nel corso di un discorso ufficiale, durante la visita del duca di Savoia, espresse un desiderio: «Vorrei che nel mio regno ogni uomo che lavora potesse mettere une poule au pot», un pollo in pentola. Era un’utopia socialista ante litteram, un reale proposito che non venne attuato: i tempi dei polli in batteria e dei lavoratori adeguatamente remunerati erano di là da venire, ma l’espressione fu immediatamente catturata dagli chef francesi che misero nel menu (dell’aristocrazia e del clero) il poule-au-pot chiamato anche pollo alla francese, la cui preparazione prevede, oltre alla gallina, pane, latte, uovo, lardo, dragoncello, prezzemolo, scalogno, cavolo, carote, rape, sale e pepe q.b. Il tutto va fatto bollire a fuoco basso. Ancora oggi, nei ristoranti tradizionali parigini e negli altri locali transalpini, è presente in carta il poule-au-pot. In rue Vauvilliers c’è un ristorante che porta questo nome. Il piatto forte del locale, molto buono ma piuttosto caro, è ovviamente il pollo lesso alla «bon Henry». Il quale non era solo appassionato di polli e piante commestibili. Coltivava altrettanto entusiasmo e appetito per le belle donne anche in età avanzata, meritandosi il soprannome di Le vert galant, il «verde galante», un modo di dire che i francesi affibbiano a chi fa il galletto anche quando gli anni sono un po’ avanti. Del resto che c’è di male? Ognuno ha l’età che si sente: il verde è sempre di moda.Torniamo al nome completo della pianta spontanea, alta fino a 60 centimetri, che cresce molto volentieri sui terreni di montagna ben concimati dalle mucche e vicino ai muri delle malghe abbandonate: Chenopodium bonus-henricus. Si chiama Chenopodium per la forma della foglia che ricorda il piede, podium, dell’oca, chen. È un ortaggio perenne. I contadini che lo coltivano non hanno bisogno di vangare né di seminare: il buon Enrico cresce da solo garantendo una riserva di verdura ogni anno. Ha un buon sapore che, secondo i gourmet, supera quello dello spinacio. Come altre piante considerate un tempo povere è stata, in tempi di fame dura, una fonte di cibo, meritandosi due volte la qualifica di «buon». La civiltà contadina dei nostri monti non utilizzava il Chenopodio solo per scopi alimentari. Le donne lo adoperavano per preparare tinture per capelli e per lucidare i paioli di rame: facevano bollire le foglie al loro interno e poi, alè, olio di gomito fino a quando non diventavano lustri, del bel colore dorato di quand’erano usciti dalla bottega del paiolaio.Oggi è una pianta spontanea con la quale si preparano piatti ricercati da intenditori e buongustai. I ristoranti che la vantano in menu si affidano a raccoglitori professionisti. «Con il tempo che ha fatto quest’anno, il nostro esperto continuerà a trovarlo fino ad agosto», dice Rosanna Givanni, ristoratrice della Posta vecia, locanda poco fuori Verona, a Colognola ai Colli, sulla strada che porta a Vicenza. In questa storica residenza passò la notte tra il 19 e il 20 febbraio 1821 Silvio Pellico, patriota e autore de Le mie prigioni, prigioniero degli austriaci, durante il trasferimento da Milano alla città ceca di Brno dove lo attendeva una cella del «crudele» Spielberg. Sulla facciata della Posta vecia c’è la lapide che ricorda Pellico, che «qui sostò cogitabondo riposando un poco».Givanni è titolare e cuoca: «È giusto riscoprire questi gusti antichi. Il sapore del buon Enrico è intenso, dà piaceri e sensazioni diversi da quelli dei normali spinaci. Propongo i piatti col farinél da più di dieci anni con grande soddisfazione mia e dei clienti. Lo uso per preparare ravioli, gnocchi con burro e salvia e un pizzico di noce moscata, ricotta e formaggi dal sapore caratteristico. E come contorno, naturalmente».Il buon Enrico fa parte della famiglia delle Chenopodiaceae. Era conosciuto e utilizzato come cibo già 4.000 anni fa, nell’Età del bronzo. Come lo spinacio, vanta un alto contenuto di ferro e vitamina C. Le parti impiegate per uso alimentare sono le morbide foglioline e i teneri germogli. Le prime si lessano, proprio come si fa con gli spinaci, e danno sapore e buon gusto a minestre, zuppe di verdura e, crude, alle insalate. I germogli ricordano l’Asparagus acutifolius, l’asparago selvatico, e si usano nella preparazione di frittate, risotti, paste ripiene o, bolliti, conditi con olio extravergine d’oliva, pepe, sale. Attenzione, però: anche se gli inglesi considerano il buon Enrico all good e i francesi toute bonne, può avere effetti secondari se mangiato in quantità. I semi contengono saponine, sostanze con un effetto purgante quasi assicurato. Il che, ma basta saperlo, può anche fare comodo. È sconsigliato a chi soffre di problemi epatici o di artrite. Possono, sì, levarsi il gusto di assaggiarlo, ma devono limitare il consumo.La stagione di raccolta è l’estate. È un’ottima pianta officinale, è buona e fa bene, ma si trova raramente nei negozi di ortofrutta: i fruttivendoli faticano a tenerlo perché, trattandosi di verdura che va cucinata e mangiata in tempi brevi dopo la raccolta, non si presta alla conservazione e, di conseguenza, ai ritmi della commercializzazione. È facile imparare a distinguere il farinello in montagna: la forma delle foglie e la caratteristica renella sotto la lamina sono inconfondibili. Altrimenti, c’è sempre la possibilità di coltivarlo: nei negozi di sementi si trovano in vendita le buste con i semi dello spinacio di monte.
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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