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2023-07-10
I Brics valgono il 30% del Pil globale
Sbaglia chi pensa che il mondo si stia spaccando in due, Occidente da un lato e Brics (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) dall’altro. I cinque Paesi del «Sud del mondo», tre dei quali rientrano tra le prime dieci potenze economiche mondiali, guidano un gruppo destinato ad accogliere, a breve, molti altri Stati emergenti. Perseguono tuttavia strategie geopolitiche alternative alla logica conflittuale dei due blocchi - sulla base della quale l’America ha esteso la sua influenza in Occidente - pur rappresentando, di fatto, una sfida al dominio globale americano.
Quando nel 2001 si cominciò a parlare delle cinque maggiori economie emergenti, acronomizzandole in Bric (senza la S del Sudafrica, che si unì poco dopo), l’economista di Goldman Sachs Jim O’Neill ne pronosticò una crescita che in effetti è andata oltre le migliori previsioni: se questi Paesi nel 2001 rappresentavano il 16% del Pil mondiale, da allora il loro peso è raddoppiato (31,5% nel 2023) e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) prevede che nel 2025 arrivi al 40% del Pil globale. Quanto all’andamento del potere d’acquisto, se nel 2001 quello dei Brics era al 18,8% e quello dei Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) al 42,8%, dieci anni dopo le distanze si sono accorciate; dopo il gran sorpasso del 2020, gli equilibri sono oggi capovolti: Brics 32%, G7 29,6%. Questa crescita costante nel 2009 ha portato culture e sistemi politico-economici profondamente differenti a riunirsi ufficialmente nel gruppo Brics. Da allora a oggi Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica hanno svolto un ruolo fondamentale come motori della crescita economica globale, che lo scoppio della guerra in Ucraina ha reso, per diverse ragioni, cruciale.
Innanzitutto, pur non essendo alleati strategici della Russia, nessuno di questi Stati ha voluto aderire alle sanzioni imposte dall’Occidente per indebolire Mosca. L’«operazione finanziaria speciale» di Ue e Usa, che ad aprile 2022 hanno congelato parte dei 643 miliardi di dollari russi custoditi nelle banche occidentali, doveva sorprendere la Russia e il rublo perché concepita sullo schema del dollaro come valuta di riferimento globale. I Brics hanno rovesciato le carte in tavola intensificando gli scambi commerciali con Mosca in valuta locale: la Cina ha cominciato ad acquistare carbone e petrolio russi pagandoli in yuan cinesi anziché in dollari, l’India ha pagato direttamente in rubli e da marzo 2023 perfino la Francia ha abbandonato il dollaro Usa per acquistare dalla Cina gas naturale liquido (gnl) pagandolo in yuan. La strada della dedollarizzazione - uno degli obiettivi che accomuna i Paesi Brics - sembra insomma segnata. Non va dimenticato il pronostico della prima direttrice generale aggiunta del Fmi, Gita Gopinath, che già ad aprile 2022 aveva avvisato: «Le sanzioni minacciano di indebolire il dominio del dollaro e possono tradursi in un sistema monetario internazionale più frammentato». Un anno dopo, alcuni media asiatici hanno reso noto che i Brics starebbero pianificando di introdurre una nuova valuta commerciale ancorata all’oro e avrebbero posto l’argomento all’ordine del giorno del prossimo meeting annuale previsto a Johannesburg, in Sudafrica, dal 22 al 24 agosto. Leslie Maasdorp, vicepresidente della New Development Bank - contraltare Brics del Fondo Monetario - ha smentito la notizia definendola «un’ambizione a medio-lungo termine», ma la rotta è segnata, e rappresenta la più temibile sfida dei Paesi del «Sud del mondo» al sistema di Bretton Woods, che ha garantito per decenni la centralità del dollaro. Se il progetto prendesse forma, gli Stati Uniti perderebbero del tutto la loro egemonia.
Le previsioni di Gopinath trovano conferma nel proseguimento degli scambi commerciali tra gli altri Paesi dei Brics e la Russia nonostante le sanzioni, che rende la guerra economica dichiarata da Usa ed Ue a Mosca un’arma spuntata: a un anno e mezzo dall’inizio delle ostilità e dall’attivazione del primo round di sanzioni (oggi siamo all’undicesimo), la Russia non ne è uscita con le ossa rotte. Anzi, in Germania alcuni analisti parlano di «rinascita economica» dell’orso russo, che in prospettiva potrebbe consolidarsi grazie al boom dell’economia di guerra, all’aumento dei salari reali e al calo dell’inflazione, risultati conseguiti grazie anche alla collaborazione dei Brics.
L’altra ragione che pone queste nazioni al centro dei colloqui diplomatici internazionali è il tentativo, finora vano, di coinvolgerle attivamente nel sostegno militare all’Ucraina: i Brics, che rappresentano 3,2 miliardi di cittadini (contro i 950 milioni dei Paesi Nato) non sostengono il conflitto ucraino. A cominciare dal presidente del Brasile, che a febbraio è andato in visita a Washington. Luiz Ignacio Lula da Silva ha trovato la quadra con Joe Biden praticamente su tutto, ad eccezione del dossier Ucraina: «Se inviassi armi, mi unirei alla guerra. Non voglio unirmi alla guerra, voglio la pace», ha detto Lula al presidente americano, confermando la neutralità di Brasilia. Secondo quanto riferito sul Paìs dallo storico Luuk van Middelaar, Lula si sarebbe anche lasciato sfuggire una dichiarazione informale, ma netta, contro la centralità del dollaro.
L’incontro del presidente indiano Narendra Modi con Joe Biden, che si è tenuto a fine giugno a Washington, ha avuto più o meno lo stesso esito: Biden ha cercato di dare nuovo impulso alla coalizione Quad, che comprende India, Giappone e Australia e ha come obiettivo l’accerchiamento geografico della Cina. Modi ha annunciato una serie di investimenti in tecnologia militare statunitense, che affrancherebbero Nuova Delhi dall’acquisto di quella russa. Ma anche l’India, nonostante le pressioni degli Stati Uniti, rimane al momento neutrale.
È tornata a mani vuote anche il ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock, che due settimane fa è andata in Sudafrica per tentare di convincere le autorità a sganciarsi dall’influenza russa e unirsi alle manovre in favore di Kiev. Baerbock si è fatta precedere da un suo articolo, pubblicato sul quotidiano sudafricano Sunday Times, incentrato sulla consueta retorica solidaristica dell’aggressore alle porte di casa: «Capisco che ci si possa domandare perché intervenire in un Paese distante 9.000 chilometri», ha scritto Baerbock, «ma incoraggio tutti a chiedersi: quale reazione mi aspetterei dalla comunità internazionale se questa guerra si svolgesse nel mio territorio?». Pretoria non si è intenerita e ha mantenuto la sua posizione, che va oltre la neutralità: deve infatti render conto dell’incidente del Lady R, il cargo russo che - secondo le accuse dell’ambasciatore statunitense in Sudafrica - sarebbe approdato alla base navale di Simon’s Town, vicina a Città del Capo, per caricare forniture militari. Le autorità sudafricane hanno smentito e tentano di smorzare i toni, ma Pretoria potrebbe perfino pensare di revocare la sua adesione alla Corte de L’Aia dopo il mandato di cattura internazionale contro Vladimir Putin per crimini contro l’umanità, che obbligherebbe le autorità sudafricane ad arrestarlo se si recasse al vertice Brics di fine agosto.
La manovra di accerchiamento dei Brics è andata male anche ad Emmanuel Macron. Il presidente francese, attraverso il ministro degli esteri Catherine Colonna, aveva fatto sapere che avrebbe partecipato «volentieri» al vertice di Johannesburg, ma la Russia ha posto il veto: «Onestamente non sappiamo come, in quale veste e con quale obiettivo il presidente Macron dovrebbe partecipare», ha dichiarato il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, mentre il vice-ministro degli esteri sovietico Sergey Ryabkov - sottolineando che i Paesi Brics rifiutano le sanzioni unilaterali inflitte a Mosca - ha definito la richiesta «del tutto inappropriata».
C’è un terzo elemento che pone i Brics al centro della tessitura diplomatica occidentale, ed è la mole di richieste di adesione pervenute, che ha subìto un’impennata da quando è scoppiato il conflitto ucraino: ai Paesi fondatori - che già da soli rappresentano circa il 26% dell’area geografica mondiale e il 40% della popolazione mondiale - sono giunte le richieste di adesione formale di Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Bahrein, Bangladesh, Egitto, Emirati Arabi, Etiopia, Indonesia e Iran, mentre hanno manifestato interesse a entrare Afghanistan, Bielorussia, Kazakistan, Messico, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Senegal, Sudan, Siria, Thailandia, Turchia, Uruguay, Venezuela e Zimbabwe. Sia chiaro: non tutti entreranno necessariamente a far parte dei Brics, che restano un’entità troppo eterogenea per poter essere indicata come «alleanza». Ma è significativo che tra i Paesi formalmente applicanti figuri l’Arabia Saudita, che per decenni ha perseguito politiche di vicinanza con gli Usa, o lo stesso Egitto, Paese nell’orbita del Regno Unito. È indicativa anche la richiesta, non ancora accettata, della Turchia, nazione ponte tra Islam ed Europa, che vent’anni fa aveva tentato l’adesione all’Ue, respinta da diversi Stati membri tra cui la Francia: la miopia dei leader europei di allora ha spinto sempre di più Ankara tra le braccia dell’altra parte del mondo.
La partita di questi Paesi, insomma, è più che mai aperta, ma le logiche occidentali non riescono ad intercettarla: i Brics vogliono sfuggire allo schema della contrapposizione, non cercano la guerra ma la pace, che porta benessere nei loro territori; non cercano collocazione in uno schema unipolare ma hanno una visione multipolare, in cui le geometrie sono variabili, a seconda degli interessi. Ed è forse in questo senso che la loro strategia, di fatto, rappresenta una sfida al dominio globale americano. Negli ultimi venticinque anni gli Stati Uniti hanno coinvolto l’opinione pubblica occidentale in nome della logica dello «scontro delle civiltà» teorizzato da Samuel Huntington e Francis Fukuyama. Ma è dal collasso del sogno americano, precipitato nell’incubo della cultura woke, che questi Paesi trovano, oggi più che mai, la loro ragion d’essere.
«Non è un blocco politico-militare ma l’egemonia degli Usa è a rischio»

Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«Non credo che esista alcun tipo di “blocco” o “alleanza” Brics», dice Lucio Caracciolo, giornalista e direttore della rivista di geopolitica Limes. «Prendiamo l’India e la Cina: è difficile immaginarli alleati. E anche la famosa “amicizia senza limiti” fra Russia e Cina si sta rivelando ogni giorno più limitata».
I Brics non rappresentano una sfida al dominio globale americano?
«Partendo dal presupposto che una contrapposizione tra Brics e Nato non ha alcun senso, questi Paesi entrando nel “club” possono trovare intese privilegiate».
Qual è il loro obiettivo?
«Avere una sorta di upgrading sulla scena mondiale, per accedere a un livello di relazioni con le grandi potenze. Questo vale soprattutto per chi non occupa il centro di quella scena, ad esempio Brasile, Sudafrica e direi anche l’India».
Tutto qui?
«Questi Paesi hanno motivo di non aderire a un’idea di dominio assoluto americano o occidentale, quindi sia per ragioni geopolitiche che per ragioni ideologiche si è creato questo “nucleo gassoso” che non vuole stare sotto l’orbita americana ma neanche cinese, anche se magari ha buone relazioni con Pechino».
Come definirebbe questa aggregazione?
«Non di tipo strategico né tantomeno militare, ma di tipo politico, diplomatico ed economico, dossier per dossier».
Che tipo di impatto hanno i Brics sul sistema internazionale?
«Costituiscono una complicazione, nel senso stretto del termine, perché aggiungono altre relazioni internazionali a un sistema che da almeno trent’anni ha perso la sua coerenza e vive una evidente crisi di egemonia americana. Ciò libera una quantità di energie che una volta erano compresse o comunque inscritte in un sistema guidato dall’America. Il caso dell’Arabia Saudita (che ha fatto richiesta di adesione ai Brics, ndr) è evidente».
Pur non essendo un’alleanza, questi sistemi potrebbero minacciare l’egemonia del dollaro?
«Questo è un discorso corretto in assoluto, nel senso che gli Stati Uniti non solo non possono, ma nemmeno vogliono più occuparsi del resto del mondo. Ciò condurrà inevitabilmente a una crisi del cosiddetto privilegio esorbitante del dollaro, paradossalmente accentuata dal sistema sanzionatorio Usa».
Nessuno dei Paesi Brics aderisce alle sanzioni.
«Ormai le sanzioni sono un colabrodo e neanche gli americani le rispettano».
In effetti le materie prime che alimentano le centrali nucleari Usa sono russe, così come i concimi che sostengono l’agricoltura statunitense. A cosa porterà tutto ciò?
«A una specie di maionese impazzita: pensiamo al famoso sequestro dei patrimoni russi, che viola il principio della proprietà privata. Le sanzioni a mio avviso sono state concepite più per simulare coesione che per colpire la Russia».
Macron ha chiesto di partecipare al vertice Brics previsto a fine agosto…
«È la conferma dello stato di confusione in cui versa la Francia. C’è talmente tanto caos che perfino alcuni Paesi Nato giocano su diversi tavoli».
L’Italia avrebbe dovuto avanzare la stessa richiesta?
«Credo che l'Italia negli ultimi anni abbia avuto una vocazione abbastanza marcata a non fare politica estera: ci limitiamo a guardare in quale direzione vanno gli Usa, cerchiamo di imitarli ma è complicato perché cambiano idea molto spesso. In Europa siamo riusciti a litigare contemporaneamente con i francesi e con i tedeschi, stiamo inseguendo gli ungheresi e polacchi, non è chiaro quale tipo di politica stiamo perseguendo».
I Brics rappresentano 3 miliardi di cittadini e hanno in comune economie in crescita.
«Sono organizzazioni un po’ casuali di Stati che una volta afferivano a sistemi con una chiara impostazione gerarchica, ma immaginare che ci siano tre miliardi di persone che si sono unite contro l’America, proprio no. Alcuni di loro possono mettersi d’accordo su questioni di tipo politico o perfino militare, ma sempre e soltanto su base ad hoc».
Noi occidentali le vediamo come autocrazie…
«Nelle accademie si cerca di distinguere tra interessi e valori, ma nella vita reale questa distinzione non esiste».
«Nel nuovo mondo l’Occidente sarà sempre più marginale»

Il professore di Relazioni Internazionali all’Università di Milano Alessandro Colombo (YouTube)
«Siamo alla fine di qualcosa di più importante dell’unipolarismo americano: siamo nella fase calante dell’era occidentale della storia del mondo». Alessandro Colombo, professore ordinario di Relazioni Internazionali all’Università di Milano e direttore del Transatlantic Relations Programme presso l’Ispi, traccia uno scenario definitivo sugli anni che stiamo vivendo e commenta l’ascesa dei Paesi del Sud globale.
Cosa rappresentano i Brics?
«Sono Paesi che cercano di trovare una posizione “altra” e di esprimere una visione dell’ordine internazionale diversa».
Possono considerarsi un’alleanza?
«No, non sono un’alleanza né un blocco e non lo diventeranno: ci sono differenze di prospettive, di interessi e di collocazione geopolitica tra loro. Ma credo che questi Paesi cerchino di sfuggire alla logica dei blocchi».
Negli ultimi mesi si è parlato di una sorta di «rinascita del movimento dei non allineati».
«Non è vero che i Brics sono un movimento di non allineati, ma definirli come “non allineati” credo che sia più vicino alla realtà che definirli come “blocco”».
Quale politica perseguono?
«Si sforzano di non essere intrappolati in una logica bipolare - come quella suggerita dalla contrapposizione tra democrazia e autocrazie - nella quale non si riconoscono e dalla quale ritengono di avere tutto da perdere».
Questo raggruppamento attira Paesi storicamente amici degli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita.
«Sì, accade per via del processo di sgretolamento dell’ordine internazionale degli ultimi trent’anni: il caso dell’Arabia Saudita è molto significativo, ma molti altri Paesi vanno nella stessa direzione».
Quindi la loro adesione ai Brics non deve essere considerata come atto ostile nei confronti degli Stati Uniti?
«No, non si tratta di rompere l’alleanza o le relazioni con gli Stati Uniti ma di garantirsi maggiore flessibilità diplomatica e di collocarsi in una posizione tale da poter avere contemporaneamente rapporti con gli Usa, con la Russia e con la Cina senza essere costretti a scegliere. Questa è la posizione dei Brics ed è assolutamente comprensibile, sia dal punto di vista strategico sia, perché no, dal punto di vista storico».
Molti di loro, pur non sostenendo l’Ucraina, hanno provato a mediare per porre fine al conflitto. Eppure l’Occidente e l’Europa continuano a guardarli come autocrazie screditate.
«L’eventualità che l’Europa possa giudicare altri Paesi inadeguati sarà sempre meno rilevante sul terreno politico. L’Europa, ci piaccia o no, viene ormai considerata da tutti come un’entità che da centrale sta diventando sempre più marginale. La storia va in un’altra direzione».
Non è quello che affermano i dirigenti Ue.
«Magari la storia ci potrà smentire ma in questo momento tutto lascia pensare che quella dell’Europa sia una parabola discendente».
L’Ue in questo momento sta mostrando i muscoli all’opinione pubblica.
«All’opinione pubblica si può far credere tutto ciò che si vuole, il fatto è che gli altri non ci credono, i Paesi non-Ue vedono benissimo che le cose non stanno così. Il processo d’integrazione europea non è bastato a fermare il declino, con un’aggravante: rispetto agli anni Novanta l’Unione europea non è più coesa - come si è detto in occasione della guerra in Ucraina, anche un po’ pateticamente - ma sempre più divisa».
Viceversa, i Brics sono accomunati dal Pil in crescita e dall’intento comune di smarcarsi dall’egemonia del dollaro…
«Non tutti ce la faranno, ma tutti sono candidati alla crescita e hanno aspettative ottimistiche sul futuro».
Quali attese ci sono sul vertice dei Brics?
«È un vertice simbolico. Non ci dobbiamo aspettare decisioni significative, c’è però il dato politico rilevante che questi paesi, riunendosi, esprimono la volontà di non giocare al gioco degli altri».
L’impero americano è definitivamente tramontato?
«Noi stiamo vivendo da diversi anni il declino dell’ordine egemonico americano, ma sullo sfondo c’è un crepuscolo molto più importante, quello della centralità dell'Occidente nelle relazioni internazionali: sono queste le due grandi questioni che condizioneranno i prossimi anni».
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Con 3 miliardi di persone e il 30% del Pil globale, l’alleanza informale tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che presto terranno il loro vertice annuale, sfida il dominio globale americano. E le domande per entrare nel «club» sono in crescita.L’esperto Lucio Caracciolo: «Arduo definire i cinesi alleati di New Delhi. E coi russi l’amicizia è limitata».Il docente Alessandro Colombo: «Questi Stati rifiutano la logica bipolare democrazie contro autocrazie».Lo speciale contiene tre articoli.Sbaglia chi pensa che il mondo si stia spaccando in due, Occidente da un lato e Brics (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) dall’altro. I cinque Paesi del «Sud del mondo», tre dei quali rientrano tra le prime dieci potenze economiche mondiali, guidano un gruppo destinato ad accogliere, a breve, molti altri Stati emergenti. Perseguono tuttavia strategie geopolitiche alternative alla logica conflittuale dei due blocchi - sulla base della quale l’America ha esteso la sua influenza in Occidente - pur rappresentando, di fatto, una sfida al dominio globale americano.Quando nel 2001 si cominciò a parlare delle cinque maggiori economie emergenti, acronomizzandole in Bric (senza la S del Sudafrica, che si unì poco dopo), l’economista di Goldman Sachs Jim O’Neill ne pronosticò una crescita che in effetti è andata oltre le migliori previsioni: se questi Paesi nel 2001 rappresentavano il 16% del Pil mondiale, da allora il loro peso è raddoppiato (31,5% nel 2023) e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) prevede che nel 2025 arrivi al 40% del Pil globale. Quanto all’andamento del potere d’acquisto, se nel 2001 quello dei Brics era al 18,8% e quello dei Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) al 42,8%, dieci anni dopo le distanze si sono accorciate; dopo il gran sorpasso del 2020, gli equilibri sono oggi capovolti: Brics 32%, G7 29,6%. Questa crescita costante nel 2009 ha portato culture e sistemi politico-economici profondamente differenti a riunirsi ufficialmente nel gruppo Brics. Da allora a oggi Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica hanno svolto un ruolo fondamentale come motori della crescita economica globale, che lo scoppio della guerra in Ucraina ha reso, per diverse ragioni, cruciale. Innanzitutto, pur non essendo alleati strategici della Russia, nessuno di questi Stati ha voluto aderire alle sanzioni imposte dall’Occidente per indebolire Mosca. L’«operazione finanziaria speciale» di Ue e Usa, che ad aprile 2022 hanno congelato parte dei 643 miliardi di dollari russi custoditi nelle banche occidentali, doveva sorprendere la Russia e il rublo perché concepita sullo schema del dollaro come valuta di riferimento globale. I Brics hanno rovesciato le carte in tavola intensificando gli scambi commerciali con Mosca in valuta locale: la Cina ha cominciato ad acquistare carbone e petrolio russi pagandoli in yuan cinesi anziché in dollari, l’India ha pagato direttamente in rubli e da marzo 2023 perfino la Francia ha abbandonato il dollaro Usa per acquistare dalla Cina gas naturale liquido (gnl) pagandolo in yuan. La strada della dedollarizzazione - uno degli obiettivi che accomuna i Paesi Brics - sembra insomma segnata. Non va dimenticato il pronostico della prima direttrice generale aggiunta del Fmi, Gita Gopinath, che già ad aprile 2022 aveva avvisato: «Le sanzioni minacciano di indebolire il dominio del dollaro e possono tradursi in un sistema monetario internazionale più frammentato». Un anno dopo, alcuni media asiatici hanno reso noto che i Brics starebbero pianificando di introdurre una nuova valuta commerciale ancorata all’oro e avrebbero posto l’argomento all’ordine del giorno del prossimo meeting annuale previsto a Johannesburg, in Sudafrica, dal 22 al 24 agosto. Leslie Maasdorp, vicepresidente della New Development Bank - contraltare Brics del Fondo Monetario - ha smentito la notizia definendola «un’ambizione a medio-lungo termine», ma la rotta è segnata, e rappresenta la più temibile sfida dei Paesi del «Sud del mondo» al sistema di Bretton Woods, che ha garantito per decenni la centralità del dollaro. Se il progetto prendesse forma, gli Stati Uniti perderebbero del tutto la loro egemonia.Le previsioni di Gopinath trovano conferma nel proseguimento degli scambi commerciali tra gli altri Paesi dei Brics e la Russia nonostante le sanzioni, che rende la guerra economica dichiarata da Usa ed Ue a Mosca un’arma spuntata: a un anno e mezzo dall’inizio delle ostilità e dall’attivazione del primo round di sanzioni (oggi siamo all’undicesimo), la Russia non ne è uscita con le ossa rotte. Anzi, in Germania alcuni analisti parlano di «rinascita economica» dell’orso russo, che in prospettiva potrebbe consolidarsi grazie al boom dell’economia di guerra, all’aumento dei salari reali e al calo dell’inflazione, risultati conseguiti grazie anche alla collaborazione dei Brics.L’altra ragione che pone queste nazioni al centro dei colloqui diplomatici internazionali è il tentativo, finora vano, di coinvolgerle attivamente nel sostegno militare all’Ucraina: i Brics, che rappresentano 3,2 miliardi di cittadini (contro i 950 milioni dei Paesi Nato) non sostengono il conflitto ucraino. A cominciare dal presidente del Brasile, che a febbraio è andato in visita a Washington. Luiz Ignacio Lula da Silva ha trovato la quadra con Joe Biden praticamente su tutto, ad eccezione del dossier Ucraina: «Se inviassi armi, mi unirei alla guerra. Non voglio unirmi alla guerra, voglio la pace», ha detto Lula al presidente americano, confermando la neutralità di Brasilia. Secondo quanto riferito sul Paìs dallo storico Luuk van Middelaar, Lula si sarebbe anche lasciato sfuggire una dichiarazione informale, ma netta, contro la centralità del dollaro.L’incontro del presidente indiano Narendra Modi con Joe Biden, che si è tenuto a fine giugno a Washington, ha avuto più o meno lo stesso esito: Biden ha cercato di dare nuovo impulso alla coalizione Quad, che comprende India, Giappone e Australia e ha come obiettivo l’accerchiamento geografico della Cina. Modi ha annunciato una serie di investimenti in tecnologia militare statunitense, che affrancherebbero Nuova Delhi dall’acquisto di quella russa. Ma anche l’India, nonostante le pressioni degli Stati Uniti, rimane al momento neutrale. È tornata a mani vuote anche il ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock, che due settimane fa è andata in Sudafrica per tentare di convincere le autorità a sganciarsi dall’influenza russa e unirsi alle manovre in favore di Kiev. Baerbock si è fatta precedere da un suo articolo, pubblicato sul quotidiano sudafricano Sunday Times, incentrato sulla consueta retorica solidaristica dell’aggressore alle porte di casa: «Capisco che ci si possa domandare perché intervenire in un Paese distante 9.000 chilometri», ha scritto Baerbock, «ma incoraggio tutti a chiedersi: quale reazione mi aspetterei dalla comunità internazionale se questa guerra si svolgesse nel mio territorio?». Pretoria non si è intenerita e ha mantenuto la sua posizione, che va oltre la neutralità: deve infatti render conto dell’incidente del Lady R, il cargo russo che - secondo le accuse dell’ambasciatore statunitense in Sudafrica - sarebbe approdato alla base navale di Simon’s Town, vicina a Città del Capo, per caricare forniture militari. Le autorità sudafricane hanno smentito e tentano di smorzare i toni, ma Pretoria potrebbe perfino pensare di revocare la sua adesione alla Corte de L’Aia dopo il mandato di cattura internazionale contro Vladimir Putin per crimini contro l’umanità, che obbligherebbe le autorità sudafricane ad arrestarlo se si recasse al vertice Brics di fine agosto. La manovra di accerchiamento dei Brics è andata male anche ad Emmanuel Macron. Il presidente francese, attraverso il ministro degli esteri Catherine Colonna, aveva fatto sapere che avrebbe partecipato «volentieri» al vertice di Johannesburg, ma la Russia ha posto il veto: «Onestamente non sappiamo come, in quale veste e con quale obiettivo il presidente Macron dovrebbe partecipare», ha dichiarato il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, mentre il vice-ministro degli esteri sovietico Sergey Ryabkov - sottolineando che i Paesi Brics rifiutano le sanzioni unilaterali inflitte a Mosca - ha definito la richiesta «del tutto inappropriata».C’è un terzo elemento che pone i Brics al centro della tessitura diplomatica occidentale, ed è la mole di richieste di adesione pervenute, che ha subìto un’impennata da quando è scoppiato il conflitto ucraino: ai Paesi fondatori - che già da soli rappresentano circa il 26% dell’area geografica mondiale e il 40% della popolazione mondiale - sono giunte le richieste di adesione formale di Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Bahrein, Bangladesh, Egitto, Emirati Arabi, Etiopia, Indonesia e Iran, mentre hanno manifestato interesse a entrare Afghanistan, Bielorussia, Kazakistan, Messico, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Senegal, Sudan, Siria, Thailandia, Turchia, Uruguay, Venezuela e Zimbabwe. Sia chiaro: non tutti entreranno necessariamente a far parte dei Brics, che restano un’entità troppo eterogenea per poter essere indicata come «alleanza». Ma è significativo che tra i Paesi formalmente applicanti figuri l’Arabia Saudita, che per decenni ha perseguito politiche di vicinanza con gli Usa, o lo stesso Egitto, Paese nell’orbita del Regno Unito. È indicativa anche la richiesta, non ancora accettata, della Turchia, nazione ponte tra Islam ed Europa, che vent’anni fa aveva tentato l’adesione all’Ue, respinta da diversi Stati membri tra cui la Francia: la miopia dei leader europei di allora ha spinto sempre di più Ankara tra le braccia dell’altra parte del mondo.La partita di questi Paesi, insomma, è più che mai aperta, ma le logiche occidentali non riescono ad intercettarla: i Brics vogliono sfuggire allo schema della contrapposizione, non cercano la guerra ma la pace, che porta benessere nei loro territori; non cercano collocazione in uno schema unipolare ma hanno una visione multipolare, in cui le geometrie sono variabili, a seconda degli interessi. Ed è forse in questo senso che la loro strategia, di fatto, rappresenta una sfida al dominio globale americano. Negli ultimi venticinque anni gli Stati Uniti hanno coinvolto l’opinione pubblica occidentale in nome della logica dello «scontro delle civiltà» teorizzato da Samuel Huntington e Francis Fukuyama. Ma è dal collasso del sogno americano, precipitato nell’incubo della cultura woke, che questi Paesi trovano, oggi più che mai, la loro ragion d’essere.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/brics-valgono-30-pil-globale-2662252873.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-e-un-blocco-politico-militare-ma-legemonia-degli-usa-e-a-rischio" data-post-id="2662252873" data-published-at="1688925075" data-use-pagination="False"> «Non è un blocco politico-militare ma l’egemonia degli Usa è a rischio» Lucio Caracciolo (Imagoeconomica) «Non credo che esista alcun tipo di “blocco” o “alleanza” Brics», dice Lucio Caracciolo, giornalista e direttore della rivista di geopolitica Limes. «Prendiamo l’India e la Cina: è difficile immaginarli alleati. E anche la famosa “amicizia senza limiti” fra Russia e Cina si sta rivelando ogni giorno più limitata». I Brics non rappresentano una sfida al dominio globale americano? «Partendo dal presupposto che una contrapposizione tra Brics e Nato non ha alcun senso, questi Paesi entrando nel “club” possono trovare intese privilegiate». Qual è il loro obiettivo? «Avere una sorta di upgrading sulla scena mondiale, per accedere a un livello di relazioni con le grandi potenze. Questo vale soprattutto per chi non occupa il centro di quella scena, ad esempio Brasile, Sudafrica e direi anche l’India». Tutto qui? «Questi Paesi hanno motivo di non aderire a un’idea di dominio assoluto americano o occidentale, quindi sia per ragioni geopolitiche che per ragioni ideologiche si è creato questo “nucleo gassoso” che non vuole stare sotto l’orbita americana ma neanche cinese, anche se magari ha buone relazioni con Pechino». Come definirebbe questa aggregazione? «Non di tipo strategico né tantomeno militare, ma di tipo politico, diplomatico ed economico, dossier per dossier». Che tipo di impatto hanno i Brics sul sistema internazionale? «Costituiscono una complicazione, nel senso stretto del termine, perché aggiungono altre relazioni internazionali a un sistema che da almeno trent’anni ha perso la sua coerenza e vive una evidente crisi di egemonia americana. Ciò libera una quantità di energie che una volta erano compresse o comunque inscritte in un sistema guidato dall’America. Il caso dell’Arabia Saudita (che ha fatto richiesta di adesione ai Brics, ndr) è evidente». Pur non essendo un’alleanza, questi sistemi potrebbero minacciare l’egemonia del dollaro? «Questo è un discorso corretto in assoluto, nel senso che gli Stati Uniti non solo non possono, ma nemmeno vogliono più occuparsi del resto del mondo. Ciò condurrà inevitabilmente a una crisi del cosiddetto privilegio esorbitante del dollaro, paradossalmente accentuata dal sistema sanzionatorio Usa». Nessuno dei Paesi Brics aderisce alle sanzioni. «Ormai le sanzioni sono un colabrodo e neanche gli americani le rispettano». In effetti le materie prime che alimentano le centrali nucleari Usa sono russe, così come i concimi che sostengono l’agricoltura statunitense. A cosa porterà tutto ciò? «A una specie di maionese impazzita: pensiamo al famoso sequestro dei patrimoni russi, che viola il principio della proprietà privata. Le sanzioni a mio avviso sono state concepite più per simulare coesione che per colpire la Russia». Macron ha chiesto di partecipare al vertice Brics previsto a fine agosto… «È la conferma dello stato di confusione in cui versa la Francia. C’è talmente tanto caos che perfino alcuni Paesi Nato giocano su diversi tavoli». L’Italia avrebbe dovuto avanzare la stessa richiesta? «Credo che l'Italia negli ultimi anni abbia avuto una vocazione abbastanza marcata a non fare politica estera: ci limitiamo a guardare in quale direzione vanno gli Usa, cerchiamo di imitarli ma è complicato perché cambiano idea molto spesso. In Europa siamo riusciti a litigare contemporaneamente con i francesi e con i tedeschi, stiamo inseguendo gli ungheresi e polacchi, non è chiaro quale tipo di politica stiamo perseguendo». I Brics rappresentano 3 miliardi di cittadini e hanno in comune economie in crescita. «Sono organizzazioni un po’ casuali di Stati che una volta afferivano a sistemi con una chiara impostazione gerarchica, ma immaginare che ci siano tre miliardi di persone che si sono unite contro l’America, proprio no. Alcuni di loro possono mettersi d’accordo su questioni di tipo politico o perfino militare, ma sempre e soltanto su base ad hoc». Noi occidentali le vediamo come autocrazie… «Nelle accademie si cerca di distinguere tra interessi e valori, ma nella vita reale questa distinzione non esiste». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/brics-valgono-30-pil-globale-2662252873.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="nel-nuovo-mondo-loccidente-sara-sempre-piu-marginale" data-post-id="2662252873" data-published-at="1688925075" data-use-pagination="False"> «Nel nuovo mondo l’Occidente sarà sempre più marginale» Il professore di Relazioni Internazionali all’Università di Milano Alessandro Colombo (YouTube) «Siamo alla fine di qualcosa di più importante dell’unipolarismo americano: siamo nella fase calante dell’era occidentale della storia del mondo». Alessandro Colombo, professore ordinario di Relazioni Internazionali all’Università di Milano e direttore del Transatlantic Relations Programme presso l’Ispi, traccia uno scenario definitivo sugli anni che stiamo vivendo e commenta l’ascesa dei Paesi del Sud globale. Cosa rappresentano i Brics? «Sono Paesi che cercano di trovare una posizione “altra” e di esprimere una visione dell’ordine internazionale diversa». Possono considerarsi un’alleanza? «No, non sono un’alleanza né un blocco e non lo diventeranno: ci sono differenze di prospettive, di interessi e di collocazione geopolitica tra loro. Ma credo che questi Paesi cerchino di sfuggire alla logica dei blocchi». Negli ultimi mesi si è parlato di una sorta di «rinascita del movimento dei non allineati». «Non è vero che i Brics sono un movimento di non allineati, ma definirli come “non allineati” credo che sia più vicino alla realtà che definirli come “blocco”». Quale politica perseguono? «Si sforzano di non essere intrappolati in una logica bipolare - come quella suggerita dalla contrapposizione tra democrazia e autocrazie - nella quale non si riconoscono e dalla quale ritengono di avere tutto da perdere». Questo raggruppamento attira Paesi storicamente amici degli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita. «Sì, accade per via del processo di sgretolamento dell’ordine internazionale degli ultimi trent’anni: il caso dell’Arabia Saudita è molto significativo, ma molti altri Paesi vanno nella stessa direzione». Quindi la loro adesione ai Brics non deve essere considerata come atto ostile nei confronti degli Stati Uniti? «No, non si tratta di rompere l’alleanza o le relazioni con gli Stati Uniti ma di garantirsi maggiore flessibilità diplomatica e di collocarsi in una posizione tale da poter avere contemporaneamente rapporti con gli Usa, con la Russia e con la Cina senza essere costretti a scegliere. Questa è la posizione dei Brics ed è assolutamente comprensibile, sia dal punto di vista strategico sia, perché no, dal punto di vista storico». Molti di loro, pur non sostenendo l’Ucraina, hanno provato a mediare per porre fine al conflitto. Eppure l’Occidente e l’Europa continuano a guardarli come autocrazie screditate. «L’eventualità che l’Europa possa giudicare altri Paesi inadeguati sarà sempre meno rilevante sul terreno politico. L’Europa, ci piaccia o no, viene ormai considerata da tutti come un’entità che da centrale sta diventando sempre più marginale. La storia va in un’altra direzione». Non è quello che affermano i dirigenti Ue. «Magari la storia ci potrà smentire ma in questo momento tutto lascia pensare che quella dell’Europa sia una parabola discendente». L’Ue in questo momento sta mostrando i muscoli all’opinione pubblica. «All’opinione pubblica si può far credere tutto ciò che si vuole, il fatto è che gli altri non ci credono, i Paesi non-Ue vedono benissimo che le cose non stanno così. Il processo d’integrazione europea non è bastato a fermare il declino, con un’aggravante: rispetto agli anni Novanta l’Unione europea non è più coesa - come si è detto in occasione della guerra in Ucraina, anche un po’ pateticamente - ma sempre più divisa». Viceversa, i Brics sono accomunati dal Pil in crescita e dall’intento comune di smarcarsi dall’egemonia del dollaro… «Non tutti ce la faranno, ma tutti sono candidati alla crescita e hanno aspettative ottimistiche sul futuro». Quali attese ci sono sul vertice dei Brics? «È un vertice simbolico. Non ci dobbiamo aspettare decisioni significative, c’è però il dato politico rilevante che questi paesi, riunendosi, esprimono la volontà di non giocare al gioco degli altri». L’impero americano è definitivamente tramontato? «Noi stiamo vivendo da diversi anni il declino dell’ordine egemonico americano, ma sullo sfondo c’è un crepuscolo molto più importante, quello della centralità dell'Occidente nelle relazioni internazionali: sono queste le due grandi questioni che condizioneranno i prossimi anni».
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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