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2022-02-07
Bresaola, l’affettato magro che accresce anche il buonumore
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Se lo specchio di Cenerentola si fosse sentito domandare del salume più magro e non della più bella, la risposta sarebbe stata certamente: «È la bresaola il salume più magro del reame!». Secondo alcuni, il nome di questo salume di carne cruda essiccata dalla forma a parallelepipedo o cilindro, avvolto da budello (non sempre edibile) proviene da «brisiola», cioè braciola. Per Atlante Slow Food dei prodotti regionali italiani, Slow Food Editore, «l’origine del nome pare risalga al modo di dire salaa come brisa (salata come la brisa, una ghiandola dei bovini)». Secondo altri ancora bresaola deriva da brasa cioè brace, perché in passato il salume si faceva asciugare in locali riscaldati da bracieri. Chissà.
In Italia, siamo tutti pazzi per la bresaola. Secondo dati Cia-Agricoltori italiani, il consumo di bresaola vale 454 milioni di euro, il settore occupa 1.400 persone per una produzione di 12.600 tonnellate, la grande distribuzione è il principale canale di vendita, cresce l’acquisto della bresaola in vaschetta (circa il 50% della produzione totale) rispetto a quello al banco taglio, la quota export è il 7% della produzione, quasi totalmente esperita dalle aziende del Consorzio della bresaola della Valtellina Igp, che si può produrre solo in provincia di Sondrio. Bresaola di qualità che si ricava dai muscoli della coscia di vitello come fesa, punta d’anca, sottofesa, magatello e sottosso (i tagli si rifilano, si conciano, si pongono in vasche tra strati di miscela salante, dopo 10 giorni si lavano, si asciugano, si insaccano nella bondeana di bovino e si stagionano al sole e poi in ambienti ventilati asciutti).
Essendo un Igp, basta che solo uno tra gli stadi di produzione, trasformazione ed elaborazione si svolga nell’area geografica nella quale la tradizione del prodotto tutelato si è sviluppata. Le carni trattate oggi provengono anche da bovini allevati e macellati da Brasile, Argentina e Irlanda. Per alcuni, fare bresaole da animali che giungono da fuori Valtellina renderebbe quella bresaola meno valtellinese. Un’applicazione semplice semplice del concetto di territorialità farebbe in effetti pensare a un’origine rigorosamente locale della materia prima, altro che saper fare o clima necessario a elaborarla. Tuttavia, utilizzando un’ottica più complessa si capisce come a un rigore produttivo localista per prodotti originari di piccole zone dovrebbe corrispondere un consumo altrettanto piccolo e dunque locale.
Per un consumo nazionale, come ci hanno spiegato sia la ristoratrice valtellinese Emma Marveggio di Sciatt à porter, sia il produttore di bresaole valtellinese Emilio Mottolini, gli animali allevati nella filiera carne in Valtellina non possono assolutamente soddisfare numeri così alti. Esistono varianti come la bresaola di cavallo, di cervo, di maiale, di bufalo oppure quella affumicata. Non è facile da trovare, ma c’è anche la bresaola cotta. Con gli scarti di produzione, le parti più vicine all’osso, si produce la slinzega. La bresaola è diventata un secondo piatto molto diffuso grazie alla preparazione tipica del carpaccio, che l’altra settimana abbiamo visto essere un affettato di carne cruda e fresca. Per estensione, il concetto si applica anche a pesce, verdura, frutta e carne in questo caso cruda ma essiccata. Per un carpaccio di bresaola a regola d’arte si crea una citronette con olio di oliva, succo di limone e pepe, ci si irrorano le fette e si lascia insaporire qualche minuto. Parmigiano e rucola (da apporre dopo la marinatura, 1 parte di rucola ogni 4-5 di bresaola) sono un’aggiunta nazionale, come il limone.
Il carpaccio valtellinese originario è la «bresaola santa», fette al naturale affiancate da riccioli di burro al ginepro e pane di segale. Il Consorzio definisce la bresaola alleata della felicità perché aiuta a produrre serotonina, l’ormone del buonumore, grazie al triptofano, è ricca di vitamina B12 (0,77 microgrammi per 100 grammi), considerata la vitamina dell’energia, e fornisce zinco (4,5 milligrammi) e selenio (7 microgrammi) che aiutano il sistema immunitario. Presenta solo 151 calorie, 33,1 grammi di proteine (nobili, cioè quelle di origini animale) e con il suo ferro (2,6 milligrammi) aiuta la produzione di globuli rossi e contrasta l’anemia. Ricordiamoci che il ferro animale è ferro eme, più assorbibile di quello non eme vegetale. Inoltre, migliora l’assorbimento del ferro non eme, proprio come fa l’acido citrico del limone.
Seppure il carpaccio rucola e limone sia più espressione di un gusto nazionale che di uno precisamente valtellinese, da un punto di vista salutistico l’abbinamento esalta l’assorbimento del ferro eme e non eme della combinazione. La bresaola contiene 1,6 grammi di sodio, rapporto sfavorevole con il potassio, 630 milligrammi (il rapporto virtuoso tra i due è pari a 1), ma è anche vero che il prosciutto ne contiene 6 grammi, il salame 4 e il cotto 2. Il limite massimo giornaliero di sodio è di 2 grammi: un etto di bresaola neanche lo tocca. Quanto al colesterolo, siamo a 63 milligrammi: il tetto giornaliero è di 300 milligrammi. Poiché un etto di bresaola è un quinto del massimo, via libera non solo alla conferma di salume decisamente magro, ma anche al consumo come secondo piatto o merenda (la bresaola è estremamente digeribile e si presta a essere consumata anche come merenda proteica, provate!).
«Il simbolo della Valtellina più autentica»
Sciatt à porter, al 18 di viale Monte Grappa a Milano, è stato incoronato poco dopo l’apertura campione regionale dalla guida dedicata allo street food del Gambero rosso per la bella idea del cartoccio di sciatt da prendere à porter, appunto, per mangiarli camminando (il locale è aperto da mezzogiorno a mezzanotte). Gli sciatt (in dialetto vuol dire «rospetto») sono l’antipasto valtellinese di tocchi di formaggio Valtellina casera dop impastellati e fritti, rigorosamente preparati al momento come i pizzoccheri di grano saraceno e farina bianca (o di quinoa per i celiaci) e, in generale, tutto quello che si mangia qui. Street food, sì, ma anche home food, da gustare proprio come se ci si trovasse in una casa o in un rifugio della rustica valle lombarda. Ideato e condotto in maniera incantevole e brillante da Emma Marveggio, fiera valtellinese, questo delizioso luogo di ristoro che ricorda, tutte insieme, una bottega, una baita e un ristorante di Valtellina, riesce nell’incredibile scommessa di trasportare la tradizione culinaria della valle che nel 2026 ospiterà le Olimpiadi invernali a Milano. Tutte le definizioni che ha collezionato nel tempo, nel non facile mondo della ristorazione contemporanea, da «rifugio metropolitano» a «baita in città» passando per «Valtellina experience», sono corrette, ma più che parlare dei cibi conviene far parlare i cibi. Bresaole, prosciutti, marmellate, formaggi, polenta e taroz con salame artigianale, salsiccia o brasato, trota salmonata e affumicata, carpaccio e battuta di fassona, lo tzigoiner, torte, vini come lo Sforzato di Valtellina Docg di Mamete Prevostini. Tutto qui è Valtellina o, se preferite, tutta la Valtellina è qui.
Emma, perché ci tiene a specificare che Wally è un cuciniere?
«Perché da quando ho aperto, 8 anni fa, Wally è con me e l’obiettivo di Sciatt à porter è sempre stato quello di portare a una popolazione che non raggiunge la Valtellina per conto proprio l’autenticità di una cucina di casa che ha origine in Valtellina. Cuciniere deriva da questo: cucini con una ricetta, non hai l’esigenza di creare nuovi piatti o elaborare quelli che ci sono. Sciatt à porter realizza con autenticità un prodotto autentico».
Lei porta avanti la tradizione, tra altro, del pizzocchero.
«Di tutto ciò che è tradizione contadina valtellinese, che poi era quella dei miei nonni».
Come le è venuto in mente di portare la Valtellina a Milano centro?
«Quando scoppiò la crisi del 2008, ho iniziato a pensare che le famiglie che raggiungevano la Valtellina nel fine settimana per mangiare questi prodotti forse avrebbero dovuto farlo una volta di meno, compresa la sottoscritta. Così ho deciso di portare le cose di cui sono sempre stata golosa a Milano. L’obiettivo è stato riprodurre a Milano esattamente quello che c’è là. Non un succedaneo, ma la ricchezza, la bontà, il meglio di quel territorio».
Non solo cibo della Valtellina, c’è anche il pezzotto.
«Che io conosca, oggi solo due aziende del centrovalle producono il pezzotto con telai a mano. Sono fatti con fettucce che sono scarti di tessuto dell’industria. Ognuno è diverso dall’altro, non si può scegliere un colore. Sono manufatti dell’artigianato locale che i contadini di una volta usavano come tappeti e coperte, anche per batterci la segale. L’uso “vezzoso” a tavola è più recente, in Valtellina ce l’hanno tanti ristoranti e mi è parso carino portarlo a Milano. Usiamo anche altre mise en place, ma tramite questa cerchiamo di mostrare il valore di un lavoro antico nel centro della movida».
La bresaola della Valtellina Igp, secondo disciplinare, si può preparare anche con carni straniere, basta che siano lavorate in Valtellina con la sapienza e le condizioni climatiche locali. Lei serve la bresaola punta d’anca Extra e la bresaola L’Originaria, entrambe del salumificio Mottolini, ma anche altre bresaole: ce ne parla?
«Ho anche la bresaola di Fassona, sempre di Mottolini. La punta d’anca Extra è un prodotto che va all’industria, di altissima qualità. La punta d’anca è molto morbida, è una carne che arriva da mucche di allevamento che non sono valtellinesi, ma questo non significa che non sia buona: è buonissima! Il prodotto è veramente eccezionale, anzi, un mucchio di persone preferiscono questa all’Originaria, dipende dai gusti. Quello della punta d’anca è un sapore più delicato, quello dell’Originaria più forte. Per quest’ultima l’animale nasce, vive e muore in Valtellina, ma per tutt’altra ragione. L’idea del bresaolificio del signor Mottolini è stata quella di recuperare la tradizione di una volta. Il limite è che una bresaola come l’Originaria non potrebbe mai andare all’industria, non c’è proprio la possibilità di produrla per l’industria, non ci sono gli animali valtellinesi sufficienti per farlo, e questa è la ragione per cui Sciatt à porter la tiene, siamo gli unici a Milano. Poi ho una bresaola affumicata e una slinzega di Panatti, macelleria di Chiavenna. Sono altre lavorazioni molto particolari, di qualità altissima».
Il suo è l’unico ristorante di Milano nel quale è possibile trovare l’Originaria?
«Sì. Per il resto la potete trovare in Valtellina, nei ristoranti valtellinesi o nel punto vendita di chi la produce. L’Originaria è una bella idea di recupero dell’animale di filiera latte quando non fa più latte, è una bresaola frutto di un’intuizione e di un grande amore per il territorio valtellinese, perciò la tengo. Sul retro della bresaola L’Originaria c’è l’etichetta con il nome dell’allevatore. Ora ne ho una che proviene da un allevamento di mucche da latte di Colorina, un paesino prima di Sondrio. L’indicazione dell’allevamento di provenienza soddisfa un desiderio di tracciabilità assoluta, io so chi è l’allevatore che dava il latte di questa mucca a una latteria valtellinese. Ma è anche un punto di contatto tra il consumatore che si trova a mangiarla qui da me a Milano e la realtà valtellinese, un tramite per innescare un circuito virtuoso che parte dall’allevamento, passa per l’industria di trasformazione, per il commercio e torna all’allevamento che può ospitare un turismo che dia valore a questo tipo di fatiche».
Anche nel suo crème caramel c’è Valtellina, tramite le uova di selva dell’azienda La Gramola, altra eccellenza valtellinese molto amata dagli chef.
«L’uovo di selva è un’altra intuizione di un valtellinese che aveva una casa nel bosco, uno spazio terapeutico a servizio di una comunità per minori, poi ha comperato le sue prime mille galline. Le galline depongono queste uova in una selva a 750 metri vicino a Morbegno, tutti i giorni, sempre negli stessi luoghi. Ho fatto preparare dai miei cucinieri due crème caramel, secondo la ricetta di mia madre, uova, latte e zucchero, cotti a bagnomaria, come una volta, uno con uova di galline libere di Pianura padana, l’altro con le uova di selva. Ho assaggiato e pur essendo fatti dalla stessa mano con la stessa ricetta e gli altri ingredienti, uova a parte, uguali, tra i due c’era un abisso. Non sapevo quale contenesse l’uovo di selva, poi è risultato che quello che avevo scelto, il più buono, aveva l’uovo di selva. Uso queste uova per il crème caramel e per le due torte in menu. Prossimamente verranno utilizzate anche con modalità più “visibile”».
Lei sembra un’ambasciatrice della Valtellina a Milano. C’è qualcuno, milanese ma anche no, che non era mai stato in Valtellina e dopo essere stato da lei ci è andato, magari a prendere il formaggio da qualche allevatore dell’Originaria?
«Sì, e questo mi ha riempito di orgoglio. Noi siamo sulla guida francese Routard. Il primo anno avevano posto la Valtellina in Val d’Aosta e questo mi ha scandalizzato, perché la Valtellina è il vero polmone verde della Lombardia. C’è tantissimo da fare, sul territorio e per i valtellinesi fuori dal territorio. Ci sono poi tanti che non hanno radici nel territorio, ma hanno iniziato ad apprezzarlo e raccontarlo perché si sono accorti che è davvero un territorio da scoprire, da tutti i punti di vista».
Ci riassume la filosofia di Sciatt à porter?
«Dare valore all’origine. Essere un luogo dove chi ha voglia di trovare la vera autenticità è pronto ad attraversare una città o una regione per venirle a mangiare da noi e questo avviene».
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Il salume di carne bovina è soprannominato «l’alleato della felicità» perché aiuta a produrre serotonina e altri elementi che rafforzano il sistema immunitario.La ristoratrice Emma Marveggio: «Conosco gli allevatori e faccio di tutto per valorizzare le realtà locali fatte di piccoli numeri e alta qualità. Così si riesce a riprodurre anche nel centro di Milano il meglio di quel territorio. La mia filosofia? Dare valore all’origine».Lo speciale contiene due articoli.Se lo specchio di Cenerentola si fosse sentito domandare del salume più magro e non della più bella, la risposta sarebbe stata certamente: «È la bresaola il salume più magro del reame!». Secondo alcuni, il nome di questo salume di carne cruda essiccata dalla forma a parallelepipedo o cilindro, avvolto da budello (non sempre edibile) proviene da «brisiola», cioè braciola. Per Atlante Slow Food dei prodotti regionali italiani, Slow Food Editore, «l’origine del nome pare risalga al modo di dire salaa come brisa (salata come la brisa, una ghiandola dei bovini)». Secondo altri ancora bresaola deriva da brasa cioè brace, perché in passato il salume si faceva asciugare in locali riscaldati da bracieri. Chissà. In Italia, siamo tutti pazzi per la bresaola. Secondo dati Cia-Agricoltori italiani, il consumo di bresaola vale 454 milioni di euro, il settore occupa 1.400 persone per una produzione di 12.600 tonnellate, la grande distribuzione è il principale canale di vendita, cresce l’acquisto della bresaola in vaschetta (circa il 50% della produzione totale) rispetto a quello al banco taglio, la quota export è il 7% della produzione, quasi totalmente esperita dalle aziende del Consorzio della bresaola della Valtellina Igp, che si può produrre solo in provincia di Sondrio. Bresaola di qualità che si ricava dai muscoli della coscia di vitello come fesa, punta d’anca, sottofesa, magatello e sottosso (i tagli si rifilano, si conciano, si pongono in vasche tra strati di miscela salante, dopo 10 giorni si lavano, si asciugano, si insaccano nella bondeana di bovino e si stagionano al sole e poi in ambienti ventilati asciutti).Essendo un Igp, basta che solo uno tra gli stadi di produzione, trasformazione ed elaborazione si svolga nell’area geografica nella quale la tradizione del prodotto tutelato si è sviluppata. Le carni trattate oggi provengono anche da bovini allevati e macellati da Brasile, Argentina e Irlanda. Per alcuni, fare bresaole da animali che giungono da fuori Valtellina renderebbe quella bresaola meno valtellinese. Un’applicazione semplice semplice del concetto di territorialità farebbe in effetti pensare a un’origine rigorosamente locale della materia prima, altro che saper fare o clima necessario a elaborarla. Tuttavia, utilizzando un’ottica più complessa si capisce come a un rigore produttivo localista per prodotti originari di piccole zone dovrebbe corrispondere un consumo altrettanto piccolo e dunque locale. Per un consumo nazionale, come ci hanno spiegato sia la ristoratrice valtellinese Emma Marveggio di Sciatt à porter, sia il produttore di bresaole valtellinese Emilio Mottolini, gli animali allevati nella filiera carne in Valtellina non possono assolutamente soddisfare numeri così alti. Esistono varianti come la bresaola di cavallo, di cervo, di maiale, di bufalo oppure quella affumicata. Non è facile da trovare, ma c’è anche la bresaola cotta. Con gli scarti di produzione, le parti più vicine all’osso, si produce la slinzega. La bresaola è diventata un secondo piatto molto diffuso grazie alla preparazione tipica del carpaccio, che l’altra settimana abbiamo visto essere un affettato di carne cruda e fresca. Per estensione, il concetto si applica anche a pesce, verdura, frutta e carne in questo caso cruda ma essiccata. Per un carpaccio di bresaola a regola d’arte si crea una citronette con olio di oliva, succo di limone e pepe, ci si irrorano le fette e si lascia insaporire qualche minuto. Parmigiano e rucola (da apporre dopo la marinatura, 1 parte di rucola ogni 4-5 di bresaola) sono un’aggiunta nazionale, come il limone.Il carpaccio valtellinese originario è la «bresaola santa», fette al naturale affiancate da riccioli di burro al ginepro e pane di segale. Il Consorzio definisce la bresaola alleata della felicità perché aiuta a produrre serotonina, l’ormone del buonumore, grazie al triptofano, è ricca di vitamina B12 (0,77 microgrammi per 100 grammi), considerata la vitamina dell’energia, e fornisce zinco (4,5 milligrammi) e selenio (7 microgrammi) che aiutano il sistema immunitario. Presenta solo 151 calorie, 33,1 grammi di proteine (nobili, cioè quelle di origini animale) e con il suo ferro (2,6 milligrammi) aiuta la produzione di globuli rossi e contrasta l’anemia. Ricordiamoci che il ferro animale è ferro eme, più assorbibile di quello non eme vegetale. Inoltre, migliora l’assorbimento del ferro non eme, proprio come fa l’acido citrico del limone. Seppure il carpaccio rucola e limone sia più espressione di un gusto nazionale che di uno precisamente valtellinese, da un punto di vista salutistico l’abbinamento esalta l’assorbimento del ferro eme e non eme della combinazione. La bresaola contiene 1,6 grammi di sodio, rapporto sfavorevole con il potassio, 630 milligrammi (il rapporto virtuoso tra i due è pari a 1), ma è anche vero che il prosciutto ne contiene 6 grammi, il salame 4 e il cotto 2. Il limite massimo giornaliero di sodio è di 2 grammi: un etto di bresaola neanche lo tocca. Quanto al colesterolo, siamo a 63 milligrammi: il tetto giornaliero è di 300 milligrammi. Poiché un etto di bresaola è un quinto del massimo, via libera non solo alla conferma di salume decisamente magro, ma anche al consumo come secondo piatto o merenda (la bresaola è estremamente digeribile e si presta a essere consumata anche come merenda proteica, provate!). <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/bresaola-affettato-magro-accresce-buonumore-2656574230.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-simbolo-della-valtellina-piu-autentica" data-post-id="2656574230" data-published-at="1644144844" data-use-pagination="False"> «Il simbolo della Valtellina più autentica» Sciatt à porter, al 18 di viale Monte Grappa a Milano, è stato incoronato poco dopo l’apertura campione regionale dalla guida dedicata allo street food del Gambero rosso per la bella idea del cartoccio di sciatt da prendere à porter, appunto, per mangiarli camminando (il locale è aperto da mezzogiorno a mezzanotte). Gli sciatt (in dialetto vuol dire «rospetto») sono l’antipasto valtellinese di tocchi di formaggio Valtellina casera dop impastellati e fritti, rigorosamente preparati al momento come i pizzoccheri di grano saraceno e farina bianca (o di quinoa per i celiaci) e, in generale, tutto quello che si mangia qui. Street food, sì, ma anche home food, da gustare proprio come se ci si trovasse in una casa o in un rifugio della rustica valle lombarda. Ideato e condotto in maniera incantevole e brillante da Emma Marveggio, fiera valtellinese, questo delizioso luogo di ristoro che ricorda, tutte insieme, una bottega, una baita e un ristorante di Valtellina, riesce nell’incredibile scommessa di trasportare la tradizione culinaria della valle che nel 2026 ospiterà le Olimpiadi invernali a Milano. Tutte le definizioni che ha collezionato nel tempo, nel non facile mondo della ristorazione contemporanea, da «rifugio metropolitano» a «baita in città» passando per «Valtellina experience», sono corrette, ma più che parlare dei cibi conviene far parlare i cibi. Bresaole, prosciutti, marmellate, formaggi, polenta e taroz con salame artigianale, salsiccia o brasato, trota salmonata e affumicata, carpaccio e battuta di fassona, lo tzigoiner, torte, vini come lo Sforzato di Valtellina Docg di Mamete Prevostini. Tutto qui è Valtellina o, se preferite, tutta la Valtellina è qui. Emma, perché ci tiene a specificare che Wally è un cuciniere? «Perché da quando ho aperto, 8 anni fa, Wally è con me e l’obiettivo di Sciatt à porter è sempre stato quello di portare a una popolazione che non raggiunge la Valtellina per conto proprio l’autenticità di una cucina di casa che ha origine in Valtellina. Cuciniere deriva da questo: cucini con una ricetta, non hai l’esigenza di creare nuovi piatti o elaborare quelli che ci sono. Sciatt à porter realizza con autenticità un prodotto autentico». Lei porta avanti la tradizione, tra altro, del pizzocchero. «Di tutto ciò che è tradizione contadina valtellinese, che poi era quella dei miei nonni». Come le è venuto in mente di portare la Valtellina a Milano centro? «Quando scoppiò la crisi del 2008, ho iniziato a pensare che le famiglie che raggiungevano la Valtellina nel fine settimana per mangiare questi prodotti forse avrebbero dovuto farlo una volta di meno, compresa la sottoscritta. Così ho deciso di portare le cose di cui sono sempre stata golosa a Milano. L’obiettivo è stato riprodurre a Milano esattamente quello che c’è là. Non un succedaneo, ma la ricchezza, la bontà, il meglio di quel territorio». Non solo cibo della Valtellina, c’è anche il pezzotto. «Che io conosca, oggi solo due aziende del centrovalle producono il pezzotto con telai a mano. Sono fatti con fettucce che sono scarti di tessuto dell’industria. Ognuno è diverso dall’altro, non si può scegliere un colore. Sono manufatti dell’artigianato locale che i contadini di una volta usavano come tappeti e coperte, anche per batterci la segale. L’uso “vezzoso” a tavola è più recente, in Valtellina ce l’hanno tanti ristoranti e mi è parso carino portarlo a Milano. Usiamo anche altre mise en place, ma tramite questa cerchiamo di mostrare il valore di un lavoro antico nel centro della movida». La bresaola della Valtellina Igp, secondo disciplinare, si può preparare anche con carni straniere, basta che siano lavorate in Valtellina con la sapienza e le condizioni climatiche locali. Lei serve la bresaola punta d’anca Extra e la bresaola L’Originaria, entrambe del salumificio Mottolini, ma anche altre bresaole: ce ne parla? «Ho anche la bresaola di Fassona, sempre di Mottolini. La punta d’anca Extra è un prodotto che va all’industria, di altissima qualità. La punta d’anca è molto morbida, è una carne che arriva da mucche di allevamento che non sono valtellinesi, ma questo non significa che non sia buona: è buonissima! Il prodotto è veramente eccezionale, anzi, un mucchio di persone preferiscono questa all’Originaria, dipende dai gusti. Quello della punta d’anca è un sapore più delicato, quello dell’Originaria più forte. Per quest’ultima l’animale nasce, vive e muore in Valtellina, ma per tutt’altra ragione. L’idea del bresaolificio del signor Mottolini è stata quella di recuperare la tradizione di una volta. Il limite è che una bresaola come l’Originaria non potrebbe mai andare all’industria, non c’è proprio la possibilità di produrla per l’industria, non ci sono gli animali valtellinesi sufficienti per farlo, e questa è la ragione per cui Sciatt à porter la tiene, siamo gli unici a Milano. Poi ho una bresaola affumicata e una slinzega di Panatti, macelleria di Chiavenna. Sono altre lavorazioni molto particolari, di qualità altissima». Il suo è l’unico ristorante di Milano nel quale è possibile trovare l’Originaria? «Sì. Per il resto la potete trovare in Valtellina, nei ristoranti valtellinesi o nel punto vendita di chi la produce. L’Originaria è una bella idea di recupero dell’animale di filiera latte quando non fa più latte, è una bresaola frutto di un’intuizione e di un grande amore per il territorio valtellinese, perciò la tengo. Sul retro della bresaola L’Originaria c’è l’etichetta con il nome dell’allevatore. Ora ne ho una che proviene da un allevamento di mucche da latte di Colorina, un paesino prima di Sondrio. L’indicazione dell’allevamento di provenienza soddisfa un desiderio di tracciabilità assoluta, io so chi è l’allevatore che dava il latte di questa mucca a una latteria valtellinese. Ma è anche un punto di contatto tra il consumatore che si trova a mangiarla qui da me a Milano e la realtà valtellinese, un tramite per innescare un circuito virtuoso che parte dall’allevamento, passa per l’industria di trasformazione, per il commercio e torna all’allevamento che può ospitare un turismo che dia valore a questo tipo di fatiche». Anche nel suo crème caramel c’è Valtellina, tramite le uova di selva dell’azienda La Gramola, altra eccellenza valtellinese molto amata dagli chef. «L’uovo di selva è un’altra intuizione di un valtellinese che aveva una casa nel bosco, uno spazio terapeutico a servizio di una comunità per minori, poi ha comperato le sue prime mille galline. Le galline depongono queste uova in una selva a 750 metri vicino a Morbegno, tutti i giorni, sempre negli stessi luoghi. Ho fatto preparare dai miei cucinieri due crème caramel, secondo la ricetta di mia madre, uova, latte e zucchero, cotti a bagnomaria, come una volta, uno con uova di galline libere di Pianura padana, l’altro con le uova di selva. Ho assaggiato e pur essendo fatti dalla stessa mano con la stessa ricetta e gli altri ingredienti, uova a parte, uguali, tra i due c’era un abisso. Non sapevo quale contenesse l’uovo di selva, poi è risultato che quello che avevo scelto, il più buono, aveva l’uovo di selva. Uso queste uova per il crème caramel e per le due torte in menu. Prossimamente verranno utilizzate anche con modalità più “visibile”». Lei sembra un’ambasciatrice della Valtellina a Milano. C’è qualcuno, milanese ma anche no, che non era mai stato in Valtellina e dopo essere stato da lei ci è andato, magari a prendere il formaggio da qualche allevatore dell’Originaria? «Sì, e questo mi ha riempito di orgoglio. Noi siamo sulla guida francese Routard. Il primo anno avevano posto la Valtellina in Val d’Aosta e questo mi ha scandalizzato, perché la Valtellina è il vero polmone verde della Lombardia. C’è tantissimo da fare, sul territorio e per i valtellinesi fuori dal territorio. Ci sono poi tanti che non hanno radici nel territorio, ma hanno iniziato ad apprezzarlo e raccontarlo perché si sono accorti che è davvero un territorio da scoprire, da tutti i punti di vista». Ci riassume la filosofia di Sciatt à porter? «Dare valore all’origine. Essere un luogo dove chi ha voglia di trovare la vera autenticità è pronto ad attraversare una città o una regione per venirle a mangiare da noi e questo avviene».
i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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Getty Images
Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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(Ansa/Arma dei Carabinieri)
Si tratta in particolare di truffatori che ricorrevano al trucco del «finto carabiniere» per sottrarre denaro soprattutto a persone anziane. Tra gli indagati, uno era già detenuto per altra causa; sei sono stati portati in carcere, nove agli arresti domiciliari e cinque sottoposti all’obbligo di dimora.
Il provvedimento nasce da un’indagine convenzionalmente denominata «Altro Mondo», condotta dal Nucleo investigativo di Milano e avviata a partire dal 2023, come risposta alla recrudescenza di furti, rapine e truffe commessi prevalentemente in danno di soggetti vulnerabili, mediante la tecnica del «finto carabiniere».
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