2022-12-31
Il booster altera gli anticorpi: «Si resta malati più a lungo e sale il rischio di infezione»
Un nuovo studio mostra che, dopo la terza dose, cambia il tipo di risposta immunitaria: «Ridotta la capacità d’eliminare il virus». Sicuri sia saggio dare a tutti un altro «shot»?E se i plurivaccinati s’infettassero di più proprio perché sono plurivaccinati? Un po’ di mesi fa, quando le statistiche avevano iniziato a rivelare che l’incidenza dei contagi era più alta tra chi s’era recato ripetutamente negli hub per la puntura anti Covid, qualche esperto, come Francesco Broccolo, aveva ipotizzato una «anergia» del sistema immunitario: a un’eccessiva stimolazione poteva seguire una minore efficienza nel contrasto al virus. Adesso, uno studio pubblicato su Science immunology dimostra che, a partire dalla terza dose di Pfizer (e in seguito all’infezione naturale, ma comunque in modo più sensibile se si è stati sottoposti al booster a Rna messaggero), si verifica un cambiamento nel tipo di anticorpi prodotti dai vaccinati. Un meccanismo che potrebbe essere collegato a una compromissione della capacità di eliminare il Sars-Cov-2 dall’organismo. Ergo, a una maggiore durata della malattia e, plausibilmente, a una ridotta efficacia nel prevenire l’infezione.L’importanza della scoperta è accresciuta dalla rinvigorita psicosi per la variante cinese - di cui, beninteso, ancora non si trova traccia. Il caos in cui starebbe piombando il Dragone, in effetti, non è stato cavalcato soltanto per celebrare il ruolo salvifico dei vaccini occidentali. Qualcuno ne sta approfittando per rilanciare lo spot alla quarta dose. Bastava leggere, sul Corriere di ieri, Giuseppe Remuzzi: l’ennesima siringata va somministrata urgentemente «agli over 60, poi al resto della popolazione». E nemmeno questa basterà: trascorsi 120 giorni, ci vorrà la quinta dose. È il famoso «richiamo annuale» di Riccardo Chiaberge - quello che si effettua ogni quattro mesi. «La percentuale delle quarte dosi», ammoniva su Repubblica Franco Locatelli, «dovrebbe arrivare all’80% oltre i 60 di età». Un circo interminabile, che ormai lascia perplessi persino i camici bianchi: Pier Luigi Bartoletti, presidente dei medici di base, si è chiesto se valga la pena «continuare solo con i vaccini», o se si debba finalmente pensare «anche a farmaci e terapie specifiche per il Covid». E ovviamente, gli autori del paper, uscito sulla rivista dell’American association for the advacement of science, si sono resi conto che esso è rilevante ai fini dell «future campagne vaccinali contro il Sars-Cov-2», oltre che, in generale, per «gli sviluppi di nuovi vaccini basati sull’mRna contro altri patogeni».Ma cos’hanno trovato, di preciso, i 23 scienziati che hanno vergato l’articolo, affiliati ad atenei e centri di ricerca tedeschi? Esaminando i campioni prelevati da 29 sanitari, costoro hanno verificato che, eseguito il ciclo primario con il Comirnaty, i vaccinati avevano generato gammaglobuline (IgG) di tipo 1, cioè degli anticorpi associati alla stimolazione della fagocitosi cellulare e all’attivazione del complemento. In pratica, le IgG1 inducono le cellule a «divorare» gli intrusi e mettono in moto un meccanismo di mediazione umorale contro gli agenti infettivi. Fin qui, tutto nella norma. Soltanto che, già a sette mesi dalla seconda dose, iniziava ad aumentare anche la produzione di IgG di tipo 4. Il loro livello, però, raggiungeva il picco dopo il booster, «in pressoché tutti i vaccinati», nessuno dei quali aveva contratto il Covid. A 180 giorni dalla terza inoculazione, alcuni di loro, invece, avevano sperimentato infezioni postvaccinali. In questi ultimi, le IgG4 erano arrivate a costituire tra il 40 e l’80% degli anticorpi contro la proteina Spike. Occhio: chi s’era contagiato entro 70 giorni dal secondo shot non andava incontro a incrementi del livello di IgG 4. Il che significa che è la terza dose a giocare un ruolo essenziale nella stura a questa classe di anticorpi. Le IgG4, che in teoria accrescono l’«avidità» del sistema immunitario nell’aggredire il virus e le barriere contro i legami tra i recettori cellulari e la Spike, sono altresì collegate a «un minor potenziale» di innescare le cosiddette funzioni effettrici. Meno fagocitosi, meno complemento, minor capacità di eliminazione del virus. Armi spuntate contro il Sars-Cov-2. Qui sta l’inghippo. Le IgG4, commenta il professor Mariano Bizzarri con La Verità, tendono a legarsi con più prontezza al patogeno, ma, paradossalmente, quasi lo «proteggono» dalla risposta immune. Un primo report su questo fenomeno, del resto, risaliva a un anno fa: in un articolo di Frontiers in immunology, l’aumento delle IgG4 veniva collegato a una prognosi peggiore.In teoria, un anticorpo che impedisce alla proteina S di legarsi ai recettori delle cellule dovrebbe offrire all’organismo un qualche schermo. Ma nella variante Omicron, la Spike è mutata radicalmente. Dunque, il plurivaccinato non è protetto dall’infezione, quando incontra i ceppi mutati; e una volta che s’infetta, possiede un minor numero degli anticorpi utili a eliminare il virus. Illustriamo il ragionamento con una metafora bellica. Mettiamo che il nostro sistema immunitario abbia eretto una muraglia con le prime due dosi. Il terzo shot equivale a un ulteriore strato di rocce, che eleva in altezza e solidità la barriera. Intanto, però, l’assediante s’è procurato delle palle di cannone in grado di bucare la fortificazione. Le sue truppe, dunque, penetrano nella cittadella. Ma all’inizio, dentro le mura, erano schierati dei soldati con pesanti armature e lance affilate. Ora, al loro posto, ci sono fanti con protezioni leggere e corti gladi. Cacciare l’invasore diventerà più difficile e richiederà più tempo.In definitiva, l’aumento delle sottoclassi di IgG4 potrebbe portare a una persistenza virale più lunga - addirittura, correlabile al long Covid? - o favorire l’emergere di infezioni associate che beneficerebbero dello stato di relativa tolleranza indotto sul sistema immunitario. Così, come sottolinea ancora il prof Bizzarri, la «tolleranza indotta nei riguardi nel virus» spiegherebbe «perché chi ha fatto tre-quattro dosi tende a contagiarsi di più». D’altronde, i dati dell’Iss sulla quarta dose, spacciata per una panacea, sono inequivocabili: essa conferisce un vantaggio nell’immediato, ma passati quattro mesi, chi l’ha ricevuta si contagia, finisce in ospedale e, addirittura, muore di più di tutti gli altri vaccinati a vario titolo. Seguendo la filosofia di Locatelli & c., il secondo richiamo diventerà semplicemente il preludio alla quinta dose. Come previsto da Remuzzi. Ma allora, quand’è che potremmo scendere dalla giostra delle punture?
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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