
Prima puntata sulla vita del grande fotografo del food nato a Torino da una famiglia operaia. La sua passione per l’obiettivo lo porta a intuire che un piatto, oltre che il palato, può colpire pure l’occhio. L’incontro con lo chef Ferran Adrià gli cambierà la vita.Raccontare delle opere e i giorni di Bob Noto è impresa ardua e divertente. Ardua perché la sua vita è stata un’antologia di prodezze in molti settori. Divertente perché il tutto è sempre accompagnato da un’ironia e un disincanto che fanno la differenza.Viene al mondo in quel di Torino, erede di una famiglia di solida tradizione nel campo della ferramenta ma, sin da subito, le sue curiosità sono multiformi in altri settori. Un primo imprinting quando, sedicenne, gli regalano la sua prima macchina fotografica. Varie passioni ribollono in lui, a partire da quella musicale, tanto che alcune sue foto furono utilizzate per creare delle copertine discografiche, quando ancora il vinile era custode di varie armonie. E non si negò nemmeno al teatro, dove calcò le scene sin da ragazzo «con il suo incedere da protagonista, la gestualità in bilico tra lo ieratico e il dissacrante», come furono poi, molto spesso, i suoi percorsi di vita. «Faccio il ferramenta», continuò a presentarsi quando il mondo, vedendone la figura così sorprendente nel suo manifestarsi, gli chiedeva quale fosse la sua vera identità: fotografo, giornalista, gourmet dalle mille forchette.Il gemellaggio tra cucina e fotografia si consolida via via nel tempo tanto che, a partire dagli anni Ottanta, diventa la sua mission principale, ferramenta a parte ovviamente. È un tempo in cui l’interesse per la cucina varca i confini degli addetti ai lavori, complice il miglioramento economico di una società che poteva permettersi di annusare anche profumi diversi da quelli domestici o della trattoria sottocasa. Dalle colonne dell’edicola quotidiana come dagli schermi televisivi, iniziano ad apparire i volti dei grandi maestri, dal «Divin» Gualtiero Marchesi, a Gianfranco Vissani come Angelo Paracucchi. Bob coglie, per primo, che la narrazione di un piatto merita ben altro che la rigida posa davanti all’obiettivo come si usa per le carte di identità. Anche i piatti hanno un’anima, espressione delle risorse di un territorio, del personale talento nell’elaborarli da parte di cuochi ispirati. Un piatto, prima ancora che stimolare la debita salivazione, può colpire l’occhio, incuriosendo poi tutti gli altri sensi. Il riso oro e zafferano di Marchesi non ha nulla da invidiare a un’opera di quel matto di Andy Warhol.Ecco, allora, che porsi davanti a un piatto e cercare di descriverne le emozioni trova nel nostro Bob un’ispirazione che lo avvicina ad alcuni linguaggi dell’arte contemporanea, il suo obiettivo sempre più preso dalla missione di dare «valore scultoreo» ai piatti stessi. Per certi versi, il cambio di passo definitivo avviene agli inizi degli anni Novanta, con la scoperta (reciproca) di quel geniaccio di Ferran Adrià, nella catalana Roses, con il suo El Bulli. Inizialmente avvenne tutto un po’ per caso, almeno così poi l’ha raccontata il nostro ferramenta goloso. Nel 1993 vi era l’ennesima crisi economica «ed ero in banca a studiare i cambi delle valute», raccontò, per capire dove potesse convenire andare in vacanza. «Mi accorsi che il cambio più favorevole si poteva avere con la peseta spagnola».Prendi l’auto e vai. Al tempo non c’erano gli autovelox a tenderti l’agguato dopo ogni curva e, in poche ore, Bob nostro giunge al confine con la Catalogna. Siamo sul fare del tramonto, è meglio organizzarsi per non dover mangiare una paella al salto mentre fai benzina. Sulla ben nota guida gommata aveva notato che, proprio là vicino, c’era un esordiente giovanotto che, in poco tempo, era stato premiato a dimensione bistellare. Nel menù degustazione risulta un inedito (e un po’ misterioso) «carpaccio di cervella con crema inglese e gelatina all’acqua di mare». Dai che proviamo. Le papille vengono trafitte dall’emozione. Un colpo di fulmine. Il giorno dopo, a pranzo, eccolo di nuovo al desco di uno stupito e compiaciuto Ferran. I due si guardano, capiscono che sono fatti della stessa pasta, quella che, attraverso la cucina, sa trasmettere la sintesi di molte emozioni: arte, gusto, curiosità, quel tocco di estetica che fa la differenza.«Bob mi dimostrò da subito una straordinaria capacità di analisi che raramente avevo incontrato prima, anche con quei critici di settore considerati penne di estrema autorevolezza». Il piatto diventa una scacchiera di emozioni e ispirazioni su cui confrontarsi, «aveva un talento di degustazione innato, per certi versi un punto di partenza senza ritorno» e detto da un maestro dei fornelli che ha segnato un’epoca, influenzando come nessuno la cucina rivoluzionaria del tempo, le parole hanno un peso. Grazie anche alla foto di Bob nostro, ripetuti furono i pellegrinaggi culinari oltre che di palati impenitenti, anche di professionisti affermati, che non solo si fermarono a tavola, ma pure fecero degli stages ai fornelli per carpire alcuni dei segreti che ispiravano il talento del catalano Ferran. Due nomi per tutti: Massimo Bottura e Moreno Cedroni. Ma nessuno di questi eguagliò il nostro Bob, l’unico ad aver assaggiato i milleottocento piatti che uscirono dalla mente creativa di Adrià.Ci fu chi, tra le ironiche penne della culinaria nazionale, definì Bob Noto il «palato cocchiero» di Ferran Adrià. E non a torto. Tra coloro che Bob illuminò sulla via del Bulli catalano c’era un allora giovanissimo di belle speranze, Carlo Cracco. «Bob era un intellettuale della cucina che sapeva leggere i piatti e aveva un grande senso dell’artistico che poi declinava nella sua arte, quella fotografica». Nel rapporto con Ferran Adrià c’è un altro episodio che caratterizza il nostro protagonista, anticipatore di quell’altra sua arte, ovvero di grafico geniale e creativo. In una nota trasmissione armata di Tapiri d’oro a premiare chi sgarrava (secondo loro) dai binari della consuetudine, parte una serie di puntate atte a sminuire la nascente cucina molecolare, di cui Adrià fu anticipatore, accusando direttamente il profeta dei fornelli, «di avvelenare i suoi incauti ammiratori». Bob non si perse d’animo e pubblicò una vignetta con la di lui tomba e il volto sorridente a farne cornice. «Bob Noto, un cliente di Ferran Adrià», e se lo diceva lui che, dopo spazzolate seriali dei suoi piatti, era ancora in perfetta salute … a buon intenditor. Non solo, ma oltre ad annusare la qualità dei piatti, il suo fiuto lo portava anche altrove. «È stato uno dei più grandi talent scout dell’epoca», lo ricorda Marco Bolasco, «ciò che rendeva diverso Bob dagli altri è che lui i talenti li trovava, li sapeva trovare e se li andava pure a cercare». Qua entra in gioco un altro aspetto che ha reso la figura di Bob Noto unica nell’ambiente per una ventina d’anni, ovvero il suo modo di fotografare. Fino ad allora i piatti che poi finivano sulle riviste seguivano un protocollo un po’ asettico. Posto che poi, una volta stampati, non devono rispondere né di profumi né di temperature, erano messi in posa davanti all’obiettivo del fotografo di turno come una sorta di natura morta. Per Bob il copione è totalmente diverso. Una volta comodamente seduto al ristorante di turno e fatta la debita comanda dei piatti, era pronto ad estrarre dalla tasca della giacca la sua bella fotocamera. Il tempo di montare un piccolo treppiede portatile e, appena il servizio gli portava al tavolo la Marylin culinaria della sequenza in degustazione, oplà, si alzava dalla sedia, rapido montaggio del tutto, fotoclic e così sia. «Non devono passare più di due minuti» perché poi «il piatto si raffredda e perde di gusto e profumi». Più chiaro di così non poteva esserlo.Una specie di Bob Capa delle trincee culinarie. Poi, a digestione compiuta, nella domestica camera oscura, avveniva la «resurrezione» del piatto, trasformato in degna «opera scultorea». Veniva liberato da tovaglie, ceramiche e posate di contorno, per diventare protagonista assoluto del tutto, forme eleganti o sbarazzine, colori bandiera cromatica dei gusti che potevano suggerire.
Marco Risi (Getty Images)
Il regista figlio d’arte: «Il babbo restò perplesso dal mio primo film, poi grazie a “Mery per sempre” iniziò a prendermi sul serio. Mi considerano quello “impegnato”, però a me piaceva anche girare commedie».
Nel riquadro, la stilista Giuliana Cella
La designer Giuliana Cella: «Ho vissuto in diversi Paesi, assimilandone la cultura. I gioielli? Sono una passione che ho fin da bambina».
Eugenia Roccella (Imagoeconomica)
Il ministro della Famiglia Eugenia Roccella: «Il rapporto delle Nazioni unite sulla surrogata conferma che si tratta di una violenza contro le donne e che va combattuta ovunque. Proprio come ha deciso di fare il governo, punendo i connazionali che ne fanno ricorso all’estero».
Mario Venditti. Nel riquadro da sinistra: Oreste Liporace e Maurizio Pappalardo (Ansa)
- Il presunto capo dei carabinieri agli ordini di Venditti era vicino a un generale e due imprenditori sotto processo per appalti truccati.
- Chiesti controlli bancari anche sulla toga che archiviò Sempio e su quelli delle Cappa.