2023-05-27
Un secolo di moto BMW: storia di un bicilindrico venuto dal cielo
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La prima moto BMW, la R32 del 1923 (BMW Group)
La guerra, per la Germania dell’ultimo kaiser Guglielmo II, si era conclusa drammaticamente. La sconfitta del 1918 aveva comportato la dissoluzione del Deutsches Kaiserreich (il secolare Impero germanico) e l’imposizione delle durissime clausole nate dal Trattato di Versailles. La Germania della Repubblica di Weimar era un paese in ginocchio, messa sul lastrico dalla gravissima inflazione e dal peso della riparazioni di guerra. L’industria meccanica e in particolare quella aeronautica erano paralizzate per il divieto di riarmo incluso nelle clausole della pace e di conseguenza la possibilità di produrre aeroplani.
Tra le aziende che maggiormente avevano contribuito allo sviluppo dell’aviazione militare tedesca, c’era la bavarese Bayerische Flugzeugwerke (BFW) che a partire dal 1916 aveva costruito apparecchi da caccia su licenza e motori aeronautici. Questa azienda si era associata ad un altro produttore di motori per aviazione, la Rapp Motorenwerke, abbandonata durante la guerra dal fondatore e recuperata dall’ingegnere ed ex dipendente BFW Karl Popp. Quest’ultimo perfezionerà nel 1916 la fusione con la Rapp mutando la ragione sociale in Bayerische Motoren Werke (BMW). Uno dei primi prodotti dell’azienda bavarese nel primo dopoguerra fu un piccolo motore pensato per applicazioni industriali, un bicilindrico orizzontale di 494cc con distribuzione a valvole laterali progettato dall’ingegnere Max Friz. L’applicazione motociclistica avvenne poco dopo quando il motore M2 B15 (dove 2 sta per il numero di cilindri e B per boxer) fu montato sulla Helios, una motocicletta progettata inizialmente dalla Bayerische Flugzeugwerke sulla quale era stato montato il bicilindrico ma in posizione longitudinale con i cilindri allineati all’asse del telaio, in modo analogo ad un coevo motore inglese che equipaggiava una meteora del mondo del motociclismo, la britannica ABC. Pur affidabile meccanicamente, il propulsore soffriva per la difficoltà di raffreddamento del cilindro posteriore, nascosto al flusso d’aria. Max Fritz stesso dichiarò il fallimento del progetto affermando che l’unico futuro della Helios sarebbe stato quello di essere gettata in un lago. Bastò tuttavia un’idea semplice ma vincente: cambiare la disposizione del motore rispetto al telaio, con i cilindri trasversali. Questa fu la ricetta base per il futuro successo del marchio bavarese nel campo delle due ruote, che si concretizzò nel 1923 con la prima motocicletta marchiata BMW, la R32. Dotata del boxer da 8,5 cavalli la moto sfiorava la velocità massima di 100 Km/h, un traguardo ragguardevole per l’epoca. La bicilindrica portava con sé due aspetti innovativi, che rimarranno caratteristici di tutta la produzione BMW fino agli anni Novanta: la frizione monodisco a secco e la intramontabile trasmissione cardanica. Il cambio, invece, era un più tradizionale tre marce con leva al serbatoio mentre il telaio era rigido al posteriore e ammortizzato da una balestra anteriormente. La R32 evolvette durante il decennio di Weimar in modelli che ereditarono la medesima impostazione della progenitrice fino al debutto delle R11 e R16 nel 1929, dotate di un telaio totalmente nuovo e con il motore da 750cc, una cubatura che diventerà parte fondamentale della tradizione della casa tedesca. Gli anni Trenta videro lo sviluppo di modelli sempre più innovativi, rappresentati dalla capostipite R5 da mezzo litro di cubatura, caratterizzata da una linea moderna e dal telaio tubolare reso particolarmente elastico dalla saldatura ad arco elettrico e dalle 2 valvole per cilindro, in grado di regalare alla bicilindrica una velocità di punta di 140 km/h. Alla fine del decennio la casa bavarese fu coinvolta integralmente nella produzione bellica, sia per quanto riguardava il segmento dei motori aeronautici che dei veicoli e motoveicoli. Sicuramente il modello più famoso degli anni di guerra fu la R75, dotata di sidecar con trazione sulle due ruote posteriori e cambio con riduttore di velocità per affrontare forti pendenze e i terreni accidentati delle strade di guerra sia in Europa che in Africa settentrionale.
La fine della guerra significò per BMW come per l’intero Paese l’anno zero. I bombardamenti alleati avevano polverizzato gli stabilimenti sul territorio tedesco e la produzione di motociclette si arrestò completamente. A differenza del primo dopoguerra quando le riparazioni affossarono l’economia di Weimar, il nuovo assetto mondiale fece sì che gli Alleati organizzassero una rapida ricostruzione nell’ottica della nuova situazione geopolitica all’alba della Guerra Fredda. Nel 1948 la casa di Monaco di Baviera riprese la produzione dei modelli prebellici, mentre la divisione della Germania generò anche la spartizione degli stabilimenti BMW. Nella DDR gli stabilimenti continuarono per un periodo la produzione sotto il medesimo marchio, fino a quando la casa madre in territorio della Repubblica Federale decise per un’azione legale internazionale dalla quale nacque la tedesco-democratica Eisenacher Motorenwerkes (EMW) che produsse per un periodo utilizzando un marchio del tutto simile a quello originale solamente modificato nei colori, in questo caso arancione in campo bianco.
A Monaco di Baviera gli anni Cinquanta si aprirono con la progettazione di nuovi modelli, tra cui un inedito monocilindrico da 10 Cv che iniziò la difficile ripresa della motorizzazione tedesco occidentale. Il modello di punta del decennio uscì nel 1955, la R69 con propulsore boxer da 549cc e nuovo cardano fu un successo che la rese celebre in tutta Europa, andando ad equipaggiare le forze dell’ordine tedesche. Rimarrà in produzione per quasi tutto il decennio successivo, fino al 1969.
La produzione anni Sessanta continuò all’insegna della strada tracciata dalla R69, con poche se non nulle innovazioni tecniche. Alla fine del decennio, tuttavia, la concezione della motocicletta come mezzo di locomozione primaria fu abbandonata dalla motorizzazione di massa a 4 ruote, mentre la concorrenza estera e la sempre maggiore richiesta di moto performanti spinsero la dirigenza BMW a concepire un modello completamente nuovo, marchiato dal numero seriale /5 («barra cinque») equipaggiate con il rodatissimo boxer a trasmissione cardanica e un telaio tutto nuovo, che abbandonava il trentennale tubolare. Le cilindrate della serie mantenevano le classiche cubature di 500, 600 e 750cc con l’aggiunta dell’inedito 900cc della R90S del 1973 con prestazioni pari alle concorrenti giapponesi e italiane (oltre 200 km/h). Alla fine del decennio, BMW inaugurò le fortunate serie da gran turismo carenate con cilindrata aumentata a 1.000cc (serie R100), presenti in listino anche negli anni Ottanta. Decennio, quest’ultimo, caratterizzato dalla convivenza tra il boxer simbolo della casa (utilizzato anche sulle serie da enduro protagoniste dei successi nella Parigi-Dakar come la R80G/S dotata della prima forcella monobraccio posteriore al mondo) e il 4 cilindri in linea che caratterizzò un altro best seller della casa bavarese, la serie K (da 1.000 e 750cc). Quest’ultima, prodotta in versioni carenate e non fino al decennio successivo, fu affiancata dalla serie F (un monocilidrico 650 e 800cc progettato dall’italiana Aprilia), ma l’intramontabile boxer passato da due a quattro valvole per cilindro continuò ad equipaggiare una nutrita serie di modelli, da turismo e sportivi, con cilindrate da 1.150cc, 1.200 e 1.250cc e una maxi cilindrata di 1.800cc, il «big boxer» montato sulla custom R18. A un secolo di distanza, BMW è oggi sinonimo di bicilindrico, e quanto Harley -Davidson è entrato nella leggenda del motociclismo mondiale. Una storia di un grande successo nato da un piccolo motore in quegli anni di assoluta incertezza che coincisero con gli anni di Weimar. Una vittoria nata da una grande sconfitta.
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Nel 1923 la prima moto della casa bavarese, la R32. Il suo motore boxer di derivazione aeronautica nato negli anni difficili di Weimar diventerà un simbolo del motociclismo mondiale, ancora oggi sulla cresta dell'onda a 100 anni dall'esordio.La guerra, per la Germania dell’ultimo kaiser Guglielmo II, si era conclusa drammaticamente. La sconfitta del 1918 aveva comportato la dissoluzione del Deutsches Kaiserreich (il secolare Impero germanico) e l’imposizione delle durissime clausole nate dal Trattato di Versailles. La Germania della Repubblica di Weimar era un paese in ginocchio, messa sul lastrico dalla gravissima inflazione e dal peso della riparazioni di guerra. L’industria meccanica e in particolare quella aeronautica erano paralizzate per il divieto di riarmo incluso nelle clausole della pace e di conseguenza la possibilità di produrre aeroplani.Tra le aziende che maggiormente avevano contribuito allo sviluppo dell’aviazione militare tedesca, c’era la bavarese Bayerische Flugzeugwerke (BFW) che a partire dal 1916 aveva costruito apparecchi da caccia su licenza e motori aeronautici. Questa azienda si era associata ad un altro produttore di motori per aviazione, la Rapp Motorenwerke, abbandonata durante la guerra dal fondatore e recuperata dall’ingegnere ed ex dipendente BFW Karl Popp. Quest’ultimo perfezionerà nel 1916 la fusione con la Rapp mutando la ragione sociale in Bayerische Motoren Werke (BMW). Uno dei primi prodotti dell’azienda bavarese nel primo dopoguerra fu un piccolo motore pensato per applicazioni industriali, un bicilindrico orizzontale di 494cc con distribuzione a valvole laterali progettato dall’ingegnere Max Friz. L’applicazione motociclistica avvenne poco dopo quando il motore M2 B15 (dove 2 sta per il numero di cilindri e B per boxer) fu montato sulla Helios, una motocicletta progettata inizialmente dalla Bayerische Flugzeugwerke sulla quale era stato montato il bicilindrico ma in posizione longitudinale con i cilindri allineati all’asse del telaio, in modo analogo ad un coevo motore inglese che equipaggiava una meteora del mondo del motociclismo, la britannica ABC. Pur affidabile meccanicamente, il propulsore soffriva per la difficoltà di raffreddamento del cilindro posteriore, nascosto al flusso d’aria. Max Fritz stesso dichiarò il fallimento del progetto affermando che l’unico futuro della Helios sarebbe stato quello di essere gettata in un lago. Bastò tuttavia un’idea semplice ma vincente: cambiare la disposizione del motore rispetto al telaio, con i cilindri trasversali. Questa fu la ricetta base per il futuro successo del marchio bavarese nel campo delle due ruote, che si concretizzò nel 1923 con la prima motocicletta marchiata BMW, la R32. Dotata del boxer da 8,5 cavalli la moto sfiorava la velocità massima di 100 Km/h, un traguardo ragguardevole per l’epoca. La bicilindrica portava con sé due aspetti innovativi, che rimarranno caratteristici di tutta la produzione BMW fino agli anni Novanta: la frizione monodisco a secco e la intramontabile trasmissione cardanica. Il cambio, invece, era un più tradizionale tre marce con leva al serbatoio mentre il telaio era rigido al posteriore e ammortizzato da una balestra anteriormente. La R32 evolvette durante il decennio di Weimar in modelli che ereditarono la medesima impostazione della progenitrice fino al debutto delle R11 e R16 nel 1929, dotate di un telaio totalmente nuovo e con il motore da 750cc, una cubatura che diventerà parte fondamentale della tradizione della casa tedesca. Gli anni Trenta videro lo sviluppo di modelli sempre più innovativi, rappresentati dalla capostipite R5 da mezzo litro di cubatura, caratterizzata da una linea moderna e dal telaio tubolare reso particolarmente elastico dalla saldatura ad arco elettrico e dalle 2 valvole per cilindro, in grado di regalare alla bicilindrica una velocità di punta di 140 km/h. Alla fine del decennio la casa bavarese fu coinvolta integralmente nella produzione bellica, sia per quanto riguardava il segmento dei motori aeronautici che dei veicoli e motoveicoli. Sicuramente il modello più famoso degli anni di guerra fu la R75, dotata di sidecar con trazione sulle due ruote posteriori e cambio con riduttore di velocità per affrontare forti pendenze e i terreni accidentati delle strade di guerra sia in Europa che in Africa settentrionale.La fine della guerra significò per BMW come per l’intero Paese l’anno zero. I bombardamenti alleati avevano polverizzato gli stabilimenti sul territorio tedesco e la produzione di motociclette si arrestò completamente. A differenza del primo dopoguerra quando le riparazioni affossarono l’economia di Weimar, il nuovo assetto mondiale fece sì che gli Alleati organizzassero una rapida ricostruzione nell’ottica della nuova situazione geopolitica all’alba della Guerra Fredda. Nel 1948 la casa di Monaco di Baviera riprese la produzione dei modelli prebellici, mentre la divisione della Germania generò anche la spartizione degli stabilimenti BMW. Nella DDR gli stabilimenti continuarono per un periodo la produzione sotto il medesimo marchio, fino a quando la casa madre in territorio della Repubblica Federale decise per un’azione legale internazionale dalla quale nacque la tedesco-democratica Eisenacher Motorenwerkes (EMW) che produsse per un periodo utilizzando un marchio del tutto simile a quello originale solamente modificato nei colori, in questo caso arancione in campo bianco. A Monaco di Baviera gli anni Cinquanta si aprirono con la progettazione di nuovi modelli, tra cui un inedito monocilindrico da 10 Cv che iniziò la difficile ripresa della motorizzazione tedesco occidentale. Il modello di punta del decennio uscì nel 1955, la R69 con propulsore boxer da 549cc e nuovo cardano fu un successo che la rese celebre in tutta Europa, andando ad equipaggiare le forze dell’ordine tedesche. Rimarrà in produzione per quasi tutto il decennio successivo, fino al 1969. La produzione anni Sessanta continuò all’insegna della strada tracciata dalla R69, con poche se non nulle innovazioni tecniche. Alla fine del decennio, tuttavia, la concezione della motocicletta come mezzo di locomozione primaria fu abbandonata dalla motorizzazione di massa a 4 ruote, mentre la concorrenza estera e la sempre maggiore richiesta di moto performanti spinsero la dirigenza BMW a concepire un modello completamente nuovo, marchiato dal numero seriale /5 («barra cinque») equipaggiate con il rodatissimo boxer a trasmissione cardanica e un telaio tutto nuovo, che abbandonava il trentennale tubolare. Le cilindrate della serie mantenevano le classiche cubature di 500, 600 e 750cc con l’aggiunta dell’inedito 900cc della R90S del 1973 con prestazioni pari alle concorrenti giapponesi e italiane (oltre 200 km/h). Alla fine del decennio, BMW inaugurò le fortunate serie da gran turismo carenate con cilindrata aumentata a 1.000cc (serie R100), presenti in listino anche negli anni Ottanta. Decennio, quest’ultimo, caratterizzato dalla convivenza tra il boxer simbolo della casa (utilizzato anche sulle serie da enduro protagoniste dei successi nella Parigi-Dakar come la R80G/S dotata della prima forcella monobraccio posteriore al mondo) e il 4 cilindri in linea che caratterizzò un altro best seller della casa bavarese, la serie K (da 1.000 e 750cc). Quest’ultima, prodotta in versioni carenate e non fino al decennio successivo, fu affiancata dalla serie F (un monocilidrico 650 e 800cc progettato dall’italiana Aprilia), ma l’intramontabile boxer passato da due a quattro valvole per cilindro continuò ad equipaggiare una nutrita serie di modelli, da turismo e sportivi, con cilindrate da 1.150cc, 1.200 e 1.250cc e una maxi cilindrata di 1.800cc, il «big boxer» montato sulla custom R18. A un secolo di distanza, BMW è oggi sinonimo di bicilindrico, e quanto Harley -Davidson è entrato nella leggenda del motociclismo mondiale. Una storia di un grande successo nato da un piccolo motore in quegli anni di assoluta incertezza che coincisero con gli anni di Weimar. Una vittoria nata da una grande sconfitta.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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