2023-11-06
La birra bevanda antica. Già i sumeri la consumavano
Ingredienti e valore nutrizionale sono simili a quelli del pane. I popoli antichi la offrivano in dono agli dei e ai morti. Da non confondere le non filtrate con le artigianali.Cantava Zucchero «Tu mi piaci come questa birra / che mi scende in gola e mi va giù / Ma sì, mi fai venire voglia / di prenderti però / Lo hai capito o no?» e, ancora, «Tu mi piaci come questa birra / Amara schiuma, un pomeriggio al bar / E sì, mi hai steso e mi va bene / Eppure non lo so / Se l’hai capito o no». A parte la gradevolezza della penna di Adelmo (questo il vero nome di colui che non molti sanno essere anche autore, non solo interprete), la birra è davvero facilmente bevibile: più leggera del vino, estremamente più leggera dei super alcolici, la birra è un mini alcolico frizzante apprezzato non solo in estate, quando fredda di frigo ci rinfresca, ma sempre, per esempio accanto alla pizza o l’hamburger al pub irlandese della nostra città italiana, pietanze con le quali vanta un’affinità elettiva. Le testimonianze più antiche della birra risalgono all’area mesopotamica e all’epoca dei Sumeri, presenti in Mesopotamia del sud tra IV e III millennio a.C. e considerati tra le prime civiltà urbane insieme con gli Egizi e la civiltà della Valle dell’Indo. In Mesopotamia il birraio, nella casa della birra, realizzava due tipi di birra: sikaru, la birra d’orzo, e kurunnu, la birra di farro. Quando diciamo che la birra sia pane liquido non stiamo facendo soltanto una valutazione nutrizionale targata oggi: la parola sikaru vuol dire proprio «pane liquido». Non solo il pane e la birra sono fatti con gli stessi ingredienti, farina di cereali e acqua, il pane più farina che acqua, la birra più acqua che farina, ingredienti che si mescolano tramite la stessa reazione chimica, la fermentazione; il collegamento tra pane e birra è stato in passato ancora più stretto. Al Metropolitan Museum of Art di New York si può ammirare la riproduzione scultorea in miniatura di un panificio e di una birreria ritrovata nell’egizia Tomba di Meketre, 1998-1975 a.C. in cui si vede il birraio premere pane fermentato in un contenitore che attraverso uno scolo fa cadere la birra in un altro contenitore in basso. La birra, quindi, come bevanda, come alimento e anche come medicina, non è affatto una concezione contemporanea. Essa per i popoli antichi aveva anche valore religioso, essendo bevuta durante i funerali e offerta agli dei. Ed era uno status symbol, perché era bevuta dal popolo ma prodotta innanzitutto per i reali. Va detto che antichi Greci e Romani preferivano certamente il vino alla birra, che tuttavia esisteva, sebbene minoritariamente: i Greci la importavano tramite i Fenici e i Romani ospitarono il primo pub italiano con mastri birrai di Glevum, oggi Gloucester, grazie ad Agricola, governatore della Britannia che tornò a Roma nell’83 portandoli con sé. I diffusori della birra in Europa sono certamente Germani e Celti, presenti in Gallia, Britannia e Irlanda che non a caso sono ancora oggi, soprattutto le ultime due, aree birricole sopraffine. La birra diventa tuttavia qualcosa di molto simile a ciò che beviamo oggi solo a un certo punto: in un primo tempo la bevanda contiene ancora i residui dei suoi portatori di amido, come frutta, miele, spezie e perfino pietanze. Oggi decisamente no. Il luppolo come ingrediente della birra è attestato per la prima volta da un abate carolingio nell’822, poi nel 1067 da Ildegarda di Bingen. I monasteri sono stati fondamentali per la produzione di una birra di sempre maggiore qualità e sofisticatezza, ma non pensate che la birra sia diventata in epoca medioevale una bevanda elitaria: il popolo è sempre stato un gran bevitore di birra (come di vino). Oggi, la birra è una bevanda da pasto che si ottiene dalla fermentazione alcolica del mosto, che a sua volta si ottiene infondendo in acqua una sostanza a base di amido. Il mosto è poi sottoposto a procedimento di amaricazione tramite luppolo. La sostanza a base di amido che si usa abitualmente è il malto d’orzo, e quando leggete o sentite «malto» si intende appunto di orzo, ma si possono usare anche altri malti da altri cereali come frumento, segale e avena, che devono essere specificati perché si capisca che il malto non è di orzo (altri ulteriori cereali hanno una germinazione fragile che non si presta al maltaggio). Per ottenere la birra, le fasi sono tre. La prima, preparazione del malto: il cereale si intride d’acqua, poi si dispone a strati e si attende che germini, in una settimana, massimo dieci giorni, tempo nel quale diventano disponibili gli enzimi che poi saranno responsabili della saccarificazione dell’amido. Ottenuto il malto, lo si fa essiccare (di solito con corrente di aria calda) e poi lo si sottopone a torrefazione. La temperatura della torrefazione varia a seconda che si voglia realizzare birra chiara o birra scura, idem il luppolo, più ce n'è, più la birra sarà amara. Il luppolo, ce ne sono diversi tipi, serve proprio a rettificare la dolcezza del malto. Seconda fase, il mosto. Si libera il malto dai germogli, si macina e si stempera in acqua potabile poco dura alla temperatura di 30 °C: gli enzimi trasformeranno gli amidi in zuccheri e le proteine in amminoacidi. La saccarificazione si può realizzare per infusione o per decozione e il suo risultato è il mosto. Il mosto dopo l’aggiunta del luppolo sarà poi filtrato e cotto, all’incirca un’ora e mezza, il tempo sufficiente perché il luppolo ceda il suo aroma amaro alla birra in fieri, mentre le sostanze azotate, che poi saranno asportate, coagulano. Il mosto sarà poi filtrato, raffreddato e versato nei tini a fermentare. Terza fase, fermentazione: si aggiunge il lievito al mosto nei tini aperti, colture di Saccharomyces cerevisiae o Saccharomyces carlsbergensis: in questo modo gli zuccheri fermentescibili si trasformeranno in alcol etilico e anidride carbonica. Questa è la prima fermentazione che può essere bassa, ossia 15 giorni a 5-6 °C, col risultato di birre pregiate e a lunga conservazione. Oppure alta, temperatura di 10-12 °C per 4-6 giorni per birre pronto consumo. La definizione di alta e bassa coincide anche con la temperatura rispettivamente alta e bassa, ma non è questa la ragione del nome: la fermentazione alta è effettuata con Saccharomyces cerevisiae, lievito (è un microrganismo cellulare che tecnicamente è un fungo) che si trova nei fusti dei cereali e nelle bocche dei mammiferi, agisce tra 12 e 24 °C e che, fermentando la massa in cui si trova, sale in superficie: ecco perché alta fermentazione. Le birre fermentate con questo lievito sono le Ale. La fermentazione bassa, invece, si fa con Saccharomyces carlsbergensis, scoperto per caso dai birrai tedeschi che posizionavano le loro birre a fermentare nelle grotte alpine e che agisce tra 7 e 13 °C. Essi si spostano nella parte inferiore della massa che fermentano, da ciò «bassa fermentazione». Queste birre si chiamano Lager (vuol dire magazzino, dove le birre fermentano al fresco). Ci sono anche birre a fermentazione spontanea che sfruttano tutti i lieviti indigeni presenti in un ambiente, le più note sono prodotte in Belgio col Brettanomyces bruxellensis e si chiamano Lambic. Dopo la prima, si effettua la fermentazione secondaria, le birre a bassa fermentazione temperatura intorno a 0 °C per 2-3 mesi, le birre ad alta fermentazione temperatura intorno a 10 °C per 15-20 giorni. Questa anidride carbonica della seconda fermentazione, che resta nella birra sostanziandola, conferisce alla bevanda la caratteristica frizzantezza che poi schiumeggerà una volta aperto il contenitore. A proposito di contenitore, la birra è sensibile alla luce, che può modificare componenti del luppolo e amminoacidi col risultato di cambiare il gusto della bevanda, ecco spiegato il motivo della tradizionale bottiglia marrone o verde, proprio come l’olio extravergine di oliva, oppure della lattina in alluminio. Molti confondono la birra cruda con la birra non filtrata. Altri vanno in confusione con la denominazione birra artigianale. Vediamo le differenze. La birra non filtrata è una birra non sottoposta a microfiltrazione, di conseguenza presenta un gusto e una consistenza più complessi di quelli di una birra filtrata. Complessità che «sporca», secondo chi preferisce la birra filtrata perché la trova più pulita alla vista, al gusto, al tatto e con un puro sapore di birra. La filtrazione è il processo col quale si pulisce la birra dai componenti liquidi e solidi, cioè i depositi dei lieviti, che si sono sviluppati durante la fermentazione. Ovviamente, in antichità la birra non veniva filtrata come oggi e forse anche da questo derivò il nome di pane liquido: secondo molti la birra non filtrata ha una sorta di aroma di pane. Con birra cruda, invece, si intende una birra non pastorizzata. La pastorizzazione è un procedimento che viene effettuato a fine birrificazione per consentire alla birra di durare più a lungo ed è un procedimento oggi eseguito soprattutto dai produttori industriali basato sulla scoperta ottocentesca del francese Louis Pasteur, i cui studi microbatteriologici a un certo punto volsero proprio a capire come realizzare una birra non rovinata da microrganismi: la pastorizzazione, una sorta di sterilizzazione parziale - a temperatura molto inferiore a 100 °C, intorno ai 50 - che permetteva il compromesso tra gusto e sanificazione preventiva della bevanda. La birra non pastorizzata, come quella pastorizzata, ha una data di scadenza ma a parte questo c’è il discorso delle sostanze volatili e aromatiche per cui, a parte le birre da invecchiamento, molti esperti consigliano di consumare una birra non pastorizzata entro sei mesi, un anno. La questione è innanzitutto gustativa, perciò le birre Ipa e Apa, ricche di aromi che col tempo si perdono, andrebbero consumate entro i 3 mesi (Ipa è l’acronimo di India Pale Ale, ovvero una birra ad alta fermentazione, Ale, prodotta con malto chiaro, Pale, e molto luppolata, Apa è acronimo di American Pale Ale, le Pale Ale in versione americana). Le birre a bassa gradazione alcolica come le Lager anche entro 6 mesi, le birre a gradazione alcolica alta possono essere consumate anche entro un anno. Se la birra non è pastorizzata e non è microfiltrata è una birra artigianale. Lo dice il comma 4 bis, art. 2 della legge 16 agosto 1962, n. 1354: «Si definisce birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e di microfiltrazione. Ai fini del presente comma si intende per piccolo birrificio indipendente un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza di utilizzo dei diritti di proprietà immateriale altrui e la cui produzione annua non superi 200.000 ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantita' di birra prodotte per conto di terzi». Naturalmente, possono essere prodotte birre non filtrate, non pastorizzate ed entrambi i casi anche da parte di grandi birrifici: col che tiriamo fuori la regola che non tutte le birre non filtrate e/o non pastorizzate sono artigianali, ma tutte le birre artigianali sono non filtrate e non pastorizzate. Quelli che si chiamano stili birrari sono molti, si tratta di una produzione letteralmente vasta come il mondo e con una bella connotazione territoriale che mescola colori, aromi, sapori, gradazione alcolica, ingredienti, ricetta, tipo di lievito, tipo di fermentazione e così via.
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