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2024-10-21
Nel Medio Oriente di domani l’Arabia di Bin Salman sarà ancora più centrale
Mohammed Bin Salman (Getty Images)
Se c’è una frase che descrive l’Arabia Saudita di oggi, è questa pronunciata da Mohammed bin Salman Al Saud (MbS), principe ed erede designato al trono saudita, settimo figlio di re Salman e nipote del fondatore della nazione, re Abdulaziz: «Vogliamo tornare a ciò che eravamo: un islam moderato, aperto al mondo e a tutte le religioni. Il 70% dei sauditi ha meno di 30 anni, non sprecheremo tempo a confrontarci con idee estreme: le elimineremo oggi stesso». L’Arabia Saudita, dopo gli attacchi del 7 ottobre, ha assunto un ruolo strategico complesso nel Medio Oriente. Sebbene abbia sospeso temporaneamente i negoziati di normalizzazione con Israele, il Regno continua a cercare una posizione di leadership regionale, specialmente nella gestione del conflitto israelo-palestinese. La decisione di congelare i colloqui non ha eliminato la possibilità di future intese diplomatiche, in quanto Riad mira ancora a stabilizzare la regione e a promuovere una soluzione a due Stati per rispondere alle aspettative della comunità araba e musulmana.
Ma quanto è importante per Mohammed bin Salman Al Saud la questione palestinese? La questione è molto controversa; lo scorso 27 settembre, la rivista americana The Atlantic ha scritto che il principe ereditario ha dichiarato al segretario di Stato Usa Antony Blinken di non dare personalmente priorità alla questione palestinese e di non preoccuparsene: «Il 70% della mia popolazione è più giovane di me. La maggior parte di loro non ha mai saputo molto della questione palestinese. E così vengono introdotti ad essa per la prima volta attraverso questo conflitto. È un problema enorme. Sono personalmente interessato alla questione palestinese? Io no, ma la mia gente sì, quindi devo assicurarmi che sia significativa». Poi MbS avrebbe ribadito l’importanza di affrontare la questione della creazione di uno Stato palestinese come elemento chiave di qualsiasi accordo di normalizzazione con Israele. I resoconti suggeriscono che Bin Salman sia preoccupato per la propria sicurezza nel portare avanti il processo di normalizzazione senza ottenere concessioni significative per i palestinesi, facendo riferimento all’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat come un monito significativo.
Un funzionario saudita ha successivamente negato a Middle East Eye il resoconto di quella che viene definita «una presunta conversazione tra il principe ereditario e Antony Blinken». In ogni caso, resta incerto se il principe ereditario abbia effettivamente fatto commenti controversi minimizzando la questione palestinese. Le autorità saudite non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali in merito, e il contesto della smentita del funzionario appare poco chiaro nel rapporto fornito da Middle East Eye. In questo contesto, l’Arabia Saudita cerca di bilanciare gli interessi interni ed esterni: da una parte, deve rispondere alle pressioni della popolazione pro palestinese e delle leadership arabe, mentre dall’altra deve mantenere i legami economici e strategici con gli Usa. Questi ultimi sono vitali per il progetto Vision 2030, il quale punta a diversificare l’economia saudita e ridurre la dipendenza dal petrolio. Inoltre, la recente escalation del conflitto ha rafforzato il ruolo dell’Arabia Saudita come possibile mediatore, non solo per il conflitto in corso, ma anche per future dinamiche geopolitiche che coinvolgono Iran, Hezbollah, e altri attori regionali. Mohammed bin Salman sta cercando di posizionare il Regno come un attore chiave nella ricostruzione della pace regionale, anche se con un occhio attento alla salvaguardia dei propri interessi nazionali e socioeconomici.
Questi sviluppi sono indicativi del fatto che l’Arabia Saudita continuerà a svolgere un ruolo di primo piano nelle future negoziazioni di pace, pur mantenendo una linea cauta nelle relazioni con Israele e gli altri attori regionali. Prima degli eventi del 7 ottobre 2023, il cammino verso la normalizzazione con lo Stato ebraico sembrava avanzare e, anche se non esistevano relazioni ufficiali, tra i due Paesi erano già presenti legami informali. Dichiarazioni incoraggianti da parte di leader israeliani e sauditi avevano alimentato aspettative su una possibile formalizzazione dei rapporti. Un segnale importante in tal senso è stato l’apertura dello spazio aereo saudita a tutte le compagnie aeree, inclusi i voli da e per Israele, nell’estate del 2022. L’attacco del 7 ottobre ha però rappresentato una svolta. L’Arabia Saudita, come molti altri Paesi della regione, ha assunto una posizione più critica rispetto alle operazioni militari di Israele a Gaza. A proposito della Repubblica islamica dell’Iran, con la quale Riad ha ripreso le relazioni diplomatiche grazie alla mediazione cinese nel marzo 2023, lo scorso 9 ottobre il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan, ha incontrato il suo omologo iraniano Abbas Araqchi presso la sede del ministero a Riad per discutere delle questioni regionali. Nel corso dell’incontro, i due ministri hanno esaminato le relazioni bilaterali, valutando possibili iniziative per rafforzarle ulteriormente in diversi settori. Hanno inoltre approfondito gli sviluppi regionali e gli sforzi per affrontare le sfide emergenti. Alla cerimonia hanno partecipato figure di spicco del ministero saudita, tra cui l’ambasciatore Saud Al-Sati, il consigliere politico del ministro degli Esteri, il principe Musab Al-Farhan, l’ambasciatore saudita in Iran Abdullah Al-Anzi e Mohammed Al-Yahya, consigliere del ministro degli Esteri. In precedenza, i ministri degli Esteri degli stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) e dell’Iran si erano incontrati a Doha per discutere delle recenti tensioni nella regione, ribadendo l’importanza di lavorare per la de-escalation, anche se MbS sa benissimo che la guerra in corso è frutto della scellerata decisione dell’Iran di attaccare Israele tramite Hamas il 7 ottobre 2023. L’Arabia Saudita ha un forte interesse nel mantenere la stabilità della regione, nonostante il conflitto in corso a Gaza. Eventuali crisi o guerre nei Paesi vicini possono seriamente compromettere il suo ambizioso programma di modernizzazione Vision 2030, sul quale Mohammed bin Salman ha scommesso tutto.
La via stretta tra Cina e Stati Uniti
Il 21 e 22 maggio 2024, i ministri delle Finanze di Arabia Saudita e Cina si sono incontrati a Riad. Sauditi e cinesi, al termine dei due giorni, hanno sottolineato «l’importanza di rafforzare le collaborazioni in ambiti quali l’intelligenza artificiale, le energie rinnovabili e le smart city». Si tratta di un’operazione che segue l’accordo «per una partnership strategica globale» firmato tra il principe ereditario Mohammed bin Salman e il presidente cinese Xi Jinping nel dicembre 2023. Qualche mese prima, nel marzo 2023, la Cina ha avuto un ruolo centrale nel riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e l’Iran. Nell’agosto 2023, Riad è stata invitata a partecipare al raggruppamento informale dei Brics, che comprende Cina, Brasile, Russia, India e Sudafrica. La Belt and Road Initiative (la Via della Seta) della Cina, allineata col progetto Vision 2030 dell’Arabia Saudita, ha contribuito con investimenti significativi a sostenere la spinta di Riad verso la diversificazione economica per ridurre la dipendenza dagli idrocarburi. Queste iniziative hanno aperto ampie possibilità di crescita e modernizzazione per l’Arabia Saudita. Tuttavia, il Regno si muove con cautela, cercando di bilanciare i vantaggi economici a breve termine ottenuti dalla Cina con la sua storica alleanza strategica con gli Stati Uniti, fondamentale per la sicurezza e la stabilità regionale, specie in una fase come questa, dove il Medio Oriente è in fiamme.
La crescente influenza della Cina nella regione del Golfo riflette i suoi obiettivi strategici, tra cui garantire la sicurezza delle forniture energetiche, aumentare la propria influenza e rafforzare i legami politici ed economici con i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc). La Cina è tra i principali acquirenti di petrolio dai Paesi del Golfo, inclusi Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La Belt and Road Initiative (Bri) prevede notevoli investimenti in porti, infrastrutture e logistica, volti a migliorare la connettività e le rotte commerciali, appoggiandosi fortemente alla regione del Golfo. Tutti i membri del Gcc hanno firmato l’accordo di cooperazione relativo alla Bri. Anche l’Iran ha sottoscritto tali accordi, rappresentando un raro punto di convergenza tra Teheran e i suoi rivali.
Il rafforzamento dei legami della Cina con il Golfo rappresenta un allontanamento dall’influenza predominante degli Stati Uniti? Nonostante questi sviluppi, visti con sospetto alla Casa Bianca, gli Stati Uniti mantengono una solida partnership strategica con l’Arabia Saudita, caratterizzata dalla presenza di basi militari e da una vasta cooperazione in materia di sicurezza e intelligence. L’alleanza tra i due Paesi è storicamente radicata e si fonda su un’ampia collaborazione economica e militare. L’economia saudita rimane strettamente legata a quella degli Usa, poiché le vendite di petrolio sono denominate in dollari statunitensi e la valuta saudita è ancorata al dollaro. Di conseguenza, Riad è fortemente influenzata dalla forza del dollaro e dalle fluttuazioni del mercato petrolifero. Per Washington, l’Arabia Saudita resta un alleato chiave per mantenere la stabilità del Medio Oriente, soprattutto alla luce delle ambizioni regionali dell’Iran e della lotta al fondamentalismo, con il quale l’Arabia Saudita di MbS ha tagliato i ponti, motivo per cui l’Isis e al-Qaeda lo hanno messo nel mirino. Storicamente, gli Stati Uniti hanno garantito la sicurezza del Regno, specialmente contro l’Iran e gli altri avversari regionali. Al momento, la Cina non ha dimostrato né la capacità né l'intenzione di sostituirsi agli Stati Uniti in questo ruolo, soprattutto considerando i suoi stretti legami con l’Iran, che un anno fa ha deciso di mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente con le stragi in Israele.
«L’apertura di Riad al turismo globale è il primo successo del nuovo corso»
Pietro Paolo Rampino, dodocente a contratto alla Luiss Business School di Roma e al Nibi (Nuovo istituto di business internazionale) di Milano, è un esperto nei processi di internazionalizzazione verso i Paesi arabi. Il suo ultimo libro è Arabia Saudita. La visione diventa realtà (Paesi edizioni).
Da quando Mohammed bin Salman è stato designato come erede al trono ha stravolto l’Arabia Saudita. Tutto ruota attorno al programma Vision 2030. Di cosa si tratta esattamente e a che punto è?
«Vision 2030 è un programma ambizioso che riflette un cambio di rotta nell’approccio economico e sociale dell’Arabia Saudita. Il suo scopo è duplice: da un lato, diversificare l’economia saudita, riducendo la storica dipendenza dal petrolio, e dall’altro promuovere una trasformazione a livello sociale e culturale guidando il Regno verso un futuro prosperoso. Vision 2030 si fonda su tre pilastri principali: una società vibrante, un’economia prospera e una nazione ambiziosa. Il piano mira a promuovere settori economici che possono crescere indipendentemente dal mercato degli idrocarburi, come turismo, finanza, tecnologia, infrastrutture e energie rinnovabili. L’Arabia Saudita sta inoltre investendo in settori emergenti, tra cui i distretti industriali e gli hub tecnologici, con l’obiettivo di creare un ecosistema favorevole all’innovazione e all’imprenditorialità. A oggi, il programma Vision 2030 ha già dato vita a numerose iniziative concrete. Uno dei successi più evidenti è stato l’apertura del Regno al turismo internazionale nel 2019, con l’introduzione di visti turistici, che segna un cambiamento epocale per una nazione storicamente chiusa. Istituzioni come il Public investment fund (Pif) hanno catalizzato enormi investimenti sia all’interno del Paese che all’estero. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga: mentre settori come il turismo e la tecnologia stanno fiorendo, la diversificazione dell’economia richiederà più tempo ed impegno».
Cosa non deve fare un imprenditore italiano che vuole fare affari in Arabia Saudita?
«Deve prestare molta attenzione a evitare errori legati alla cultura e alle pratiche commerciali locali. L’Arabia Saudita è un Paese con una cultura profondamente legata nella tradizione islamica e nel rispetto delle norme sociali; quindi, è essenziale approcciarsi con grande rispetto. In primo luogo, non sottovalutare l’importanza delle relazioni personali. Nel contesto saudita, la fiducia e i legami interpersonali sono alla base di qualsiasi transazione commerciale. I negoziati tendono a richiedere tempo, e gli incontri informali, come pranzi e cene, sono spesso usati per costruire rapporti di fiducia propedeutici alla discussione dei dettagli commerciali. Pertanto, un atteggiamento impaziente o troppo diretto può compromettere le trattative. Conoscere le basi delle normative locali e gli usi e costumi, specialmente per quanto riguarda la legge islamica, è importante per evitare di commettere errori. Ad esempio, ignorare i principi della finanza islamica, che vietano l’interesse e incoraggiano la condivisione dei rischi e dei profitti, potrebbe ostacolare la capacità di accedere a opportunità di finanziamento in loco oppure di chiudere contratti di partnership con potenziali soci locali. Inoltre, è importante evitare comportamenti inappropriati dal punto di vista culturale, come il mancato rispetto del codice di abbigliamento o delle norme di interazione tra uomini e donne. Questi aspetti, se trascurati, possono danneggiare irreparabilmente la reputazione di un imprenditore».
E cosa deve fare?
«In primo luogo, è importante investire tempo nella costruzione di rapporti di fiducia con i partner locali. Quella dell’Arabia Saudita è una cultura che si basa molto sugli aspetti relazionali, dove la fiducia personale gioca un ruolo centrale. Partecipare a eventi sociali e interagire con i potenziali partner al di fuori del contesto formale è spesso essenziale per instaurare solide relazioni. Un’altra chiave del successo è comprendere e rispettare la normativa commerciale e fiscale del Paese: è fondamentale studiare le leggi locali riguardanti la costituzione di società, le norme fiscali e le regole sugli investimenti stranieri. Collaborare con partner locali o consulenti esperti del mercato saudita può essere molto utile per navigare il complesso quadro giuridico. In aggiunta, molte aziende italiane hanno scelto di formare joint venture con partner sauditi, il che non solo facilita l’accesso al mercato, ma permette anche di sfruttare le reti locali. Un altro punto importante, come dicevo prima, è l’adozione di pratiche commerciali in linea con i principi della finanza islamica: essere consapevoli delle norme che regolano gli investimenti secondo la Sharia può aprire opportunità di collaborazione con istituti finanziari locali. Inoltre, investire in settori prioritari per Vision 2030, come turismo, energie rinnovabili o tecnologia, può risultare vantaggioso, in quanto il governo saudita offre incentivi significativi per attrarre investimenti stranieri in questi ambiti. Anche di questo parleremo il 27 e 28 gennaio a Roma nel Business forum annuale che vedrà appunto l’Arabia Saudita come guest country, con la partecipazione di rappresenti del governo, delle istituzioni e del settore privato saudita».
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Per raggiungere i suoi obiettivi di modernizzazione economica, al principe ereditario serve stabilità regionale. Il dialogo con l’ex arcinemico Iran e i toni bassi su Israele.I sauditi rafforzano i legami finanziari e commerciali con Pechino. Ma la relazione con gli Usa rimane indispensabile per la cooperazione militare e l’intelligence.L’esperto Pietro Paolo Rampino: «Per gli imprenditori cresceranno le opportunità di investimento in settori come la tecnologia e le energie rinnovabili. Con l’emancipazione dal petrolio, la trasformazione del Regno sarà anche culturale».Lo speciale contiene tre articoli.Se c’è una frase che descrive l’Arabia Saudita di oggi, è questa pronunciata da Mohammed bin Salman Al Saud (MbS), principe ed erede designato al trono saudita, settimo figlio di re Salman e nipote del fondatore della nazione, re Abdulaziz: «Vogliamo tornare a ciò che eravamo: un islam moderato, aperto al mondo e a tutte le religioni. Il 70% dei sauditi ha meno di 30 anni, non sprecheremo tempo a confrontarci con idee estreme: le elimineremo oggi stesso». L’Arabia Saudita, dopo gli attacchi del 7 ottobre, ha assunto un ruolo strategico complesso nel Medio Oriente. Sebbene abbia sospeso temporaneamente i negoziati di normalizzazione con Israele, il Regno continua a cercare una posizione di leadership regionale, specialmente nella gestione del conflitto israelo-palestinese. La decisione di congelare i colloqui non ha eliminato la possibilità di future intese diplomatiche, in quanto Riad mira ancora a stabilizzare la regione e a promuovere una soluzione a due Stati per rispondere alle aspettative della comunità araba e musulmana.Ma quanto è importante per Mohammed bin Salman Al Saud la questione palestinese? La questione è molto controversa; lo scorso 27 settembre, la rivista americana The Atlantic ha scritto che il principe ereditario ha dichiarato al segretario di Stato Usa Antony Blinken di non dare personalmente priorità alla questione palestinese e di non preoccuparsene: «Il 70% della mia popolazione è più giovane di me. La maggior parte di loro non ha mai saputo molto della questione palestinese. E così vengono introdotti ad essa per la prima volta attraverso questo conflitto. È un problema enorme. Sono personalmente interessato alla questione palestinese? Io no, ma la mia gente sì, quindi devo assicurarmi che sia significativa». Poi MbS avrebbe ribadito l’importanza di affrontare la questione della creazione di uno Stato palestinese come elemento chiave di qualsiasi accordo di normalizzazione con Israele. I resoconti suggeriscono che Bin Salman sia preoccupato per la propria sicurezza nel portare avanti il processo di normalizzazione senza ottenere concessioni significative per i palestinesi, facendo riferimento all’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat come un monito significativo. Un funzionario saudita ha successivamente negato a Middle East Eye il resoconto di quella che viene definita «una presunta conversazione tra il principe ereditario e Antony Blinken». In ogni caso, resta incerto se il principe ereditario abbia effettivamente fatto commenti controversi minimizzando la questione palestinese. Le autorità saudite non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali in merito, e il contesto della smentita del funzionario appare poco chiaro nel rapporto fornito da Middle East Eye. In questo contesto, l’Arabia Saudita cerca di bilanciare gli interessi interni ed esterni: da una parte, deve rispondere alle pressioni della popolazione pro palestinese e delle leadership arabe, mentre dall’altra deve mantenere i legami economici e strategici con gli Usa. Questi ultimi sono vitali per il progetto Vision 2030, il quale punta a diversificare l’economia saudita e ridurre la dipendenza dal petrolio. Inoltre, la recente escalation del conflitto ha rafforzato il ruolo dell’Arabia Saudita come possibile mediatore, non solo per il conflitto in corso, ma anche per future dinamiche geopolitiche che coinvolgono Iran, Hezbollah, e altri attori regionali. Mohammed bin Salman sta cercando di posizionare il Regno come un attore chiave nella ricostruzione della pace regionale, anche se con un occhio attento alla salvaguardia dei propri interessi nazionali e socioeconomici.Questi sviluppi sono indicativi del fatto che l’Arabia Saudita continuerà a svolgere un ruolo di primo piano nelle future negoziazioni di pace, pur mantenendo una linea cauta nelle relazioni con Israele e gli altri attori regionali. Prima degli eventi del 7 ottobre 2023, il cammino verso la normalizzazione con lo Stato ebraico sembrava avanzare e, anche se non esistevano relazioni ufficiali, tra i due Paesi erano già presenti legami informali. Dichiarazioni incoraggianti da parte di leader israeliani e sauditi avevano alimentato aspettative su una possibile formalizzazione dei rapporti. Un segnale importante in tal senso è stato l’apertura dello spazio aereo saudita a tutte le compagnie aeree, inclusi i voli da e per Israele, nell’estate del 2022. L’attacco del 7 ottobre ha però rappresentato una svolta. L’Arabia Saudita, come molti altri Paesi della regione, ha assunto una posizione più critica rispetto alle operazioni militari di Israele a Gaza. A proposito della Repubblica islamica dell’Iran, con la quale Riad ha ripreso le relazioni diplomatiche grazie alla mediazione cinese nel marzo 2023, lo scorso 9 ottobre il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, il principe Faisal bin Farhan, ha incontrato il suo omologo iraniano Abbas Araqchi presso la sede del ministero a Riad per discutere delle questioni regionali. Nel corso dell’incontro, i due ministri hanno esaminato le relazioni bilaterali, valutando possibili iniziative per rafforzarle ulteriormente in diversi settori. Hanno inoltre approfondito gli sviluppi regionali e gli sforzi per affrontare le sfide emergenti. Alla cerimonia hanno partecipato figure di spicco del ministero saudita, tra cui l’ambasciatore Saud Al-Sati, il consigliere politico del ministro degli Esteri, il principe Musab Al-Farhan, l’ambasciatore saudita in Iran Abdullah Al-Anzi e Mohammed Al-Yahya, consigliere del ministro degli Esteri. In precedenza, i ministri degli Esteri degli stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) e dell’Iran si erano incontrati a Doha per discutere delle recenti tensioni nella regione, ribadendo l’importanza di lavorare per la de-escalation, anche se MbS sa benissimo che la guerra in corso è frutto della scellerata decisione dell’Iran di attaccare Israele tramite Hamas il 7 ottobre 2023. L’Arabia Saudita ha un forte interesse nel mantenere la stabilità della regione, nonostante il conflitto in corso a Gaza. 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Si tratta di un’operazione che segue l’accordo «per una partnership strategica globale» firmato tra il principe ereditario Mohammed bin Salman e il presidente cinese Xi Jinping nel dicembre 2023. Qualche mese prima, nel marzo 2023, la Cina ha avuto un ruolo centrale nel riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e l’Iran. Nell’agosto 2023, Riad è stata invitata a partecipare al raggruppamento informale dei Brics, che comprende Cina, Brasile, Russia, India e Sudafrica. La Belt and Road Initiative (la Via della Seta) della Cina, allineata col progetto Vision 2030 dell’Arabia Saudita, ha contribuito con investimenti significativi a sostenere la spinta di Riad verso la diversificazione economica per ridurre la dipendenza dagli idrocarburi. Queste iniziative hanno aperto ampie possibilità di crescita e modernizzazione per l’Arabia Saudita. Tuttavia, il Regno si muove con cautela, cercando di bilanciare i vantaggi economici a breve termine ottenuti dalla Cina con la sua storica alleanza strategica con gli Stati Uniti, fondamentale per la sicurezza e la stabilità regionale, specie in una fase come questa, dove il Medio Oriente è in fiamme. La crescente influenza della Cina nella regione del Golfo riflette i suoi obiettivi strategici, tra cui garantire la sicurezza delle forniture energetiche, aumentare la propria influenza e rafforzare i legami politici ed economici con i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc). La Cina è tra i principali acquirenti di petrolio dai Paesi del Golfo, inclusi Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La Belt and Road Initiative (Bri) prevede notevoli investimenti in porti, infrastrutture e logistica, volti a migliorare la connettività e le rotte commerciali, appoggiandosi fortemente alla regione del Golfo. Tutti i membri del Gcc hanno firmato l’accordo di cooperazione relativo alla Bri. Anche l’Iran ha sottoscritto tali accordi, rappresentando un raro punto di convergenza tra Teheran e i suoi rivali. Il rafforzamento dei legami della Cina con il Golfo rappresenta un allontanamento dall’influenza predominante degli Stati Uniti? Nonostante questi sviluppi, visti con sospetto alla Casa Bianca, gli Stati Uniti mantengono una solida partnership strategica con l’Arabia Saudita, caratterizzata dalla presenza di basi militari e da una vasta cooperazione in materia di sicurezza e intelligence. L’alleanza tra i due Paesi è storicamente radicata e si fonda su un’ampia collaborazione economica e militare. L’economia saudita rimane strettamente legata a quella degli Usa, poiché le vendite di petrolio sono denominate in dollari statunitensi e la valuta saudita è ancorata al dollaro. Di conseguenza, Riad è fortemente influenzata dalla forza del dollaro e dalle fluttuazioni del mercato petrolifero. Per Washington, l’Arabia Saudita resta un alleato chiave per mantenere la stabilità del Medio Oriente, soprattutto alla luce delle ambizioni regionali dell’Iran e della lotta al fondamentalismo, con il quale l’Arabia Saudita di MbS ha tagliato i ponti, motivo per cui l’Isis e al-Qaeda lo hanno messo nel mirino. Storicamente, gli Stati Uniti hanno garantito la sicurezza del Regno, specialmente contro l’Iran e gli altri avversari regionali. 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La visione diventa realtà (Paesi edizioni). Da quando Mohammed bin Salman è stato designato come erede al trono ha stravolto l’Arabia Saudita. Tutto ruota attorno al programma Vision 2030. Di cosa si tratta esattamente e a che punto è? «Vision 2030 è un programma ambizioso che riflette un cambio di rotta nell’approccio economico e sociale dell’Arabia Saudita. Il suo scopo è duplice: da un lato, diversificare l’economia saudita, riducendo la storica dipendenza dal petrolio, e dall’altro promuovere una trasformazione a livello sociale e culturale guidando il Regno verso un futuro prosperoso. Vision 2030 si fonda su tre pilastri principali: una società vibrante, un’economia prospera e una nazione ambiziosa. Il piano mira a promuovere settori economici che possono crescere indipendentemente dal mercato degli idrocarburi, come turismo, finanza, tecnologia, infrastrutture e energie rinnovabili. L’Arabia Saudita sta inoltre investendo in settori emergenti, tra cui i distretti industriali e gli hub tecnologici, con l’obiettivo di creare un ecosistema favorevole all’innovazione e all’imprenditorialità. A oggi, il programma Vision 2030 ha già dato vita a numerose iniziative concrete. Uno dei successi più evidenti è stato l’apertura del Regno al turismo internazionale nel 2019, con l’introduzione di visti turistici, che segna un cambiamento epocale per una nazione storicamente chiusa. Istituzioni come il Public investment fund (Pif) hanno catalizzato enormi investimenti sia all’interno del Paese che all’estero. Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga: mentre settori come il turismo e la tecnologia stanno fiorendo, la diversificazione dell’economia richiederà più tempo ed impegno». Cosa non deve fare un imprenditore italiano che vuole fare affari in Arabia Saudita? «Deve prestare molta attenzione a evitare errori legati alla cultura e alle pratiche commerciali locali. L’Arabia Saudita è un Paese con una cultura profondamente legata nella tradizione islamica e nel rispetto delle norme sociali; quindi, è essenziale approcciarsi con grande rispetto. In primo luogo, non sottovalutare l’importanza delle relazioni personali. Nel contesto saudita, la fiducia e i legami interpersonali sono alla base di qualsiasi transazione commerciale. I negoziati tendono a richiedere tempo, e gli incontri informali, come pranzi e cene, sono spesso usati per costruire rapporti di fiducia propedeutici alla discussione dei dettagli commerciali. Pertanto, un atteggiamento impaziente o troppo diretto può compromettere le trattative. Conoscere le basi delle normative locali e gli usi e costumi, specialmente per quanto riguarda la legge islamica, è importante per evitare di commettere errori. Ad esempio, ignorare i principi della finanza islamica, che vietano l’interesse e incoraggiano la condivisione dei rischi e dei profitti, potrebbe ostacolare la capacità di accedere a opportunità di finanziamento in loco oppure di chiudere contratti di partnership con potenziali soci locali. Inoltre, è importante evitare comportamenti inappropriati dal punto di vista culturale, come il mancato rispetto del codice di abbigliamento o delle norme di interazione tra uomini e donne. Questi aspetti, se trascurati, possono danneggiare irreparabilmente la reputazione di un imprenditore». E cosa deve fare? «In primo luogo, è importante investire tempo nella costruzione di rapporti di fiducia con i partner locali. Quella dell’Arabia Saudita è una cultura che si basa molto sugli aspetti relazionali, dove la fiducia personale gioca un ruolo centrale. Partecipare a eventi sociali e interagire con i potenziali partner al di fuori del contesto formale è spesso essenziale per instaurare solide relazioni. Un’altra chiave del successo è comprendere e rispettare la normativa commerciale e fiscale del Paese: è fondamentale studiare le leggi locali riguardanti la costituzione di società, le norme fiscali e le regole sugli investimenti stranieri. Collaborare con partner locali o consulenti esperti del mercato saudita può essere molto utile per navigare il complesso quadro giuridico. In aggiunta, molte aziende italiane hanno scelto di formare joint venture con partner sauditi, il che non solo facilita l’accesso al mercato, ma permette anche di sfruttare le reti locali. Un altro punto importante, come dicevo prima, è l’adozione di pratiche commerciali in linea con i principi della finanza islamica: essere consapevoli delle norme che regolano gli investimenti secondo la Sharia può aprire opportunità di collaborazione con istituti finanziari locali. Inoltre, investire in settori prioritari per Vision 2030, come turismo, energie rinnovabili o tecnologia, può risultare vantaggioso, in quanto il governo saudita offre incentivi significativi per attrarre investimenti stranieri in questi ambiti. Anche di questo parleremo il 27 e 28 gennaio a Roma nel Business forum annuale che vedrà appunto l’Arabia Saudita come guest country, con la partecipazione di rappresenti del governo, delle istituzioni e del settore privato saudita».
Maurizio Landini (Ansa)
Tema cruciale: la nuova puntata di una saga che ormai è venuta a noia anche ai diretti interessati, lo sciopero generale contro il governo di centrodestra. Appuntamento per il 12 dicembre. La manovra è una scusa che viene buona per dire peste e corna di Meloni & C. Si parla di drenaggio fiscale (sale la pressione fiscale a causa dell’inflazione in presenza di aliquote crescenti), pensioni, precari, sanità e patrimoniale. Insomma, un bel pot-pourri di tutti gli ever green della casa. E poco importa al segretario leader dei talk show che alcuni dei suoi temi caldi siano stati ampiamente confutati. Basta ripeterli e alle orecchie di chi ama sentirli diventano veri.
Il problema è che una buona parte del Paese avrebbe voluto sentire anche parole diverse da Landini. Poche, ma decise. Sarebbe bastato chiedere scusa per i fattacci di venerdì mattina. Per l’inseguimento durato un chilometro di una ventina di sindacalisti con le felpe della Fiom che hanno poi menato almeno due colleghi della Uilm, colpevoli di non aver partecipato a un altro sciopero, quello dei metalmeccanici che aveva come epicentro l’ex Ilva. Insomma, il minimo sindacale. E invece niente.
Le scuse se le sarebbe aspettate anche il segretario generale della Uilm ligure, Luigi Pinasco (dimesso con 10 giorni di prognosi dopo i colpi ricevuti sul capo) che nell’aggressione di venerdì scorso le ha prese insieme al segretario organizzativo Claudio Cabras (dimesso poco dopo con 7 giorni di prognosi, in seguito ai colpi ricevuti alla gamba). «Sono amareggiato e deluso per le mancate scuse e la mancata presa di distanza del segretario della Cgil», evidenzia Pinasco alla Verità, «io sono pronto a fare qualsiasi battaglia per conservare anche un singolo posto di lavoro e non nutro astio verso i miei aggressori, ma credo che la violenza vada sempre condannata. E soprattutto che vada condannata da chi ha un ruolo di rappresentanza così importante. È un esempio che va dato».
Anche perché da qualcun altro le scuse sono arrivate. «Guardi», continua, «a livello locale i colleghi della Fiom che lavorano in altre fabbriche mi hanno mostrato la loro solidarietà e hanno evidenziato tutto il loro disappunto per quello che è successo all’assemblea dell’ex Ilva lo scorso venerdì mattina. Poi però nessuno ha intenzione di esporsi in modo ufficiale perché evidentemente teme ritorsioni». C’è un brutto clima a Genova e in tanti danno la colpa agli esponenti di Lotta Comunista che in alcuni stabilimenti locali fanno il bello e il cattivo tempo. E non da adesso.
«Devo essere sincero», prosegue, «qui la contrapposizione sul diverso modo di affrontare le battaglie in fabbrica è alta, ma mai avrei pensato che saremmo arrivati a questo livello. Lotta Comunista? Io non so che tessere politiche abbiano in tasca i lavoratori, ma di sicuro certi circoli e movimenti in città sono ben radicati. E proprio per questo un invito alla calma in più non farebbe male».
Così come gesti di distensione servirebbero anche dalla politica locale. Non è un mistero, per esempio, che nella manifestazione dei metalmeccanici di giovedì, quella che ha visto come protagoniste Cgil e Cisl, ma non la Uil, l’intervento rassicurante del governatore Marco Bucci abbia avuto un effetto calmante.
«Non lo so», continua Pinasco, «credo però che quella dell’ex Ilva sia una questione molto complessa e che possa trovare delle soluzioni idonee solo a livello nazionale. Nulla contro il sindaco Salis e il governatore Bucci, ci mancherebbe, ma ci andrei piano con le promesse di salvataggio per Genova perché se poi non si avverano si rischia di accendere gli animi ancor di più. E in questo momento non ne sentiamo il bisogno».
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Marco Scatarzi in foto piccola (Ansa)
Marco Scatarzi, dal 2017 direttore di Passaggio al bosco, è stanco ma tranquillo, di sicuro soddisfatto nonostante i momenti di tensione. Con La Verità ripercorre i passaggi che hanno portato il suo marchio ad avere uno stand alla fiera romana «Più libri più liberi». «Da anni facevamo domanda di partecipazione con la regolare modulistica e per anni siamo stati sempre avvisati che gli spazi non erano disponibili», spiega. «Anche quest’anno in realtà avevamo ricevuto l’email che appunto ci avvisava della mancanza di spazi disponibili, poi però siamo stati ripescati a settembre e ci è stato concesso uno stand».
Come mai?
«Perché lo scorso anno, in polemica con l’organizzazione, molte case editrici di sinistra avevano disdetto la prenotazione e quindi hanno liberato spazi».
Dunque esiste una polemica interna fra la direzione della fiera e le case editrici?
«Mi sembra di aver colto questa polemica che si protrae da anni, per le più svariate motivazioni che ogni anno cambiano. Quest’anno è stata Passaggio al bosco l’oggetto del contendere, ma una dialettica accesa esiste da tempo».
Che cosa vi è stato richiesto per partecipare?
«C’è un regolamento da sottoscrivere con varie clausole, che per altro molti hanno citato nei giorni scorsi. Si chiede il rispetto della Costituzione, dei diritti umani... E poi ovviamente c’è la quota di pagamento che attesta appunto l’affitto dello spazio».
Fate richiesta da anni. Nessuno vi aveva mai detto nulla?
«No, assolutamente no».
Poi è arrivato l’appello, la richiesta di cacciarvi da parte di un centinaio tra autori e case editrici. Come ne siete venuti a conoscenza?
«Lo abbiamo appreso dai social network dopo che l’onorevole Fiano, con un post, ha chiesto il nostro allontanamento dalla fiera. Quel post ha generato nei giorni seguenti l’appello di Zerocalcare e degli altri intellettuali, se così possiamo definirli, che appunto chiedevano di mandarci via».
Vi hanno accusato di essere fascisti e neonazisti. Cosa rispondete?
«Che abbiamo un catalogo vastissimo, con parecchie di collane, 300 titoli e un pluriverso di autori che spaziano geograficamente in tutto il mondo e in tutte le anime della cosiddetta “destra”. Abbiamo un orientamento identitario e cerchiamo di rappresentare le varie anime del pensiero della destra, dando corpo ad un approfondimento che abbraccia storia, filosofia, società, geopolitica, sport, viaggi e molto altro. Ovviamente, come da prassi, il tutto viene sistematicamente strumentalizzato attraverso i soliti spauracchi caricaturali: ciò che disturba, senza dubbio, è la diffusione di un pensiero non allineato, soprattutto sui temi di stretta attualità. Le voci libere dal coro unanime del progressismo, si sa, sono sempre oggetto di demonizzazione».
Vi hanno rimproverato di aver pubblicato Léon Degrelle.
«Rispondo citando ciò che Roberto Saviano ha detto a Più libri più liberi, quando ha risposto alle polemiche alzate dai firmatari della petizione: tutti i libri hanno il diritto di essere letti e di esistere. Non abbiamo bisogno di badanti ideologiche… Ebbene, noi cerchiamo di offrire uno sguardo diverso, un punto di vista anche radicale, perché riteniamo che sia importante conoscere tutto. E non ci sentiamo di dover prendere lezioni di morale da chi magari nei propri cataloghi - del tutto legittimamente, perché io per primo li leggo - ha libri altrettanto radicali, benché di orientamento opposto a quello che viene rimproverato a noi».
Come è stata la permanenza alla fiera?
«Ci sono state molte contestazioni, diverse aggressioni verbali, cortei improvvisati, cori con “Bella ciao” e tentativi di boicottaggio che hanno cercato di minare la nostra partecipazione. Non ce ne lamentiamo: abbiamo risposto con la forza tranquilla del nostro sorriso, svolgendo il nostro lavoro».
E i vertici della fiera? È venuto qualcuno a parlare con voi?
«Sì, naturalmente. Hanno apprezzato il nostro profilo asciutto e professionale. Qualcuno ha scambiato la fiera per un centro sociale, ma non ci siamo mai fatti intimorire o provocare. Abbiamo evitato in ogni modo possibile di alimentare la polemica e non ci siamo prestati alla ribalta mediatica provocazioni anzi le abbiamo anche accolte col sorriso e non abbiamo neanche cercato la ribalta mediatica: il nostro - appunto - è un lavoro editoriale di approfondimento. Può non piacere, ma ha diritto di esprimersi».
Zerocalcare dice che avete organizzato un’operazione politica, che siete organici al partito di governo.
«Ovviamente non esiste alcuna operazione politica: esiste soltanto una casa editrice che partecipa ad una fiera dedicata ai libri. L’operazione politica - semmai - è quella della sinistra radicale che si organizza per montare una polemica, cercando di censurare chi la pensa diversamente. Hanno montato una polemica politica stucchevole, che molti hanno condannato anche da sinistra. Peraltro, sottolineo ancora una volta che Passaggio al bosco contiene in sé un pluriverso enorme di autori, di esperienze, di persone e di realtà: alcune sono impegnate politicamente, molte altre no. Di certo, non può essere ritenuta organica ad alcunché, se non alla propria attività di divulgazione culturale. Ma poi, con quale coraggio una sinistra radicale che fa sistema da anni, spesso con la logica della “cupola”, si permette di avanzare simili obiezioni?»
Chiederete di partecipare a Più libri più liberi anche l’anno prossimo?
«Certamente. Chiederemo di partecipare - come quest’anno - ad un festival che ospita gli editori. Saremo felici di esserci con i nostri testi, con i nostri autori e con la nostra attività. Sicuramente, anche al di là delle contestazioni, quella appena conclusa è stata un’esperienza importante, in una fiera ben organizzata e molto bella. Avremmo piacere di ripeterla».
Avete venduto bene?
«Abbiamo venduto benissimo, terminando tutti i nostri libri. Per quattro volte siamo dovuti tornare a rifornirci in Toscana e il nostro è stato certamente uno degli stand più visitati della fiera. Il boicottaggio ha sortito l’effetto contrario: ci hanno contattato già centinaia di autori, di distributori, di traduttori, di agenti pubblicitari e di addetti ai lavori. Ogni tipo di figura operante nel campo dell’editoria non solo ci ha mostrato solidarietà, ma è venuta da noi a conoscerci e a proporci nuove collaborazioni. Quindi, se prima eravamo una casa editrice emergente, adesso abbiamo accesso ad un pubblico più ampio e a canali che ci permetteranno di arrivare là dove non eravamo mai arrivati».
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